Carnevalucciu

Armando Arturo Vendettuoli

CARNVALUCCIU

(In Narrazioni, vol. 3 n. 1, marzo 2001, pp. 84-86)

il carnevale è il periodo che precede la quaresima. Deriva dal latino carne levare nel senso di togliere e non sollevare – ovvero astinenza della carne, usanza diffusa nei secoli VII e VIII. Astinenza che il sottoscritto osserva da ben undici anni.

Negli ultimi tre giorni precedenti la quaresima vi è l’usanza di pubblici spassi, mascherate, baldorie, sollazzi e gozzoviglie. Contraddizione apparente fra il significato e quello usuale.

La ricorrenza di tal evento ricade spesso nel mese di febbraio. Cioè è avvenuto anche il giorno 20 febbraio 1912, anno di nascita di mio padre e giorno di carnevale. Mio padre, Pietro, è il sesto o il settimo figlio di Pasquale (sarto-portalettere) e di Maria Nicola Santagelo (sarta). Fatta eccezione di Arturo, il resto dei fratelli e sorelle morirono a seguito della terribile pestilenza di febbri influenzali, la spagnola, che negli anni 1916-1920 invase l’Italia e di conseguenza anche il nostro paese, Raviscanina. Quando venne alla luce, mio padre era tondo e paffutello, al che la nonna di Mimmo Vizzaccaro, Filomena Di Mundo, amica di famiglia, appena lo vide lo apostrofò carnvalucciu. Soprannome o ‘contranome’ che mio padre nei momenti di maggiore sconforto utilizza, esclamando: “Ah! Carnvalucciu, che fine ch’è fattu!”.

Tempo fa gli chiesi chi fosse questo Carnvalucciu e mi raccontò la storia descritta.

Personalmente ritengo che il nomignolo o ‘contranome’ non è altro che l’esatta riproduzione del carattere della persona cui è stato attribuito. Causa di tutto ciò è quella saggezza popolare, che non conosce limiti, alla quale non sfugge la minima impressione de soggetto. Spesso il soprannome deriva anche dagli antenati o avi familiari. Così mio padre viene riconosciuto anche come Pietro u Vescuvu (vedi “La fortuna aiuta gli audaci”, Narrazioni volo, 1, n ½ 2 del 03˙/1999, pag. 31).

Perché u Vescuvu? Tutto è derivato dall’atteggiamento di nonna Maria Nicola nei confronti di suo marito, nonno Pasquale, al quale imponeva stili di vita e comportamenti ben definiti. Per esempio, quando beveva alla fontana non doveva appoggiarsi al muro e bere alla cannella ma portare con sé un bicchiere a fisarmonica da utilizzare all’occorrenza. La nonna riteneva che un sarto doveva sempre essere elegante, o meglio vestito per bene. Accadde, però, che un 29 settembre non riuscì a completarsi il vestito per la festa del Santo Patrono, San Michele Arcangelo. Lo aveva solamente imbastito. Ebbene, per la processione lo indossò così come era, poiché l’imbastatura era così perfetta da sembrare un vero cucito (racconto di mio padre che non ricorda l’anno in cui avvenne il fatto). Poiché in famiglia nonno Pasquale veniva trattato con i guanti bianchi, per questo e per altri episodi si meritò il nomignolo u vescuvu.

Questo nomignolo diede luogo ad un episodio alquanto divertente, che ingannò Antonio De Cristofano alias N’tonio r Matalena, gestore dell’ex bar Rupe. Questo fatto avvenne durante l’anno 1985. il parroco dell’epoca, don Salvatore Zappulo, mi invitava spesso a fargli da autista durante gli spostamenti nei paesi limitrofi. Un pomeriggio verso le 16.30, appena rientrato da Castello del Matese, dove si recava per pranzare con i genitori, entrò nel bar di Antonio per il caffè. Intanto aveva precedentemente incontrato Giovanni Nassa, alias Polifemo, al quale aveva ordinato di venirmi a chiamarmi. Quando entrò nel bar, Antonio gli chiese: “Padre dove andate?” Rispose: “Vado a Teverola e viene con me il nipote del vescovo”. Nell’udire pronunciare il vescovo, Antonio subito si mise in imbarazzo poiché aveva capito che questo nipote del vescovo sarebbe passato per il suo bar. Al che disse a don Salvatore che sarebbe stato opportuno conoscerlo. Il parroco naturalmente acconsentì, ma gli raccomandò di non chiedergli nessun tipo di favore. Antonio accetto, ma con riserva. In altre parole assicurò che se in futuro ci fosse stato bisogno dell’aiuto di questo nipote del vescovo, avrebbe interpellato don Salvatore. Intanto a casa mia era venuto Giovanni che disse: “Scassò, t’ va truvennu ron Salvatore”. Infatti a tutt’oggi con Giovanni, quando ci incontrammo, ci apostrofiamo: “scassò” oppure “scassapnella”.

Giovanni arrivò per primo ed avvertì del mio arrivo don Salvatore, che subito disse ad Antonio di preparare il caffè perché il nipote del vescovo stava arrivando.

Quando entrai don Salvatore esclamò: “Ecco il nipote del vescovo!”. La faccia di Antonio per qualche minuto divento di pietra e, appena si riprese, mandò a quel paese il parroco e tutto finì con una risata generale e .......... un buon caffè.