Il Signore della vita

Gaetano Andrisani

Il Signore della Vita

Il Signore della Vita - Un libro di Gaetano Andrisani

di Anna Giordano, in «Narrazioni», vol. 11, n. 1, marzo 2009, pp. 91-92

"Certo non è facile fare della terra il cielo". Ma l'innografia lo può. Questa è, forse, la chiave di volta per penetrare nella tessitura di un libro che, dedicato a due dei più celebri e toccanti inni della cristianità, è tutto un'inno. "Veni, creator Spiritus" e "Veni Sancte Spiritus".

Il libro è "Il Signore della vita" di Gaetano Andrisani, Saggi storici casertani, Caserta, 2009. Un libro che stupisce, non fosse perché ancora fresche di stampa sono le numerose opere precedenti di Andrisani, tutte di ampio respiro e profonda dottrina religiosa ed umanistica. Ma stupisce sopratutto la spiritualità, con la quale Andrisani ti coinvolge in una lettura che è meditazione, esegesi, analisi comparata, scalata al cielo.

Un inno, il suo, che egli incardina nei due celebri inni presi in esame e ne diventa la trama "per fare della terra il cielo".

Un libro per celebrare il Signore della Vita, in un tempo nel quale siamo chiamati a fare i conti con il Signore degli anelli e altri best seller che danno la misura di questa nostra civiltà dell'effimero.

Andrisani, come nel precedente suo volume "Una preghiera di Sant'Alfonso", prende in esame due testi di grande rilevanza religiosa, che salgono dalle radici del cristianesimo, "rimandano ai monaci di prima e d'oggi, nei loro scanni intarsiati... nella penombra ovattata del coro" e continuano a parlarci. Due inni, che potremmo chiamare speculari, perché entrambi rivolti allo Spirito, costruiti con lo stesso anelito e tecnica, entrambi con quello stesso incipit "Veni", che è invocazione e imperativo insieme. Una potenza lirica che Andrisani ha colto magistralmente e che ci aiuta a alzare gli occhi al cielo. Un'operazione che ci riporta, per sistema e metodologia, alla lectio divina, spostando, tuttavia, l'asse dalle Sacre Scritture a quello dell'innografia. Un lavoro che egli fa con puntualità, analizzando termini, versi, strofe, ma mai perdendo di vista la sintesi.

Andrisani, professore, giornalista e scrittore, utilizza e rimodula con sorprendente duttilità le risorse della sua professione -professione di fede e di vita- cogliendo anche, con impareggiabile gusto, le pieghe lessicali e morfologiche del dettato poetico dei due inni. E, mentre s'immerge nel richiamo al Creator Spiritus del primo inno invocato con un pregnante "Veni" e al Sancte Spiritus del secondo inno con un altrettanto "Veni", trasportandoci in una sfera mistica e surreale, non toglie mai la sua attenzione da una lettura anche storica, con la puntuale citazione, con l'attenzione etimologica che aiuta a leggere i valori semantici, con la comparazione e infine con l'indulgere ai suoi affetti familiari, al mare, alla dolce stagione, alla sua terra della Campania Felix. Sicché, i due inni prendono piena forma nella loro collocazione storica, ma anche, grazie a Gaetano Andrisani, si alimentano di attualità.

"Mentre scrivo queste piccole note, -così ci dice- sovente la mente ai ferma a considerazioni che riguardano l'uomo d'oggi...".

Ed ancora un altro richiamo all'attualità: la salute dell'uomo. Quella salute spirituale e corporea che, mai più di oggi, e così aggredita.

A conclusione, una assorta postfazione. "Chiudo queste pagine oggi sabato 4 ottobre, festa di San Francesco d'Assisi, il Santo che amo, e sento di dover cantare il mio ringraziamento al Signore perché me ne ha dato la possibilità".

Un libro che aveva dedicato in apertura "Alla Vergine Maria, a mia mamma Fermiana e a mia moglie Anna Maria, ricordi incancellabili d'amore".

Un libro che va letto e meditato, mentre lo sfogli alla maniera antica, e che ti interpella.

Prefazione.

A chi avrà tra le mani queste pagine non voglio certo togliere la libertà di fare la scelta che vuole; ma, se me lo permette, voglio dargli il consiglio di non leggerle di fretta, di leggerle quando ne ha voglia, magari poche per volta, anzi di farlo quando si è nella situazione spirituale del dolce far niente, ma nell’accezione che di questo modo di dire abbiamo discusso all’inizio del commento della strofe finale del Veni, creator Spiritus.

Quando ero ragazzo, mi colpiva di quel che recitavo nella professione di fede ciò che vi si diceva dello Spirito Santo, allora in latino: Et in Spiritum Sanctum, Dominum, et vivificantem... Erano tutti accusativi singolari di termini conosciuti e declinati, ma poi veniva il più difficile oltre tutto concettualmente. Mi avevano detto di questa colomba bianca, e la cercavo da per tutto, nelle enciclopedie della mia età, nei libri d’arte che erano in casa, ma soprattutto nelle effigie delle chiese.

Nella collegiata parrocchiale di San Michele Arcangelo della mia città natale, per esempio, c’è nella cappella del Corpo di Cristo: sta, irradiante fasci di luce, sopra la custodia dell’eucaristia nel bel tabernacolo di marmo che troneggia sull’altare davanti ad un’interessante pittura antica della cena del giovedì santo. Insomma l’amavo, la colomba bianca. Poi il Credo cominciò ad essere non solo una curiosità: Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e con il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti.

Lo sento il valore dello Spirito, e lo sentivo pure prima, in casa, quando si celebrava con certa solennità la festa di pentecoste, la terza[1] pasqua, quella «rosata», e ci si lavava la mattina con l’acqua nella quale la sera precedente erano stati messi petali di rose fresche. E gli inni che celebrano il Paraclito mi sono sempre piaciuti, specie il Veni, creator Spiritus, cantato in gregoriano dai canonici del duomo della mia città natale, dai frati del convento sul vulcano spento e dai monaci di Montecassino.

Da questo deriva il bisogno, che finalmente soddisfo, di commentare questi due carmi, che tanti brividi d’amore mi hanno dato. Ma da chi e quando sono stati scritti? Non è di certo facile la ricerca sicura degli autori, tanto è vero che la bibliografia in merito è assai vasta e, per la verità, pure tanti, in una maniera o nell’altra, sono stati finora i commenti scritti sui due canti. Ho letto il più possibile in merito e potrei tentare una nota bibliografica, non certamente esaustiva, ma di sicuro assai ricca[2]. Ma rinuncio a questa idea, oltre tutto perché l’intendimento che mi spinge e mi sostiene in questo lavoro è di devozione, di ringraziamento e di lode a Dio uno e trino. Comunque, alcune idee le esprimo per aiutare chi mi legge a formulare per sé un conveniente status quaestionis.

Sono decisamente contrario alla tesi di quanti sostengono che alle composizioni abbiano messo mano più persone in tempi diversi e assolutamente non considero i testi scomponibili, per cui anche la supposizione che la settima strofe del Veni, creator Spiritus, la conclusiva dossologica, sia stata aggiunta posteriormente[3] proprio non mi convince. Quando, mutatis mutandis, si ragiona in questa maniera è come se si dicesse che La Pentecoste non sia stata scritta solo da Manzoni. La lettura accorta di tutti e due i carmi latini mi porta a ribadire l’unitarietà delle concezioni e degli svolgimenti di ciascuno, la quale si convalida sotto tutti gli aspetti per l’architettura compositiva, per lo slancio metrico, per l’uso del linguaggio, per il rigore formale, oltre che per la sostanza dei contenuti e la ricerca delle figurazioni più adatte.

Chi è l’autore del Veni, creator Spiritus, di questo inno, non posso tacerlo, che Benedetto Croce definì «inno sublime» l’11 marzo 1947 alla fine del suo intervento all’Assemblea costituente durante la discussione generale sul «progetto di Costituzione» elaborato dalla Commissione dei 75, nominata dalla stessa Assemblea nel luglio del 1946 e rappresentativa in maniera quasi paritetica dei principali orientamenti politici e ideali in essa presenti? È l’inno dei vespri e di terza dell’ufficio della pentecoste. Si ripete, e non da pochi, che è «di autore ignoto della fine del sec. IX, si trova già in codici della fine del sec. X e appare nella liturgia nel 1049, quando Leone IX lo intonò al Concilio di Reims»[4]. L’autore è per me senza alcun dubbio Rabano Mauro, una personalità di grosso spicco del monachesimo benedettino europeo altomedioevale[5].

Rabano Mauro, in latino Rabanus o Hrabanus Maurus, nasce a Magonza nel 784 circa e ivi muore nell’856. Monaco benedettino, è allievo di Aimone a Fulda e di Alcuino a Tours, riceve l’ordine sacerdotale nell’814 a Fulda, dove prima è direttore della scuola e poi ne diviene abate (822-842). Eletto vescovo di Magonza, sostiene la condanna delle dottrine di Gotescalco d’Orbais sulla predestinazione nel Concilio di Magonza (848). L’importanza di questo illustre benedettino non è data soltanto dall’intensa azione pastorale e missionaria svolta, ma soprattutto dalla sua vita intellettuale. La sua produzione è vasta, comprende una Grammatica, fondata su Prisciano e Beda, commenti alla Bibbia, inni, omelie, manuali come il De Universo, una vera e propria enciclopedia fondamentale, caratterizzata da una coerente e costante interpretazione simbolico-allegorica del mondo fisico[6]. Notevole per l’organizzazione del cursus studiorum è il suo De institutione clericorum, ove si ricalcano, spesso trascrivendone interi passi alla lettera, il De doctrina christiana di Sant’Agostino e opere di Isidoro di Siviglia, di San Gregorio, di Beda e di altri autori importanti della patristica e della patrologia.

S’interessa molto di poesia ed è autore di una produzione lirica consistente, nella quale si serve di particolari schemi stilistici e metrici di origine tardo-gotica, come la disposizione dei versi in griglie di quadrati di lettere, associate ad immagini. Per citare almeno una sua opera lirica, diciamo del De laudibus sanctae crucis. Nella sezione poetica della sua consistente attività letteraria, s’inserisce il Veni creator Spiritus, dove si sente tutto l’afflato umano e umanistico del santo benedettino Rabano Mauro.

Il Veni, Sancte Spiritus, la cosiddetta «sequenza aurea», è opera di Stephen Langton, Stephanus Cantuariensis, il quale tiene certamente presente la composizione di Rabano Mauro e cerca di farne una di più larga accezione. Diciamo che fa un lavoro intelligente e sicuramente ben riuscito, come si dimostra invero dal cotante uso che ne viene fatto.

Il Langton nasce a Canterbury intorno al 1150 e muore a Slindon nel 1228. Professore di teologia a Parigi, viene fatto cardinale nel 1206 e poi arcivescovo di Canterbury nel 1207. È consigliere principale del re Giovanni Senzaterra, lavora per mettere ordine per i bisogni del suo tempo alla legislazione consuetudinaria inglese; ha parte di primo piano nella formulazione della Magna Charta. Messosi in contrasto con il re, che si rifiuta di tener fede agli accordi conclusi, si lega alla nobiltà feudale inglese nella lotta contro la monarchia, ma viene chiamato a Roma da Innocenzo III, schieratosi a favore del re. Ritorna in Inghilterra soltanto nel 1218.

Rilevante è la sua produzione saggistica: citiamo i suoi commenti alla Historia scholastica di Pietro Comestore, alle Sentenze di Pietro Lombardo e alla Bibbia, una Summa theologiae, le Quaestiones e i Sermones. Il Veni, Sancte Spiritus, attribuito prima al re Roberto il Pio e allo stesso Innocenzo III, viene rivendicato al Langton per la testimonianza di un contemporaneo[7] e introdotto in maniera definitiva nel Messale Romano da San Pio V.

Una riflessione mi pare assai opportuna a questo punto del discorso: i due autori degli inni che commentiamo operano nei loro tempi nell’Europa altomedioevale e medioevale e ne sono espressioni significative. Per la sua attività letteraria e per l’influenza esercitata con il suo insegnamento; che dà un contributo consistente, si potrebbe ben dire «potente», alla civilizzazione e cristianizzazione della Germania, a Rabano Mauro viene addirittura attribuito il titolo di praeceptor Germaniae. Così non si può non tener conto dell’impegno anche politico speso dal Langton in Inghilterra nel primo quarto del XIII secolo.

Ci vien allora spontaneo chiederci come si possano negare le radici cristiane a questo nostro vecchio continente, la cui storia negli ultimi due millenni è completamente invasa dal cristianesimo e ci possa essere chi si batta contro o addirittura si scandalizzi per la giusta proposta fatta nella sede opportuna di definire cristiane le radici dell’Europa nella nuova costituzione europea. Ci vien proprio fatto di tacciare di voluta cieca incultura l’ostinatezza di questi laici per etichetta a negare una realtà storica così facilmente dimostrabile, anzi così evidente.

Mi si potrebbe chiedere di quali testi mi sia servito nel lavoro. La risposta è semplice: ho letto sullo Spirito Santo quanto mi son fatto passare per le mani, spesso sollecitato a commovente edificazione; ma mi son servito solo del Catechismo della Chiesa Cattolica[8] ora compendiato[9]. Ne cito spesso qualche passo incorporato nel testo, ma facilmente individuabile[10]. È un libro che andrebbe letto e consultato da ogni cattolico avveduto. Anzi, e lo ripeto sovente, non farebbe male tenerlo sott’occhio anche ai laici, per i quali sarebbe uno strumento di buona cultura.

Sulla struttura dei carmi devo dire che ho tentato uno schema dell’architettura del Veni, creator Spiritus, alla fine del commento della sua quinta strofe. Per quanto riguarda il Veni, Sancte Spiritus, le annotazioni vengono fatte via via nella lettura. Una nota di cultura faccio per il Veni, creator Spiritus: su questo inno Gustav Mahler fonda la prima parte della sua magnifica ottava sinfonia.

Un’annotazione devo fare qui sulla gioia che ho di scrivere queste pagine in un anno particolarmente significativo per la vita della Chiesa: fanno centocinquant’anni dalle apparizioni di Lourdes e si celebra l’anno paolino in coincidenza con il bimillenario della nascita di Paolo di Tarso. Una delle tre madri[11] cui faccio cenno talvolta nei miei scritti, la prima spiritualmente, è la Vergine Maria. A Lourdes sono legato da ricordi incancellabili: mi vedo nella grotta toccare con la testa la roccia e starvi il più possibile a guardare, sempre muto, l’Immacolata Concezione di fronte, nel posto delle sue apparizioni a Bernadette Soubirous. Mi vedo, al di là del Gave de Pau, seduto senza tempo su una panchina di pietra, dalla parte della cappella dell’eucaristia, con la Madonna sempre di fronte, fisicamente più lontana, ma sempre assai vicina nel cuore. Mi vedo alla processione «aux flambeaux» a cantare tra la fola internazionale È l’ora che pia e alzare la fiaccola in alto, il più alto possibile, quando vi si modula: Ave, ave, ave, Maria. E questo vedermi lì mi dà tanta contentezza nelle viscere e mi rammenta le lacrime di allora. Ci voglio tornare, a Lourdes, forse l’ultima volta: non ho visto i nuovi mosaici della facciata della basilica del Rosario realizzati per la ricorrenza di quest’anno dal padre gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik[12], e voglio vederli da sotto. Ne ho visto le foto e più delle altre m’incanta la Madonna delle nozze di Cana, vicino al Figlio, orante e umile, un po’ dietro e un po’ da lui coperta.

L’anno paolino costituisce per i cristiani il ricordo forte di San Paolo, della sua potente e fascinosa storia, della sua eccellente testimonianza, delle fondamentali sue lettere, attraverso le quali si dà sistema al messaggio di Gesù Cristo tramandato dai vangeli. E per chiudere questa prefazione, cito l’inizio della lettera ai filippesi, a fervida preghiera di lode, di adorazione, di glorificazione e di ringraziamento al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.

«Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascun non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre»[13].

Amen

.... continua nella sezione Latino Ecclesiastico

Postfazione.Chiudo queste pagine oggi, sabato 4 ottobre 2008, festa di Francesco d'Assisi, il santo che amo, e sento di dover cantare il mio ringraziamento al Signore perché me ne ha dato la possibilità. Sono contento di avere preso i due inni, Veni, creator Spiritus e Veni, Sancte Spiritus, ad oggetto delle mie riflessioni, questa volta per scriverne. Di ciascuna delle due composizioni poetiche ho cercato di individuare il valore e le caratteristiche, rispondenti di certo alle spiritualità dei due autori, il rigoroso studioso benedettino Rabano Mauro e il generoso e volitivo Stephen Langton, ai quali ci siamo riferiti nella prefazione.

Quattro secoli circa di distanza intercorrono tra le loro scritture e, se le forti personalità dei loro estensori si stagliano nel panorama profondamente cristiano del medioevo europeo, i due carmi sacri con la loro piena attualità sono le prove tangibili della profonda religiosità delle popolazioni del vecchio continente a quei tempi. Ha ragione papa Ratzinger quando dice che in questa Europa si sta perdendo il patrimonio religioso e storico impresso dal cristianesimo bimillenario e questa perdita crea confusioni e smarrimenti, che dovrebbero preoccupare un po' tutti.

Ringrazio Dio uno e trino. solo a Dio onore e gloria. Ma devo pur dire con semplicità la più recente ragione che mi ha spinto a commentare i due inni sempre tenuti nel cuore. La pubblicazione di Una preghiera di Sant'Alfonso, voluta e attuata per segnare un momento della mia vita, un motivo quindi d'interesse specificamente anche personale, ha avuto risultati imprevisti quanto lusinghieri. Le recensioni sono state diverse e positive: cito per tutte quelle uscite in «30 giorni», la rivista diretta da Giulio Andreotti.

La riprova del buon esito del libro mi è stata data dai consensi ricevuti soprattutto nel mondo ecclesiastico. Per la verità quelli del mondo laico non sono stati minori. Dei non chierici, tra quanti mi hanno scritto, per fare qualche nome, dico di Gabriele De Rosa: «Il tuo libro aiuta nella meditazione»; di Vittorio Messori: «Davvero interessante. È stato anche per me una occasione di riflessione e di approfondimento spirituale. si è fatto davvero un bel regalo per i Suoi ottant'anni»; di Carmelo Mezzasalma, direttore di «Feeria»: «Non lo dico tanto per dire, ma Una preghiera di Sant'Alfonso è un magnifico libro, è realmente un libro straordinario, oltre al pregio di una scrittura limpidissimo che non lascia alcun dubbio circa l'ispirazione di tutto il commento che è schiettamente alfonsiano. Non poteva, caro amico, celebrare il suo 80° genetliaco in una maniere migliore di questa: un inno, prolungato e colloquiale con il Signore Gesù presente nella SS. Eucaristia».

Del mondo ecclesiastico dovrei dire degli eccellentissimi vescovi, anche di grandi città, che mi hanno scritto. Ringrazio tutti. Mi limito a citare il segretario di papa Roncalli, perché le sue parole sono state la effettiva molla, la quale mi ha spinto di fatto al lavoro che ora presento alla benevolenza dei lettori, e i presuli delle due giurisdizioni diocesane di Capua e di Caserta, di cui Marcianise fa parte. Ringrazio per la loro eccessiva bontà nei miei riguardi, dell'amicizia che mi danno e delle belle parole scritte per il mio impegno, l'arcivescovo Loris Francesco Capovilla da Comaitino, Sotto il Monte Giovanni XXIII: «Mi accompagnerà nella prossima quaresima»; l'arcivescovo Bruno Schettino: «È un libro scritto con il cuore, con tanta viva devozione all'Eucaristia. In esso si coglie ben volentieri l'anima religiosa e popolare di Sant'Alfonso. È un insieme di sentimenti, di propositi, di ricca ed appassionata ricerca del significato della preghiera»; il vescovo Raffaele Nogaro: «Quanto bene mi fa la lettura di Una preghiera di Sant'Alfonso: è la lampada sul moggio per tutti i miei sacerdoti».

E i preti? Li ringrazio tutti, specie quelli del generalato, della provincia, degli archivi nazionale e provinciale, delle biblioteche e dei conventi della «Congregazione del SS. Redentore», fondata da sant'Alfonso. E ringrazio le suore redentoriste, in particolare quelle del protomonastero di Scala, le quali mi sono vicine con la preghiera e con la dedizione della loro vita claustrale. Ma, tra i sacerdoti, per tutti devo citarne uno dell'arcidiocesi capuana, Mario Iodice: è per tutti il mio riscontro di ringraziamento e di amicizia. «Mi sono sentito pervaso da grande gioia nel riandare con la mente agli studi di liceo e teologia nel Seminario Regionale di Benevento. Perché questo ricordo? Perché era questa preghiera di S. Alfonso che, per il suo profondo significato ascetico, veniva recitata ogni giorno dalla Comunità dei Seminaristi: preghiera che ricaricava lo spirito per la semplicità delle parole e l'intima contentezza che sbocciava dai cuori. Elogio il commento meditativo che ne ha fatto per ogni invocazione della preghiera stessa, con stile semplice, con comprensibile parola, con concetti profondi, presentandola come nutrimento spirituale sia per persone consacrate e sia per semplici laici».

Solo a Dio onore e gloria. Lo ripeto, perché mi passano per la testa la vigna di Isaia e quella della parabola di Gesù Cristo: mi prende una grande paura. Sono io acino acerbo e acre da buttare? Mi sarà tolto il regno di Dio, perché mi servo del messaggio cristiano, questa volta dei due inni meditati, a beneficio delle mie idee e dei miei interessi? Questa paura ti offro, Trinità santissima, come preghiera, e come preghiera, se c'è tra il conscio e il subconscio, ti offro anche la colpa di servirmi di te, non di essere tuo servo accasciato, come dico ormai quasi per abitudine. Padre, mi affido alla tua misericordia. Cristo Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, chiamami, fammi venire e mantienimi alla tua sequela. Spirito Santo, in me brucia tutto con il fuoco ardente del tuo amore purificatore e stringi quel che resta nel tuo vento liberatore.

Mi viene incontro ancora san Paolo e lo benedico sovente ora che si celebra il bimillenario della sua nascita. «Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi».

Amen.

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[1] La prima, secondo la tradizione religiosa locale, era l’epifania, la seconda la pasqua vera e propria e la terza la pentecoste. Ne ho riscontro in Augusto Bergamini, Le sequenze nella liturgia della parola dei principali tempi e solennità dell’anno liturgico. Breve studio storico, liturgico, teologico, spirituale, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2004, p. 64: «Non va dimenticato un caratteristico costume medioevale nel giorno della Pentecoste, attestato in molte chiese d’Italia e di Francia, che consisteva nel far piovere, durante il canto della sequenza alla Messa, rose, fiori e anche batuffoli di stoffa accesa per simboleggiare le lingue di fuoco apparse sopra gli apostoli. Questa cerimonia ha fatto dare alla solennità l’appellativo di Pasqua rosata. In alcuni luoghi è esistito anche l’uso di lasciare volare per la chiesa colombe e altri uccelli». Cfr. pure M. Righetti, Manuale di storia liturgica, III, Milano, Editrice Ancora, 1950, pp. 235-241.

[2] Comunque, per le annotazioni bibliografiche rimando a quelle riportate nei testi che cito in questa prefazione.

[3] Enzo Lodi, Lo Spirito Santo nella liturgia, Bologna, EDB, 2004, p. 68.

[4] Enciclopedia Cattolica, vol. XIII, p. 1230.

[5] V. Anselmo Lentini, Hymni instaurandi breviarii romani, Città del Vaticano, LEV, 1968, p. 109.

[6] Un importante manoscritto di quest’opera, assai illustrato, datato 1023, è conservato nell’archivio di Montecassino, del quale, dopo il caro e famoso don Tommaso Leccisotti, è ora archivista l’ottimo don Faustino Avagliano.

[7] V., anche per la bibliografia, Enciclopedia Cattolica, vol. IX, p. 1158.

[8] Seconda edizione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1999. È più maneggevole rispetto alla prima del 1992.

[9] Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, Città del Vaticano, LEV, e Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005.

[10] Del resto, dico quando lo uso.

[11] A loro dedico questo mio lavoro.

[12] Offertosi per l’illustrazione mancante dei misteri luminosi, lavora con le sue maestranze di fiducia, che fa venire con sé dai paesi natali.

[13] Fil., 2, 1-11.