Il diavolo

1 – L’URLO STRIDENTE

 

Santiago de Compostela è un luogo di quelli che si amano, una volta che li si è conosciuti, di quelli per i quali trama la nostalgia emozioni sempre rinnovate. La nostalgia di che? Certamente della gioventù, dei giorni che se ne sono andati e non tornano più, degli affetti perduti, Santiago è un tappa dell’itinerario sofferto del pellegrino accanito, il quale cammina senza meta a ricercare la verità che darà solo la morte, sa solo di essere partito e in ogni orizzonte che sfuma affonda la sua speranza.

Ebbene, lì quel luogo segna una sosta ricordevole dell’andare verso il cielo, il viandante muto, i sandali consumati e sciolti, la bisaccia strappata e la borraccia vuota ai fianchi, la conchiglia per bere l’acqua alle fonti appesa al collo come pendaglio prezioso, simbolo della sete che si ha nel dolore che gli si conficca in petto ognora come una croce ogni volta più pesante, gli occhi sempre vivi appuntati sul futuro con la voglia di farlo subito passato. Le strutture che l’intrappolano, il tempio, e finalmente la tomba sacra, dopo la salita lunga e patita, l’incensiere enorme che alla festa del santo fanno oscillare nel transetto per togliere al chiuso della chiesa l’odore della miseria, tutto hai visto e ti rimane dentro, ma deve scordarsi la figura di Santiago Matamoros, perché i canonici della cattedrale per non turbare la sensibilità di altri gruppi etnici hanno deciso di abbatterla per ridurla a quella del viaggiatore stanco, che subito si è battezzato «Santiago Zapatero» per riferirla al cambiamento politico che ha portato in sella in Spagna il successore di Aznar.

Si può ripudiare la storia, la battaglia di Poitiers del 732 con la vittoria di Carlo Martello sulla cavalleria araba di Abd ar Rhamãn, universalmente riconosciuta come la prima affermazione della civiltà europea su quella araba? E lo scontro storico del Garigliano del 915 o 916 con papa Giovanni X a capo della lega contro i saraceni? Si può cassare il valore che ha la riconquista di Granada del 1492? E dobbiamo eliminare dall’agiografia Giovanni da Capistrano che nel 1496 collabora a liberare Belgrado dall’assedio degli islamici? E la battaglia navale di Lepanto del 1571 con lo stendardo glorioso conservato a Gaeta di cui abbiamo scritto? E non ha fatto degno degli altari il papa d’oggi Marco d’Aviano che nel 1683 infiamma i viennesi a resistere all’invasione ottomana, ripetendo i fasti del 1529? E la vittoria di Eugenio di Savoia nel 1697 contro il forte esercito di Mustafà III a Zenta (oggi Senta in Voivodina) per salvare definitivamente l’Ungheria? Togliamo Maometto dall’inferno di Dante? E buttiamo a terra la cattedrale di Bologna per l’affresco dei mori tra le fiamme? Non ci si deve pentire della storia dei padri e bisogna andare avanti per la strada che mena al futuro che si deve costruire con la speranza che quelli che verranno non abbiano a pentirsene.

Forse nulla c’entra, ma la mente dell’uomo, libera e insottomettibile, spazia dove e come vuole. Così il moro di San Giacomo, ma solo per un volo di pensieri nel cervello, mi rimanda alle figure nere e brutte del demonio, i manufatti più o meno artistici delle nostre chiese. Allora, se ciascuno pensa al san Michele della tradizione biblica, quello delle statue, lignee preziose, di cartapesta o di resina, antiche o moderne, si trova sempre sotto i piedi dell’arcangelo che imperversa con la spada affilata un nemico moro, il ribelle schiacciato nella sua superbia di voler essere come Dio, attorcigliato nelle sue paure, la coda ritorta nello spasimo della sconfitta, le ali di pece snervate e abbattute, la bocca di fuoco implorante bestemmie. Anche quello del duomo dell’amico parroco Rossano, di recente liberato dai tarli impetuosi e irriverenti e restaurato, ha sotto i piedi il diavolo nero, e ne odi l’urlo stridente, e ne senti la puzza di zolfo soffocante. Facessero tutti come han fatto o vogliono fare i cattolici di Santiago de Compostela, luogo della nostalgia perché stazione dell’itinerario della salvezza, si disperderebbe un riferimento sostanzioso del succedersi delle vicende dell’uomo.

È il diavolo che soggiace all’impegno degli angeli, il quale tutti rappresenta l’arcangelo Michele, capo indiscusso dei fedeli di Dio, è il male vinto dal bene. Di che colore è il male? Chi è il diavolo? Perché da Dio non è stato creato il mondo a tal punto perfetto da non darvi spazio al male? La risposta più convincente è che Dio ha liberamente voluto creare il mondo «in stato di via» verso la perfezione ultima. Dio ha impresso al creato e al mondo del divenire il senso dell’andare, dell’itinerare, per ricercare tutto quanto a ciò si ricollega, come la comparsa di certi esseri con la scomparsa di altri, l’edificazione e la devastazione, il più perfetto e il meno perfetto. La creazione deve arrivare alla sua perfezione nella dialettica serrata tra il bene fisico e il male fisico. Così si delineano i sensi veri della libera scelta, dell’amore di preferenza e quindi del male morale, enormemente più grave del male fisico. Dio non consentirebbe il male, se non fosse sufficientemente, come dice Agostino di Tagaste, potente e buono da trarre dal male stesso il bene.

Il diavolo chi è? Colui che si oppone a Dio, dia-bolos, colui che si getta di traverso, vuole ostacolare il disegno di Dio e la sua opera di salvezza. Il male non è un’astrazione: è una persona, Satana, il maligno, il capo dei demoni, creati da Dio naturalmente buoni, ma da se stessi trasformati in malvagi con libera scelta, radicalmente ed irrevocabilmente rifiutando Dio e il suo regno. Il diavolo fin da principio è il padre della menzogna, omicida fin dal principio tenta perfino Cristo, facendo di tutto per distoglierlo dalla missione ricevuta dal Padre.

Tutte le cose create sono oggetto dell’attenzione del diavolo, che, quando trova il terreno fertile, esercita la sua seduzione menzognera che induce l’uomo a disobbedire a Dio. Satana, servendosi delle cose create, lascia spegnere la fiducia nei confronti del creatore nel cuore dell’uomo, che, abusando della propria libertà, disobbedisce ai comandamenti di Dio. Il male è il regno del diavolo ed è purtroppo sempre in discesa, al contrario della morale, una montagna che non si abbassa e tocca al mortale scalarla. Ogni salita è faticosa. Non è facile comportarsi secondo quanto è scritto nella coscienza. È vero che la voce dell’intelletto parla chiaro a chi vuole sentirla. Ma quanti ascoltano i richiami della saggezza umana che è dentro di noi? Il male  è nelle negatività e mi pare sia Gianni Vattimo a scrivere da qualche parte che «il demone di Socrate gli suggeriva sempre che cosa non fare». Satana sullo scivolo del non fare spinge sempre l’uomo, in discesa, allettandolo in ogni maniera.

Come viene congegnata la prima disobbedienza, quella che è accaduta all’inizio della storia dell’uomo? Perché deve essere invalicabile la conoscenza del bene e del male? Perché non dev’essere mangiato il frutto dell’albero di questa conoscenza? La tentazione di Satana porta alla caduta della giustizia originale l’uomo che accetta di rovesciare il disegno di Dio. L’aveva fatto prima egli, quando era angelo buono. Induce l’uomo a percorrere la sua stessa strada. Così come si sintetizza nel catechismo della chiesa cattolica, «l’armonia nella quale l’uomo e la donna erano posti, grazie alla giustizia originale, è distrutta; la padronanza delle facoltà spirituali dell’anima sul corpo è infranta; l’unione dell’uomo e della donna è sottoposta a tensioni; i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all’asservimento. L’armonia con la creazione è spezzata: la creazione visibile è diventata aliena e ostile all’uomo. A causa dell’uomo, la creazione è sottomessa a caducità. Infine, la conseguenza esplicitamente annunziata nell’ipotesi della disobbedienza si realizzerà: l’uomo tornerà in polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto. La morte entra nella storia dell’umanità».



2ARRIVA L'ESTATE


Dalla costa del Tirreno, il mare vi è calmo stamattina, mancano meno di due settimane all'inizio dell'estate, chi si spinge verso l'interno con l'intento di raggiungere l'Adriatico deve passare i monti dell'appennino caricati dal cielo plumbeo di scrosci di pioggia e di una cortina di nebbie invalicabili. Si procede lenti immersi nelle nuvole, la macchina sotto l'acqua incessante, i lampi oltre le cime impressionanti, i tuoni squassanti. Si potrebbe prendere una strada più breve, tra i boschi, ma più tortuosa e impervia, bella per le prospettive paesaggistiche sempre mutevoli, luminosa per la natura che vi ha giocato stupendi ritmi di poesia e di musica, ma sempre solitaria.

Si punta, invece, verso il mare e man mano che vi si arriva il tempo schiarisce fino ad incontrare di nuovo il sole nell'azzurro pur qui cenerino e malinconico dell'altra banda. Poi la via s'inerpica sul colle. Ad un certo punto, c'è il paese, un paese di case antiche con in alto il campanile della chiesa parrocchiale e un po' più giù il castello vecchio contornato dai pochi, tre o quattro, palazzi dei signori. Il sole ci scherza sopra e dentro, creando luci ed ombre che danno dimensioni surreali ad una realtà urbanistica d'indubbio fascino storico e appiattiscono, più che in una fotografia, in un paesaggio pittorico d'autore i colori smorti del tufo.

Son fastidiosi i tornanti che si seguono, ma dispiegano panorami ad ogni svolta sempre nuovi, suggestivi di toni di verde irripetibili. L'aria è frizzante, odorosa di malva e rosmarino, ma pure degli umori dei greggi pazienti, saporosa di menta e di pane nero cruscoso. Si sale e si stagliano meglio le mura a definire la via che porta fin su alla piazza davanti alla chiesa e al municipio vecchio, dove povero ma significativo sta il monumento ai caduti dell'ultima guerra con i nomi dei concittadini peritivi. Il terremoto qui ha provato di recente le murature e il cuore degli uomini. Molte case sono lesionate e per tante sono al lavoro gli operatori delle imprese edili che si sono riversate sul posto per sfruttare al massimo le sovvenzioni predisposte per l'evento straordinario. Il silenzio regna dappertutto, scandito solo appunto di giorno dai rumori che fanno i fabbricatori con i loro picconi e i loro martelli. Non lo rompono i tocchi severi dell'orologio della torre campanaria, perché arrivano ovattati e familiari, come le cose comuni della quotidianità, negli orecchi di tutti ad ogni tempo giusto.

Giù, in fondo al paese, una delle più periferiche, in una urbanistica segnata per la parte vecchia dalle viuzze strette dell'architettura e dell'arredo urbano medioevali e per la parte nuova da strade larghe raccordate all'antico e al nastro viario d'accesso che gira attorno al monte da villette moderne e da negozi che cominciano ad aprirsi con tanta speranza dei loro proprietari, c'è la casa rurale dove nasce Claudia Malepàri. È una dimora di contadini del luogo, occupa pochi metri quadrati di suolo all'angolo formato dall'antica via di entrata al paese e dal vicolo che porta in assai ripida salita a poche altre case rurali similari e al sentiero che s'arrampica alla collina, si sviluppa in altezza, tre piani, piccoli, di soffitto bassi, pochi ambienti in tutto, collegati da scalette interne di gradini di sproporzionata alzata e scomodi.

Sotto, il piano basso ha l'apertura sulla strada primaria, sul piccolo spiazzo che disegna la curva che essa fa, l'ultima prima di immettersi nell'abitato. È adibito a stalla dove alloggia la vacca di famiglia, di pelle bianca sporca con grosse macchie di colore marrone cioccolato. Il tufo delle pareti qui è umido di vecchiezza, interrato com'è per buona parte nella falda della collina che sale.

Il piano di mezzo esce sul vicolo con un portoncino incorniciato da un simpatico profilo di pietre di lava lavorate a mestiere su una scala di sei gradini che lo raccorda alla viuzza laterale. Assume qui, in questo prospetto, il caseggiato una sua digniquasi storica, insieme con gli altri dello scorcio, tutti con le date di costruzione scavate nelle chiavi di volta dei portali, con le ringhiere dei balconcini e delle scalette di ferro battuto a mano, con i gerani multicolori, festosi in tanta malinconia di vecchie, povere architetture contadine, con il pietrisco che, in fondo, segna il tratturo che porta velocemente alla collina.

Il piano alto è fatto di due stanzette con un piccolo gabinetto, quasi una mansarda, perché gli spioventi del tetto ne conformano il soffitto, freddo d'inverno e caldo d'estate. Le finestre sono rettangolari con il lato più lungo in orizzontale per prendere quanto più sole è possibile nei tempi freddi, hanno gerani fioriti nella buona stagione in vasi di terracotta imbrigliati alla meglio contro il vento che, quando tira qui, in questo punto del paese, è assai forte. La scaletta di raccordo al piano di mezzo si torce per forza di cose in curve strette che determinano l'irregolarità geometrica delle pedate dei gradini e deve essere percorsa, quindi, sempre con accortezza. Questa casa è di proprietà dell'antica famiglia Rodari Pinzi, originaria del posto, una successione di generazioni di medici sempre convenientemente sposati con donne di gran classe e di forti blasoni, da un po' più di un secolo trasferitisi nella capitale del regno dei Borbone e da una quarantina di anni spostatisi a Roma. Mai hanno interrotto i loro contatti con il paese, nel quale mantengono grosse proprietà di terre e di abitazioni, ma soprattutto il palazzo avito di fronte al castello, dove vengono spesso a trascorrere le feste e le vacanze estive di ogni anno, le quali intercalano con le soste più o meno prolungate nella casa a mare che hanno, molto bella e pur essa antica, sull'Adriatico.

 

A Pietro Malepari, quando si sposa nel 1920, a trentotto anni, con Carmina Cundari, che ne ha ventidue, affitta la dimora Crescenzo Rodari Pinzi, un signore di nascita e di temperamento, medico valoroso che fa onore alla sua stirpe, oltre che per generosità di carattere e per valore professionale, per l'amore che ha profondamente radicato al suo luogo natio. Viene spesso al paese ed ha buona amicizia e stima per Pietro, cui tra l'altro affida in cura a mezzadria buoni terreni della-collina più vicina. Il medico ha conosciuto il contadino quando questi, su indicazione del suo fattore, ha lavorato nel giardino che è a monte, dietro il palazzo avito, per riportarlo all'ordine antico, per farne cioè un parco dilettevole com'era prima, non una selva incolta di erbe e di alberi lasciati crescere senza alcun criterio e senza cura. Aveva subito apprezzato la forza di volontà e l'impegno tenace dell'agricoltore, anzi era stato preso dalla sua bontà d'animo e dalla sua propensione ad una sudditanza fedele, fatta di rispetto e di donazione. E, quando si sposa, Pietro chiede di fargli da compare di nozze al medico, che di buon grado gli fitta la casa giù, alla periferia del paese.

Carmina Cundari vuole assai bene al suo uomo, l'ha conosciuto alla festa dell'Assunta del posto, a mezzo agosto, quando si esibiva con un gruppo di coetanei in una danza popolare caratteristica del folclore locale nella piazza principale del paese, davanti alla chiesa. Il contadino era stato preso dal bianco e rosso del viso della fanciulla che lo ammirava e dalla tenerezza intelligente del suo sguardo e glielo aveva detto subito dopo, la sera stessa, così come sa e usa fare sempre, con schiettezza e senza alcun infingimento. Era diventato ancora più rosso il viso della ragazza, che si era schermita, aveva in un primo tempo diffidato della confidenza, ma poi ci aveva riflettuto e, pur tremando per la differenza cospicua delle età, aveva pensato con interesse a lui spesso, sempre più spesso, infine continuamente.

Si vogliono bene i due, si sposano con una festa contadina tradizionale ricca di allegria, di fisarmoniche e di buon vino e vanno ad abitare nella casa che il medico compare ha fatto imbiancare di fresco. La prima notte è densa di emozioni. La giovane Carmina non vuole spogliarsi davanti a Pietro, rompe prima in singulti e poi in un pianto dirotto. Il contadino la comprende e la lascia sola a svestirsi, a indossare la camicia da notte e a buttarsi sotto le lenzuola. Ma la donna vi ficca pure la testa, perché non vuole vedere il marito che si toglie i vestiti davanti a lei. Egli, tenero, al massimo comprensivo, proprio umano della generosità matura contadina, le si accosta piano piano, le sussurra qualche parolina dolce nell'orecchio, la cinge in un amplesso soavemente casto, la bacia. Ella ci sta, ma pavida, piena di paure, le lacrime le solcano il volto dolce dolce, silenziosa. Vuole enormemente bene al suo sposo, ma gli trema tra le braccia. Stanchi della festa, con nel cuore ancora le melodie delle fisarmoniche, speranzosi nel domani, i due si addormentano, ciascuno pensando alla sua maniera. All'alba, quando i passeri garruli annunciano con il loro cinguettio il nuovo giorno, come al solito Pietro si sveglia, ma rimane a letto.

- Buongiorno, Carmina. Ti voglio bene assai. -

- Anch'io. Anch'io. Perdonami il pianto di ieri sera. -

Il contadino, che ha il cuore tenero, ficca il suo braccio destro sotto il collo della moglie, le tira il viso sulla sua spalle e le stampa due baci in fronte, uno impigliato tra i capelli castani, profumati come tutto il resto della donna di ingenuità. È paziente, Pietro, che riprende il suo lavoro in collina, nei campi che disegna di vario tipo la morfologia del territorio che tiene in fitto. Ha sempre la mente, piena di stupore, alla sua Carmina, non si spiega perché faccia la ritrosa pur se avverte forte forte vero il suo amore totale, ma è determinato a non irrompere nella sua trepidazione, anzi a vincerla con la dolcezza e la generosità del suo animo. Passano così i tramonti e le albe dei primi giorni di vita della nuova coppia, i giorni più lunghi dell'anno, quelli più carichi di speranze e di gioie.

La notte, la sesta dopo il matrimonio, la prima dell'estate con le stelle che inondano il cielo terso, azzurro profondo, la bontà e la dolcezza di Pietro hanno la vittoria. Pacata, soave, irripetibile, indimenticabile. L'amplesso è delle anime e dei corpi insieme. Sono avvinti l'uno nell'altra, penetrati d'amore, chiusi nell'immobilità dell'estasi della natura, eguale per tutti, ricchi e poveri, colti e incolti, raddensa sempre di poesia e di musica. Il venticello tra gli ulivi, le chiome appena smosse, canta la nenia più fascinosa. Viene dal colle a partecipare il gaudio del creato per l'amore che si schiude, per la gemma che sboccia. La mattina si ritrovano, i due, stretti l'uno all'altra, in un mare di gioia.

- Ti amo, piccola. Ti amo immensamente. -

- Perdonami per le mie paure. Ho avuto paura, tanta paura di essere impari alla tua esperienza. -

- Quale esperienza? lo ho solo quella della terra che mi è dato di coltivare. -

In campagna il sole della prima giornata d'estate è sfolgorante. Pietro si butta nel suo lavoro con l'anima piena di letizia e canta con libertà tutta quanta la felicità che gli ha messo dentro l'incontro con Carmina in una notte beata.