Vi dono e rinunzio

20 – vi dono e rinunzio tutta la mia volontà, gli affetti, i desiderj, e tutte le cose mie.

Francesco d’Assisi davanti al vescovo Guido, nella piazza dell’episcopio, si spoglia nudo e i suoi vestiti, comprese le mutande, getta ai piedi di messer Bernardone, in un gesto plateale, spettacolare, dimostrativo coram populo di aver ricevuto il fuoco di Gesù, quello che porta alla divisione, alla separazione, al distacco. Qualcuno ci potrebbe dire che poi, forse in segreto, in una proprietà del padre per poco tempo porta a stare insieme i primi seguaci; ma sono le contrapposizioni della storia. E quando muore anche le mutande di frate Jacopa non vuole indossare e allora se le lascia mettere quando gli danno il convincimento quelli che gli stanno attorno che esse non sono sue, di sua proprietà. Le contraddizioni e le esagerazioni dei santi, i quali, e san Francesco più di tutti, il desiderio di esser primi ce l’hanno, e forte, cioè l’affermazione della loro personalità ricercano nella gloria di Dio, e in questo sono furbi, assai furbi. Comunque, Francesco d’Assisi si spoglia dei vestiti e, se è santo, certamente anche delle cose che non si vedono dell’uomo vecchio.

Ci penso mentre recito la preghiera di sant’Alfonso, che lo stesso di tutto fa spoliazione e tutto dona a Gesù in carne ed ossa, con un realismo ascetico espresso in poche, scarne parole, ma pregno di senso e indicativo di un percorso lungo e laborioso, irto di ostacoli e di tranelli, scandito da cadute e riprese continue quanto faticose. La donazione precede la rinunzia: da questo ordine di azioni si evince facile che quel che muove tutti i meccanismi della vita interiore, del cervello e del cuore, nel de’ Liguri è l’amore, essenziale, sottomesso, silenzioso, ma ardente e pressante. Tutto io dono a te, Gesù Figlio di Dio vivo e vero, com’è, difettoso, insignificante, di poco valore, affinché tu lo trasformi nel tuo amore immenso. Tutto di me ti dono, e lo butto nel vortice della tua carità affinché bruci e ne fuoco del tuo essere si forgi e si temperi come vuoi tu.

In questa donazione amorosa, interessata certamente come tutte le cose dell’ascetica e della mistica, come tutte le cose che riguardano la propria salvezza, io ravviso la grande umiltà della preghiera. L’umiltà è comunque la virtù che toglie ogni paura, l’umiltà che general la libertà, la libertà autentica, quella che mi fa gridare al cielo, al mare e alla terra che io valgo, mio Dio, per quel che valgo davanti agli occhi tuoi. Ratzinger su questo tema, agganciandosi al centrale tema della Torah, osserva che tutto si risolve nella verità che è Cristo Gesù.

Ma ribadire il concetto di libertà secondo la morale cattolica val la pena prima di riportare quanto scrive Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret. La libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. È il Catechismo a sancirlo in maniera precisa. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella carità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio. La libertà implica la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e conseguentemente quella di avanzare nel cammino della salvezza oppure di venire meno e disubbidire.

Ratzinger fa annotazioni che vale la pena di sottolineare. Ed eccoci di nuovo giunti alla Torah del Messia, alla lettera di Paolo ai galati: siete stati chiamati a libertà, non a una libertà cieca e arbitraria, a una libertà secondo la carne, direbbe pure Paolo, ma a una libertà illuminata, che ha il proprio ancoraggio nella comunione di volontà con Gesù e così con Dio stesso, a una libertà dunque che, in base a un nuovo modo di vedere, edifica proprio ciò che costituisce l’intenzione più profonda della Torah, con Gesù la universalizza dal suo interno e così veramente la porta a compimento.

Nel frattempo, però, questa liberà è stata interamente sottratta allo sguardo su Dio e alla comunione con Gesù. La libertà per l’universalità e quindi per la giusta laicità dello Stato si è trasformata in qualcosa di assolutamente profano, in laicismo, per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi. Per il cristiano credente le disposizioni della Torah restano decisamente un punto di riferimento, al quale egli guarda sempre, soprattutto la ricerca della volontà di Dio nella comunione con Gesù resta un segnavia per la sua ragione, che senza di essa corre sempre il pericolo dell’offuscamento, della cecità.

La pienezza della libertà si raggiunge con la rinunzia: rinunziare è abbandonare o non accettare cosa che si possiede o che si potrebbe possedere di pieno diritto e anche astenersi dal fare cosa che si avrebbe il diritto di fare. E non son cose di poco conto quelle che enuncia sant’Alfonso nella sua preghiera; potremmo dire che è tutto, e saremmo con lui collimanti nell’uso del termine, anche in questa proposizione richiamato, e ben due volte. Non sbaglieremmo, se definissimo mediterranea questa maniera di ammucchiare le cose, perché si vuole chiudere in una sintesi sbrigativa quanto genericamente esaustiva un discorso lungo e piuttosto complesso. Comunque, si elencano delle cose che non si vedono, le più importanti, la propria volontà, «tutta», proprio tutta, gli affetti e i desideri.

Riflettessimo bene su tali elementi, diremmo che la rinuncia così totale è la rinunzia alla propria libertà, cioè alla padronanza dei propri atti, e nella sfera intellettiva, e in quella affettiva, e in quella desiderativa. È l’accettazione del fuoco di Cristo. Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso. Questo fuoco porta dolore, sofferenza, pene di ogni tipo. Ma è conveniente accettarlo: ogni terreno affetto convienti rinunziare, suggerisce Jacopone da Todi a dimostrarci che le vie dell’ascesi sono antiche e che pure ai suoi tempi si ricalcano, eguali a quelle delle predicazione di Cristo, eguali a quelle d’oggi, immutabili perché immutabile è l’animo umano con le sue passioni, un termine che appartiene al patrimonio cristiano, bene specificante le componenti naturali della psicologia umana, le quali fanno da tramite e assicurano il legame fra la vita sensibile e la vita dello spirito. Cristo indica il cuore dell’uomo come la sorgente da cui nasce il movimento delle passioni; nulla c’è fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo.

Non può il de’ Liguori in una preghiera elencare gli oggetti della rinunzia e la soluzione individuata nell’assemblare in «tutte le cose mie» ogni sua risorsa e ogni sua disponibilità, soluzione omnicomprensiva, è rivelatrice della determinazione definitiva di liberarsi di ogni cosa umana per avere la libertà di figlio di Dio. Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. In lui abbiamo comunione con la verità che ci fa liberi. Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E per ottenere questa libertà, la libertà dei figli di Dio di cui ci gloriamo, che dobbiamo spogliarci di noi stessi. Non è facile, e lo sa bene sant’Alfonso, che ci invita a chiederlo a Cristo eucaristico, cioè a Cristo che è vicino a noi in carne ed ossa, a Cristo che mangiamo. Tutto ciò a cui rinunciamo, il vecchio uomo di ieri, per dirla in una parola sola, il vecchio uomo di un istante fa, doniamo a lui perché lo bruci nel suo amore.

Questa tensione liberatoria che è nella rinuncia e nell’adorazione della preghiera è di chi è mendicante di Dio. Il povero in via è alla ricerca di Dio: più povero si fa, più sente la voce di Dio che lo ama. Il Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. Per sentirlo dobbiamo fare il silenzio dentro di noi, svuotandoci di tutto ciò che possa comprometterlo. Signore, son qui ai tuoi piedi, no, vicino a te, seduto sullo scanno della cappella dove tu stai chiuso, come sempre a cercare di vederti. Questa volta vorrei ragionare con te dell’umiltà che non ho, e l’umiltà è la base della preghiera, delle parole che ripeto con sant’Alfonso, ma che comportano coraggio, determinazione, forza, le cose che non ho. Ti dico della voglia che non ho piena, «tutta», di rinunciare e di donare. Questa voglia imperfetta falla tua, prenditela tu, assumila come strumento della mia salvezza. Una cosa è certa, e sappila bene: almeno come fatto dell’intelligenza non ho abbandonato te, sorgente d’acqua viva, per scavarmi cisterne, cisterne screpolate. La sorgività del tuo amore, qui, dove sei vivo e vero, in carne, sangue, anima e divinità, è il principio vitale de mio essere e del mio esistere.