Manzo_Testimonianze liber catulliano

ANTONIO MANZO

TESTIMONIANZE E TRADIZIONE DEL “LIBER” CATULLIANO NELLA LETTERATURA ESEGETICO-SCOLASTICA ANTICA

ESTRATTO dalla «RIVISTA DI STUDI CLASSICI» edita e diretta dal Prof. Vittorio D’Agostino Anno XV – Fasc. III – Maggio-Agosto 1967

Catullo, per l’originalità dimostrata nell’avvicinarsi alla poesia ellenistica e per l’immediatezza raggiunta nel dare ascolto alle voci dell’animo suo, non è un poeta di scuola e perciò, nel mondo della scuola, non dovette mai prendere piede né riscuotere successo.

Indicativo, al riguardo, è il pensiero di Quintiliano, il cui modo di giudicare in fatto di poesia è determinato dalle tendenze classicistiche sostanzianti la sua teoria estetica e dalle finalità proprie della Institutis oratoria.[1] Se, infatti, egli ritiene di poter riscontrare anche in Catullo la mordacità tipica della poesia giambica fiorita presso i Greci, non ha dubbi nello scrivere che, fra i poeti lirici, Horatius fere solus legi dignus.[2] E si capisce: Orazio ebbe, rispetto a Catullo, più “mestiere” e nelle sue opere raggiunse il massimo della perfezione formale. In seguito, nel secondo secolo dopo Cristo, con l’affermarsi di una corrente culturale che si propose di risalire dalla classicità verso le origini della lingua e con la tendenza a correre dietro alle parole più che ai sentimenti ed alle idee, il Veronese incontra fortuna: infatti, a chi risalga di classici verso l’antico appare per via Catullo. La sua opera è largamente diffusa; che sia anzi apprezzato risulta, in particolare, da Aulo Gellio che lo chiama elegantissimus poetarum e lo cita, testimoniando, nel contempo, che esistevano diverse redazioni del Liber.[3] I dotti, a quanto sembra, proprio ora cominciano ad affrontare il problema della sua interpretazione. Alcune glosse catulliane, verisimilmente, risalgono appunto al secondo secolo, periodo in cui fiorì l’esegesi romana testimoniata dai grandi commenti a Virgilio, ad Orazio, a Terenzio, a Sallustio, a Cicerone e, si direbbe, anche a Catullo, in base a quanto possiamo dedurre dalle scarse notizie della ricerca filologica. È da segnalarsi, tra l’altro, il De verborum significatu di Verrio Flacc, conservato nel compendio di Sesto Pompeo Festo e nella sintesi che dell’epitome fece più tardi Paolo Diacono. Qui, nella vastissima mole di termini rari e arcaici spiegati sulla scorta di autori antichi, si leggono interessanti citazioni catulliane, che a suo tempo esamineremo da vicino.

Ci limitiamo, per il momento, a dire che l’esistenza di glosse catulliane fa pensare a qualche grammatico che s’assunse il compito di commentare il Liber, o almeno quei carmi che presentavano difficoltà ermeneutiche ed esegetiche oppure che erano alquanto astrusi per certi loro spunti allusivi.[4] Oggi, però, non resta che lamentare la quasi completa perdita della letteratura esegetico-scolastica antica fiorita intoro a Catullo; perciò la sua poesia presenta tuttora molteplici problemi che altrimenti potrebbero essere stati da tempo chiariti.

Versi catulliani ricorrono nei lavori dei grammatici che s’interessarono di metrica, per cui fu anche ipotizzata l’esistenza d’un testo particolare noto ai metricisti latini.[5]

Periodo di profonda crisi spirituale è il terzo secolo, che segna anche un eclissarsi del genio di Roma: Catullo è ormai un libro chiuso e Pomponio Porfirione, fiorito in questi anni, fu con ogni probabilità l’ultimo che conobbe direttamente il Liber catulliano. E già Terenzio Mauro, che nel De metris ricorda l’inizio dell’opera poetica del “dotto Catullo”,[6] si allinea con quanti, d’ora in avanti, lo ricorderanno o per citazioni altrui o per reminiscenze di seconda mano. Lo stesso può dirsi non solo in ordine a poeti del quarto secolo, come Ausonio e Claudiano, o posteriori, come Apollinare Sidonio, Draconzio e Boezio, ma anche ad eruditi come Marziano Capella, Macrobio, Isidoro di Siviglia e Giuliano Toletano.[7]

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1,1: Quod dono lepidum novum libellum. Il verso figura in diversi luoghi della tradizione indiretta: da solo, si legge in Ausonio (eclog. 1,1 p. 120 Schenkl = p. 86 Peiper) ed insieme col seguente in Isidoro di Siviglia (etytn. 6,12,3); entrambi, insieme col quarto, sono riportati da Cesio Basso (de metris p, 260 sg. Keil), da Terenziano Mauro (de metris 2562-2564 p. 401 K.) e da Mario Vittorino (ars gramm. p. 148, 19 K.). Vd. anche Atilio Fortunaziano (ars p. 298, 2 K.) e gli scolii veronesi a Virgilio (bue. 6,1 p. 73 K.=Thilo-Hagen 3,2 p. 397). Godeste fonti tramandano la lezione cui in accordo con i codici catulliani, confermando il fatto che essi ci danno, in genere, la grafia in uso nel quarto o quinto secolo. Ma tutto induce a credere che la forma quoi fu usata da Catullo, come pure ad ammettere valida tale grafia tutte le volte che nel Liber ricorre il dativo singolare dei pronomi relativo e indefinito.[1] Quintiliano (1,7,27) ci attesta l'uso di quoi come monosillabo lungo fino ai suoi giorni, allorquando fu sostituito da cui.[2] Sulla grafia novum o novom c'è da dire che, se da una parte i grammatici e le iscrizioni consigliano di accet­tare novom, in quanto sembra rispondente a quella in uso nell'età catulliana,[3] dall'altra, in accordo con la tradizione manoscritta, può ritenersi che il Vero­nese abbia scritto novum in forza dell'omoeteleuto lepidum novum libellum, testimoniandoci cosi che gradiva un procedimento stilistico analogo a quello che si riscontra in quam quoniam poenam di 99,15 (vd. anche Lenchantin, p. 2). 1,2: Arida... pumice... Accanto alla tradizione V ed alle fonti già citate a proposito di 1,1, che, attestando arido, denunciano la concordanza con pumice di genere maschile, si registra una notizia di Servio che rende accettabile la lezione arida. Né il rilievo del grammatico latino[4] sembra possa essere infirmato dal Baehrens, p. 68, che vuole prive d'ogni valore le testimonianze catulliane di Servio, o dal fatto che non abbiamo un preciso riferimento né al carme né al verso. Ma la testimonianza di Servio, per la sua esplicita formu­lazione, sembra, invero, dare conferma alla lezione altrove non tradita, per quanto restino sostanzialmente validi i rilievi mossi dal Fighi allo Schuster che accetta arida;[5] come pure, non può essere tralasciata la particolarità dell'uso, in quanto di Catullo sono le forme acina per acinum (27,4), pugillaria per pugullares (42,5), cinis di genere femminile al singolare (68,90; 101,4) e di genere maschile al plurale (68,98)...

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[1] Anche V. Cremona (in Aevum 32, 1958, p. 410) ritiene che ci sono fondati motivi per riferire a Catullo la forma quoi. Egli, infatti, nell’accingersi a studiare con documentato lavoro d’analisi problemi inerenti la ortografia catulliana, ammette che l’archetipo riproducesse, salvo gli inevitabili errori, una grafia del quarto o quinto secolo (art. c., p. 402 ss.).

[2] In Prudenzio (Cath. 3,167), tale forma sarà usata come monosillabo breve.

[3] Vd V. Cremona, art. c., p. 408 ss.

[4] Serv. ad Aen. 12,587: “In pumice” autem iste (= Vergilius) masculino genere posuit, et hunc sequimur. Nam et Plauts ita dixit: licei Catullus dixerit feminino.

[5] Il Fighi, recensendo l’edizione catulliana curata da M. Schuster, scrive che Servio leggeva in un esemplare pumice accordato con un femminile, ma non sappiamo se si leggesse nel passo in questione o in qualche carme perduto o in Catullo mimografo, e nemmeno sappiamo se arida pumice si leggesse in altri esemplari (vd. in Giornale Ital. Filol. 3, 1950, p. 273).

[1] Vd. B. Riposati, Storia della letteratura latina, Milano-Roma 1965, p. 597 ss. e Problemi di retorica antica, p. 670 (in Introduzione alla filologia classica, Milano 1951).

[2] Quintil. 10,1,96.

[3] Gell. 6,20,6.

[4] Un approfondito esame delle glosse catulliane è stato fatto da F. Della Corte, Due studi catulliani, Genova (1951), pp. 55-62. Sull’argomento già scrisse C. Pascal, in Athenaeum, 4, 1916, pp. 388-395.

[5] Su tutta la questione , vd. F. Della Corte, o. c., pp. 44 ss.

[6] Terent. de metris 2560 ss. (p, 401 K).

[7] Alle seguenti edizioni catulliane, usate nel corso del lavoro, si farà riferimento col solo nome dell’autore: G. Avanzi (Venezia 1515); G. Scaligero (Parigi 1577); J. Voss (Londra 1684); L. Schwabe (Berlino 1866); R. Ellis (Oxford 1878); E. Baehrens (Lipsia 1885, vol. II); G. Friedrich (Lipsia 1908); M. Lenchantin de Gubernatis (Torino 1944); L. Cazzaniga (Torino 1945); M. Schuster (Lipsia 1949 e Schuster-Eisenhut Lipsia 1958); R. A. B. Mynors (Oxford 1958); G. B. Pighi (Verona 1961, 3 voll.: Prolegomeni; Testo critico; Traduzione). Le sigle dei codici a cui si farà riferimento, sono le seguenti: T – Thuaneus Paris, 8071; G – Sangermanensis Paris, 14137; O – Oxoniensis Bodleianus, Canon. Lat. XXX; V – Consensus codicum OG; R – Romanus Vaticanus Ottob 1829; M – Marcianus Bibl. S. Marci Venetiis Lat. LXXX class. XII; B – Bononiensis Bibl. Univ. 2621; b – Bononiensis 2744; A – Ambrosianus M 38 Mediolani; D – Datanus Bibl. Berolin. Diez. B. Santen. 37; La – Laurentianus pr. Plut. XXXIII, 13; Phil. – Philippicus 9591, Bodl. Lat. Class. e 17.