la perseveranza finale

23 – la perseveranza finale,

Anche da bimbo, visitando il cimitero, non mi piacevano quei simboli della morte, effigiati sulle lapidi delle tombe, un teschio con sotto due femori, o omeri che so io, incrociati, oppure una clessidra alata, e nelle mie cose scritte me la son figurata sempre, la morte, come una ragazza bionda, bellissima, ma con la benda sugli occhi per non vedere a chi consegnava per volere di Dio il giglio che teneva in mano: la ragazza superba d’anima e di corpo, la casta adorazione nel regno; il giglio bianchissimo e profumato, il segno puro della vita che s’apre dopo la fine. È stata sempre eguale, quella ragazza, sempre stupenda, ma ora, l’ho già detto, la vedo avanti negli anni, sempre meravigliosa, diritta di portamento e austera, ma con i capelli bianchi tirati dietro sulla nuca fermati dal nodo della benda che sempre le copre gli occhi, ma il giglio lo stesso, candido e odoroso, come quello della mia prima comunione che portai al Signore eucaristico con un cero acceso all’altare della Madonna di Pompei. La morte è lì, in quel momento, è quella donna bella che per volontà di Dio ti abbraccia consegnandoti il fiore prezioso.

La morte sorella, di cui si ha paura. E si ha ragione di averne tremore, perché è la punizione più dura alla disubbidienza dell’uomo, del quale si spezza l’unità: il corpo e lo spirito si separano, e con che dolore è immaginabile. La mamma leggeva, qualche volta pure a noi, l’apparecchio alla morte, quello che pare avesse scritto proprio sant’Alfonso Maria de’ Liguori: il pensiero del gelo che arrivasse dai piedi lentamente mi faceva venire la pelle d’oca. E mio nonno paterno, mio padre lo diceva egoista in senso buono, volle prepararcisi per tempo, costruendo tra i figli un prete e un medico che l’assistessero nel trapasso, come poi fu, uno a destra e l’altro a sinistra. Chiedo sempre a preti e medici appunto come si muore: per fortuna mi dicono che sono pochi quelli che maledettamente si oppongono alla legge inesorabile e si dannano. La natura seconda il nostro itinerario e ci accompagna, preparandoci piano piano all’evento, inviandoci l’input e distaccandoci man mano dalle cose, anche le più care, dandoci stanchezza progressiva, mandandoci segnali di avvertimento assai tristi ma giovevoli. Si griderà a me allora nella nebbia della Manica: il fanale di coronamento si sta spegnendo, e la nostalgia dell’esilio dell’uomo sarà definitiva.

Cosa si vede, cosa c’è, chi viene incontro in quell’attimo? Zitti, zitti, non fatemi perdere questa musica. Spegnete tutte le luci: cos’è questo bagliore? Mamma, mamma! L’ho provata, la morte, un attimo, ma non ne ho avuto paura; la sensazione m’ha preso profonda, nelle viscere malate, nel cuore, nelle coronarie spappolate, che la natura tutte le mie risorse disponibili concentrasse in un punto, quello della mia salvezza fisica. È madre, la natura, non matrigna: è uscita direttamente dalla mano di Dio, che se n’è compiaciuto.

La morte è un momento, un punto, un tempo e uno spazio infinitesimi, gli ultimi, definitivi, uno stacco nella curva della vita, lo stacco finale non è più riagganciabile l’itinerario, il percorso è irreparabilmente interrotto. C’è la risurrezione, ma dopo, la speranza che continua nei cieli dell’amore e della verità. Al mio angelo custode dico di fare in modo che in quell’istante le mie risorse si concentrino in un punto per la mia salvezza spirituale, quella eterna. Il corpo verrà dietro, poi, con la risurrezione del giudizio universale al suono delle trombe d’oro. Ce la farò di sicuro ad aiutarmi; ma, se non ce la facesse, chiami gli altri angeli, del suo stormo e di quelli vicini, a farmi libero nel bene eterno, nell’amore assoluto, e a portarmi là dove sarà pronta, mi auguro, la processione dei miei morti, quelli del sangue e delle mie storie, mio padre, mia madre, mia moglie Anna Maria, ad accompagnarmi con la Vergine Maria e tutti i santi che amo ai piedi del Padre, più che mai benevolo e benedicente.

La morte è separazione tragica, ineluttabile e ineludibile, eguale per tutti, vestita di solitudine per tutti. L’ultima partenza, l’estrema. Non mi potrò più definire un partito, dovrò dirmi un arrivato, anche se ora dirlo mi costa dolore, e mi costa dolore solo pensarlo. È la fine dell’esilio dell’uomo; in fondo, non era male la nostalgia dell’esilio: ci si era abituati. Quel momento, quel punto sono terribili, perché sono carichi di incertezze. Cosa succederà allora, quale sarà l’ultima intenzione, come sarà l’ultimo sospiro? Salvezza o perdizione? Il volto di Dio, cioè tutto il bene, per sempre, o la negazione dell’amore, la privazione del bene e della verità, per sempre? Vien fuori il tema di consistente spessore della perseveranza finale. È quello escatologico per eccellenza: i novissimi. Meditabis novissima tua, et non peccabis in aeternum: morte, giudizio, inferno e paradiso. Queste pratiche ascetiche pare che siano andate completamente in disuso, ma sono fondamentali per vivere bene e per amare meglio: sono fondate sul timore di Dio, che è un dono dello Spirito Santo da tenere sempre in conto con gli altri sei: la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà. Di quanta laicità, spesso sfociante nel laicismo, copriamo questi doni che ci vengono dall’amore di Dio?

Il timore, che non è paura, ma sentimento di rispettosa soggezione, è fonte di salvezza. Annota san Basilio Magno: o ci allontaniamo dal male per timore del castigo e siamo nella disposizione dello schiavo. O ci lasciamo prendere dall’attrattiva della ricompensa e siamo simili ai mercenari. Oppure è per il bene in se stesso e per l’amore di colui che ci comanda che noi ubbidiamo… e allora siamo nella disposizione dei figli. È certo che la via migliore per la salvezza è quest’ultima, ma anche le precedenti portano a buon frutto sia pure in misura minore. La preghiera, comunque, è indispensabile per la salvezza. È proprio sant’Alfonso che scrive: chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna.

Tu, Gesù eucaristico, sei la via buona, oltre che la verità e la vita. Nel Catechismo è detto che nell’eucaristia la preghiera al Padre manifesta anche il carattere escatologico delle proprie domande. Essa è la preghiera tipica degli ultimi tempi, i tempi della salvezza, che sono cominciati con l’effusione dello Spirito Santo e che si compiranno con il ritorno del Signore. Nella sua preghiera a Cristo vero e vivo sotto le sacre specie sant’Alfonso, che è maestro di teologia ascetica, e non solo per il so tempo, chiede la perseveranza finale, che è grazia somma per la salvezza. Di fronte a tutto quello che può succedere nel passaggio, nei tempi e negli spazi infinitesimi dello stacco, la paura viene e il bisogno di chiedere aiuto tempestivamente si sente. Non è inopportuno ricordare quanto si osserva in merito nel Catechismo. I figli della santa Chiesa nostra madre, sperano giustamente la grazia della perseveranza finale e la ricompensa di Dio loro Padre per le opere buone compiute con la sua grazia, in comunione con Gesù.

Osservando la medesima regola di vita, i credenti condividono la beata speranza di coloro che la misericordia divina riunisce nella città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Tra i sette sacramenti i cattolici credono e professano l’unzione degli infermi, che si è anche chiamata sacramentum exeuntium, una volta estrema unzione, che può considerarsi anche una preparazione all’ultimo passaggio, ma che è, dono particolare dello Spirito Santo, una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia. Tale grazia rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro le tentazioni di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte. Questa assistenza del Signore attraverso la forza del suo Spirito vuole portare il malato alla guarigione dell’anima, ma anche a quella del corpo, se tale è la volontà di Dio. Inoltre, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.

Nel Qoelet, l’Ecclesiastico, è scritto di ricordarmi del mio creatore nei giorni della mia giovinezza… avanti che ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e lo spirito torni a Dio che me lo ha dato. Non ci ho pensato finora, o ci ho pensato poco, ma ora il ricordo nella preghiera di sant’Alfonso mi è giovevole, oltre tutto perché i giorni della mia giovinezza son passati da tempo, da un bel po’ di tempo. Far memoria della propria mortalità serve anche a ricordarci che abbiamo soltanto un tempo limitato per realizzare la nostra esistenza. La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, è l’ultimo nemico dell’uomo a dover essere vinto. Anche tu, Cristo Gesù, ha subìto la morte, caratteristica tremenda della condizione umana. Ma, con tutta l’angoscia del Getsemani e del Calvario di fronte ad essa, la assumi in un atto di totale e libera sottomissione alla volontà del Padre. La tua obbedienza ha trasformato la maledizione della morte in benedizione. Morte, dov’è la tua vittoria? Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e, mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo.