Maria Valtorta e la botanica

 

“Non sono molto forte in floricultura” confessa Maria Valtorta, allorquando descrive la scena della piccola Faustina (figlia della romana Valeria) che, in pieno dicembre, offre a Gesù, suo salvatore, un mazzo di rose carnicine mescolate con delicati fiori bianchi dei quali ignora il nome (EV8.Cap531.8). Nella sua opera maggiore, in effetti, almeno una dozzina di volte ammetterà esplicitamente di non sapere il termine con il quale indicare altrettante specie vegetali che ha davanti alla vista spirituale e numerose altre volte dà di esse solo indicazioni generiche. Ciononostante le sue pagine abbondano di scene floristiche percepite, anche olfattivamente, con una precisione da fotografia perfetta ed elargite con grande perizia descrittiva.

 

Se consideriamo, nell'insieme, le piante identificabili in modo certo e quelle solo approssimativamente candidabili, le specie alle quali, in qualche modo, si fa riferimento nei dieci volumi dell’Evangelo sono circa 180; altre se ne intravvedono sotto le espressioni “ortaglia”, “verdure”, “legumi”, “tuberose”, “frutteti”, “cereali”, “agrumi” “piante di alto fusto” etc.. Limitati approfondimenti in materia, anche in risposta a superficiali dichiarazioni di presunti anacronismi ivi presenti (quali, ad esempio, i fichi d’india e le agavi), sono stati pubblicati dall’ing. Jean-François Lavère e dal prof. Emilio Biagini ma occorrerebbero studi ancor più specifici rielaborando, eventualmente, testi già esistenti sulla botanica biblica alla luce degli scritti valtortiani.

 

Segue una piccola rassegna di quelle in cui compaiono o sono sottintesi in armonico quadro almeno cinque nomi comuni di piante, escludendo le associazioni proferite dalla bocca dai personaggi stessi dell’Evangelo tra cui spicca per bellezza “La terra aveva, e non lo sapeva ancora, il suo Fiore. Il vero, unico Fiore che fiorisce eterno: giglio e rosa, mammola e gelsomino, elianto e ciclamino insieme fusi, e con essi tutti i fiori della terra in un Fiore solo, Maria, nella quale ogni virtù e grazia si aduna”. (EV1.Cap1.4)

 

1.

(…) Per quanto l'orto sia ombroso, pure l'aria vi è rovente, pesante. Un'aria da tagliarsi come una pasta molle e calda, tanto è densa, sotto uno spietato cielo di un azzurro che la polvere sospesa negli spazi fa lievemente fosco. Da molto deve esservi siccità, perché la terra, dove non è irrigata, è letteralmente ridotta a polvere finissima e quasi bianca. Di un bianco lievemente tendente ad un rosa sporco, mentre è marrone rosso scuro, per esser bagnata, al piede delle piante o lungo le brevi aiuole dove crescono filari di ortaggi, e intorno ai rosai, ai gelsomini, ad altri fiori e fioretti, che sono specie sul davanti e lungo una bella pergola che taglia per metà il brolo sino al principio dei campi, ormai spogli di biade. Anche l'erba del prato, che segna la fine della proprietà, è arsiccia e rada. Solo ai margini di esso, là dove è una siepe di biancospino selvatico, già tutto tempestato dei rubini dei piccoli frutti, l'erba è più verde e folta, e là, in cerca di pastura e d'ombra, sono delle pecorelle con un piccolo mandriano. Gioacchino è intorno ai filari e agli ulivi. Ha con lui due uomini che l'aiutano. (EV1.Cap.5.1)

2.

(…) Al termine della pergola si vedono i falciatori segare il fieno. Ma non deve essere, però, maggengo, perché l'uva è già dietro a colorarsi d'oro, e un grosso melo mostra fra le foglie scure i suoi frutti che stanno divenendo di una lucida cera gialla e rossa, e poi il campo a grano non è che stoppia su cui ondeggiano lievi le fiammelle dei papaveri e si drizzano rigidi e sereni i fiordalisi, raggiati come una stella e azzurri come il cielo d'oriente.

Dalla pergola ombrosa viene avanti una Maria piccina, ma già svelta e indipendente (…) Nelle manine ha papaveri e fiordalisi e altri fioretti che crescono fra i grani, ma dei quali non so il nome. (EV1.Cap7.1)

3.

Le mura del Tempio si allontanano, e poi quelle della città, ed ecco la campagna, nuova, fresca, fiorita nei primi soli di primavera, coi grani alti un buon palmo dal suolo e che paiono smeraldi ridotti a foglioline ondeggianti ad una brezza leggera, che sa di fiori di pesco e melo, che sa di trifogli in fiore e di mentucce selvagge. (EV1.Cap13.7)

4.

(…) La via maestra, fresca per nuova pioggia caduta forse la notte passata, non ha polvere, ma neppure ha fango. È compatta e pulita, come fosse una via cittadina, e si snoda fra due siepi di biancospini in fiore. Una nevicata che sa di amarognolo e di bosco, spezzata dalle mostruose agglomerazioni dei cactus, dalle foglie grasse a paletta, tutte irte di pungiglioni e decorate delle enormi granate dei frutti bizzarri, nati senza stelo in cima alle foglie che, per colore e forma, evocano sempre in me profondità marine e boschi di coralli e meduse, o altre bestie dei mari profondi.

Oltre le siepi -la cui funzione è di recingere le proprietà dei singoli, per cui si allungano in ogni senso, facendo un bizzarro disegno geometrico di curve e di angoli, di rombi, losanghe, quadrati, semicircoli, triangoli dalle acutezze o ottusità più inverosimili, un disegno tutto spruzzato di bianco, come un nastro capriccioso che avessero steso così, per gioia, lungo le campagne e sul quale volano, pigolano, cantano a centinaia uccellini d'ogni specie, nella gioia dell'amore e nell'opra dei nidi da ricostruire- oltre le siepi, la campagna, coi grani in erba, qui già più alti che nelle campagne di Giudea, e prati tutti in fiore, e su essi -in risposta alle leggere nuvolette del cielo che il tramonto fa rosee, fa di un lilla tenue, di un viola pervinca, di un opalino tinto d'azzurro, di un arancio-corallo- a cento e cento, le nuvole vegetali degli alberi da frutto, bianche, rosee, rosse, in tutte le sfumature del bianco, rosa e rosso.

Al lieve vento della sera sfar fallano e cadono i primi petali dagli alberi fioriti, e sembrano sciami di farfalline in cerca di polline sui fiori del campo. E, fra albero ed albero, festoni di vite ancor nuda, che solo nei sommi dei festoni, dove più colpisce il sole, hanno uno schiudersi innocente, stupito, palpitante delle prime foglioline. (EV1.Cap14.1)

5.

(…) Questo poco terreno che la siepe di canne recinge, siepe sulla quale, a farla più fitta e meno misera, sono stati condotti degli arrampicanti che mi paiono modesti convolvoli -solo su un lato vi è un arbusto di gelsomino in fiore e un cespuglio di rose delle più comuni- è stato coltivato pazientemente, nonostante il terreno sia arido e magro, a orticello. Vi noto delle modestissime verdure nelle poche aiuole del centro, sotto ad una pianta d'alto fusto che non so capire che sia, la quale dà un poco d'ombra sul terreno assolato e sulla casetta. A questa pianta è legata una capretta bianca e nera, che bruca e rumina le foglie di alcuni rami gettati al suolo. (EV1.Cap36.1)

6.

(…) Deve appena esser sorto il giorno, un bel giorno sereno di prima estate, e tolto il canto degli uccelli fra gli alberi -per lo più ulivi, specie sulla collina di sinistra, mentre l'altra, più spoglia, ha arbusti bassi di lentisco, acacie spinose, agavi, ecc. ecc. - e il tubare lamentoso di tortore selvatiche, che nidificano nelle crepe del monte più brullo, non si sente altro. Anche il torrentello, dalle acque molto scarse e ridotte al solo centro dell'alveo, pare non fare alcun rumore e se ne va riflettendo nelle acque il verde circostante, per cui pare di smeraldo scuro.

Gesù valica un ponticello primordiale -un tronco semipiallato, gettato al disopra del torrente, senza sponde, senza sicurezza- e prosegue sull'altra riva.

Ora si vedono delle mura e delle porte e si vedono anche mercanti di ortaggi e cibarie affollarsi alle porte, ancora chiuse, per entrare in città. (EV1.Cap67.1)

7.

(…) Forse è una conca fra due catene, non so. È la prima volta che la vedo e ci capisco poco. Colture diverse a campi non vasti ma ben tenuti di cereali: orzo, segale per lo più, e anche bei vigneti nelle parti più soleggiate. Poi bei boschi, più in alto, di pini e abeti, e altre piante di luoghi selvosi. Una via... discreta immette in un piccolo villaggio. (EV1.Cap78.1)

8.

Quando Gesù, valicata l'ultima salita, giunge sul pianoro, vede Betania tutta ridente di un sole dicembrino, che rende meno triste la campagna dispogliata e meno cupe le macchie di verde date dai cipressi, dai quercioli e dai carrubi che sorgono or qua or là, e sembrano cortigiani intenti ad inchinare qualche palma altissima, veramente regale e che si drizza solitaria nei giardini più belli.

Perché Betania non ha solo la bella casa di Lazzaro. Ha anche altre dimore di ricchi, forse cittadini di Gerusalemme che preferiscono vivere qui, presso i loro beni, e che sulle casette dei villici fanno risaltare le loro ville di ampia e bella mole dai giardini ben curati. E fa strano vedere in un luogo collinoso ancora qualche palma rievocare l'Oriente, col suo fusto snello e il ciuffo duro e frusciante delle foglie dietro al cui verde giada si cerca istintivamente il giallore sconfinato del deserto. Qui invece sono sfondi di ulivi verd'argento e campi arati, per ora nudi del più piccolo segno di grano, e scheletrici frutteti dai tronchi scuri e dalle ramaglie intricate come fossero d'anime che si contorcono in una tortura infernale. (EV2.Cap135.1)

9.

(…) Mentre i tre si decidono ad entrare nella cucina, dove Maria offre loro cibarie e tepore di fuoco, Gesù alza la tenda che cela l'apertura che conduce nell'orto-giardino ed esce in esso. Un dolce sole rende ancora più aerei e irreali i rami tutti in fiore dell'alto mandorlo dell'orto. Unico in fiore, il più alto delle piante che sono nell'orto, ricco nella sua veste di seta bianco-rosata sulla povertà nuda degli altri: pero, melo, fico, vite, melograno, tutti ancora aridi e spogli, pomposo nel suo velo spumoso e vivo contro la grigia umiltà monotona degli ulivi, pare che coi suoi lunghi rami abbia catturato una nuvoletta leggerissima, sperduta sul campo azzurrino del cielo, e se ne sia infiocchettato per dire a tutti: «Le nozze della primavera vengono. Esultate, voi piante, voi animali. É l'ora dei baci coi venti, con le api, o fiori. É l'ora dei baci sotto i tegoli o nel folto dei boschetti, o uccellini di Dio, o candide pecore. Oggi baci, domani prole, per perpetuare l'opera del Creatore Dio nostro».

Gesù, con le braccia conserte sul petto, sorride, ritto nel sole, alla pura, placida grazia dell'orto materno con le sue aiuole di gigli che si denunciano per i primi cespi di foglie, coi suoi rosai ancora nudi, e l'ulivo così d'argento, con altre famiglie di fiori sparse fra le umili aiuole di legumi e insalate che appena verzicano. Puro, ordinato, gentile, pare esso pure spirare candore di verginità perfetta. (EV2.Cap156.1)

10.

Gesù è sul lago, sulla barca di Pietro, dietro altre due barche: una, la comune barca da pesca, gemella a quella di Pietro; l'altra, una barca snella, ricca, da diporto. É la barca di Giovanna di Cusa. Ma la padrona della stessa non è nella sua barca. É ai piedi di Gesù, nella rustica barca di Pietro.

Direi che il caso li ha riuniti in qualche punto della sponda fiorita di Genezaret, bellissima in questa prima apparizione della primavera palestinese, che sparge le sue nuvole di mandorli in fiore e mette perle di futuri fiori sui peri e meli, melograni, cotogni, tutti, tutti gli alberi più ricchi e gentili nel fiore e nel frutto. Quando la barca rasenta una sponda al sole, già si svelano i milioni di bocci che gonfiano sui rami, in attesa di fiorire, mentre sfarfallano per l'aria quieta, fino a posarsi sulle onde chiare, i petali dei mandorli precoci. Le sponde, fra l'erba nuova che pare una seta di un verde lieto, sono costellate degli occhi d'oro dei ranuncoli, delle stelle raggiate delle margheritine, e presso a queste, rigidi sul loro stelo come piccole regine incoronate, sorridono lievi, placidi come iridi di bambini, i miosotis sottili, azzurrini, gentili tanto, e pare dicano «sì, sì» al sole, al lago, alle erbe sorelle, che sono felici di fiorire e di fiorire sotto gli occhi ceruli del loro Signore.

In questo inizio di primavera il lago non ha ancora quell'opulenza che lo farà un trionfo nei mesi successivi, non ha ancora quella pompa sontuosa, direi sensuale, dei mille e mille rosai rigidi o flessuosi che fanno ciuffo nei giardini o velo ai muri, dei mille e mille corimbi dei citisi e delle acacie, delle mille e mille schiere delle tuberose in fiore, delle mille e mille stelle cerate degli agrumi, di tutto questo fondersi di colori, di profumi violenti, molli, inebrianti, che fanno quadro e sprone alla smania umana di godere che profana, troppo profana quest'angolo di terra, così puro, che è il lago di Tiberiade, il luogo scelto dai secoli per essere teatro del più gran numero di prodigi del Signore Gesù nostro. (EV2.Cap158.1)

11.

(…) Gli apostoli, poco entusiasti del cammino fra questa zona bella ma selvaggia - piena di falaschi che si impigliano ai piedi, di canne che fanno piovere sul capo una pioggerellina di rugiada rimasta trattenuta dalle coltelle delle foglie, di nocchi che percuotono il viso con la mazza dura del loro frutto disseccato, di salci fragili che spiovono da ogni parte facendo il solletico, di traditrici zone d'erba che pare nata su un suolo solido ed invece cela pozze d'acqua in cui il piede sprofonda perché non sono che agglomerati di code di volpe e di vescicolarie nate in minuscoli stagni e così fitte da nascondere l'elemento su cui sono nate - vanno in silenzio, parlandosi solo con gli occhi.

Gesù, dal suo canto, pare bearsi in tutto quel verde di mille colori, in tutti quei fiori che strisciano, che stanno eretti, che si aggrappano per salire, che mettono sottili festoni sparsi di lievi convolvoli di un rosa malva tenuissimo, che fanno un tappeto gentile d'azzurro per le migliaia di corolle di miosotidi palustri, che aprono la perfetta coppa della corolla bianca, rosea, o azzurra fra le larghe foglie piatte dei nenufari. Gesù ammira i pennacchi delle canne palustri, setosi e tutti imperlati, e si china beato ad osservare la gentilezza delle code di volpe che fanno un velo di smeraldo alle acque. Gesù si ferma estatico davanti ai nidi che gli uccellini costruiscono con un andare e venire giocondo fatto di trilli, di guizzi, di fatica lieta, col beccuccio pieno di fili di fieno, di bambagia delle canne, di bioccoli di lana strappata alle siepi che l'avevano strappata ai greggi trasmigranti… Pare la persona più felice che ci sia. Il mondo dove è con le sue cattiverie, falsità, dolori, insidie? Il mondo è al di là di questa oasi verde e fiorita dove tutto profuma, splende, ride, canta. Qui è la terra creata dal Padre e non profanata dall'uomo, e qui si può dimenticare l'uomo. (EV3.Cap187.1)

12.

Fanno a passo svelto l'ultimo tratto di via maestra e poi la lasciano per una via secondaria che porta diritta a Endor.

È un povero luogo, come ha detto Gesù. Le case sono abbarbicate alle pendici che dopo, oltre il paese, si fanno più aspre. Povera gente le abita. Per lo più i cittadini devono esercitare la pastorizia su per i pascoli del monte e fra i boschi di querce secolari. Pochi campicelli di orzo, o simile biada, nei ritagli propizi, e delle piante di melo e di fico. Poche viti intorno alle case, a fare un poco di decorazione sulle muraglie, oscure come questo fosse un posto piuttosto umido. (EV3.Cap188.2)

13.

I tre grandi bacini scavati nella roccia del monte, un'opera veramente grandiosa, splendono nella superficie limpidissima e nella nappa d'acqua che dal primo bacino scende nel secondo più vasto e da questo nel terzo, che è veramente un piccolo lago e che poi la convoglia nelle sue tubazioni verso città lontane.

Ma per l'umidità del suolo in questa zona, tutto il monte, dalla sorgente alle piscine e da queste al suolo, è di una fertilità bellissima, e fiori più compost i di quelli selvaggi ridono per le coste verdi insieme ad erbe profumate e rare. Sembra che qui siano stati seminati dall'uomo i fiori dei giardini e le erbe profumate, che spargono per l'aria, per il sole che le scalda, i loro aromi di cannella, canfora, garofano, lavanda e altri odori piccanti, fragranti, forti, soavi, in una fusione meravigliosa dei migliori odori della terra. Io direi che è una sinfonia di profumi, perché realmente è il poema delle erbe e dei fiori nelle tinte e nelle fragranze.

Tutti gli apostoli sono seduti all'ombra di un albero carico di grandi fiori bianchi di cui non so il nome - delle enormi campanelle di smalto bianco, pendule - ondeggianti al minimo soffio di vento, e ad ogni ondulìo e un'onda di fragranza che si sparge. Non conosco il nome di quest'albero. Nel fiore mi ricorda quell'arbusto che è in Calabria, che là chiamano «bottaro», ma nel fusto no certo, perché questo è un albero alto, dal tronco robusto, non un arbusto. (EV31.Cap208.5)

14.

I dodici se ne vanno non troppo entusiasti. Gesù li guarda andare e poi prende il sentiero della collina, fresco, ombroso. Il colle è coperto di boschi di ulivi, di noci, di fichi e di vigneti ben coltivati e già promettenti pingue raccolto. Nei luoghi pianeggianti sono campicelli di cereali, in quelli in pendio pascolano capre bionde sull'erba verde. (EV3.Cap220.1)

15.

«Da Jabnia andremo ad Acron?» chiedono andando per una fertilissima campagna dove i grani dormono il loro ultimo sonno al sole, al grande sole che li ha maturati, stesi a covoni sui campi falciati e tristi come immensi letti funebri, ora che non hanno più veste di spighe, ma salme di grano in attesa d'esser trasportate altrove.

Ma se i campi sono spogli, i pometi sono vestiti a festa, coi frutti che si affrettano a maturare, che passano dal verde duro del frutticino a quello tenero, giallino, rosato, lucido come per cera del frutto che matura, oppure i fichi aprono lo scrigno, scoppiando nelle pelle elastica, il dolcissimo scrigno del frutto-fiore, e mostrano, oltre lo spacco verde-bianco o viola e bianco, la gelatina trasparente e sparsa di semolini più scuri della polpa.

Gli ulivi ad un venticello leggero scuotono le loro gocce ovali di giada appese al picciolo sottile fra il verd'argento delle frasche, e i noci solenni tengono, duri sul gambo, i loro frutti che gonfiano fra la felpa del mallo, mentre i mandorleti finiscono di maturarli fra l'involucro che aggrinza il suo velluto e ne muta colore, e le viti gonfiano gli acini, e già qualche grappolo, situato in posizione di favore, osa accennare al topazio trasparente e al rubino futuro dell'acino maturo, mentre le cactacee della pianura o delle prime pendici esultano per le decorazioni giorno per giorno più vive degli ovuli di corallo, che sono stati bizzarramente posati da un decoratore allegro sulla cima delle spatole polpute che sembrano mani e mani, chiuse in astucci pungenti che protendono al cielo i frutti che esse han cresciuto e maturato.

Palme isolate e carrubi folti ricordano già molto l'Africa vicina, e mentre le prime suonano le nacchere delle loro foglie dure a pettine tondo, gli altri si sono vestiti di smalto verde cupo e stanno impettiti, in sussiego nella loro veste tanto bella. Capre bionde e capre nere, alte, snelle, dalle lunghe corna ricurve e gli occhi dolci e arguti, si pascono delle cactacee e danno l'assalto agli agavi carnosi, a questi enormi pennelli di foglie dure e spesse che, come carciofi aperti, dal centro del cuore erompono il candelabro da cattedrale del loro stelo gigante a sette braccia, su cui fiammeggia il fiore giallo e rosso dal profumo gentile.

Africa ed Europa si danno la mano nel coprire il suolo di bellezze vegetali, e non appena il gruppo apostolico lascia la pianura per prendere un sentiero che si inerpica su una collina letteralmente coperta di vigneti, in questa sua costa che guarda il mare - costa pietrosa, calcarea, su cui l'uva deve divenire un che di prezioso come per mutazione di succo in giulebbe - ecco che il mare, il mio mare, il mare di Giovanni, il mare di Dio, si mostra nel suo drappo smisurato di seta crespa e azzurra, e parla di lontananze, di infinito, di potenza, mentre canta col cielo e col sole il trio delle glorie creatrici. E la pianura si spiega tutta, in tutta la sua ondulata bellezza di accenni di colli alti pochi metri, mescolati a zone piane, a dune d'oro fino alle città e paesi sul mare, bianchi contro l'azzurro. (EV3.Cap221.1-2)

16.

Per ripide scorciatoie, quasi non vedendo i pastori che fanno pascolare i loro greggi sui verdi pascoli che sono sotto i boschi di lecci, di roveri, di frassini e altre piante d'alto fusto, salgono e salgono sfiorando coi mantelli i cespugli glauchi dei ginepri e quelli d'oro delle ginestre, oppure i ciuffi di smeraldo sparso di perle dei mirti, o le cortine semoventi dei caprifogli e delle vitalbe in fiore.

Salgono lasciando indietro boscaioli e pastori fino a raggiungere, dopo un instancabile cammino, la cresta del monte, o meglio un piccolo pianoro addossato ad una cresta incoronata di roveri giganteschi, limitato da una balaustra di altri fusti ai quali fanno da base le vette degli altri alberi della costa, di modo che sembra che il praticello sia come appoggiato su questo frusciante sostegno, isolato dal resto del monte che le fronde sottostanti impediscono di vedere, con alle spalle il picco che lancia i suoi alberi verso il cielo e, sopra, il cielo aperto e, di fronte, l'aperto orizzonte che arrossa nel tramonto e che sconfina sul mare tutto acceso. Una fessura aperta fra la terra, che non frana solo perché le radici dei roveri giganti la tengono in una rete di tenaglie, si apre nel balzo, larga appena per quanto possa accogliere un uomo e non corpulento. Uno scapigliato cespuglio pare prolungarlo protendendosi orizzontalmente dal fianco del balzo. (EV4.Cap257.2)

17.

(…) i superstiti ulivi dell'uliveto di Gioacchino, un tempo numeroso di piante che proseguivano la loro passeggiata di pellegrini oranti fino ai campi lontani dove l'uliveto e i campi finivano in pascoli, ora ridotti a poche piante rimaste nel confine della mutilata proprietà di Gioacchino.

Poi ne beneficiano il mandorlo e i meli, alti e potenti, che aprono sul brolo l'ombrello dei loro rami; terzo ne beve i raggi il melograno; ultimo il fico contro la casa, quando già il sole carezza i fiori e le verdure ben curati nelle aiuole rettangolari e lungo le siepi disposte sotto la pergola carica di grappoli. Le api ronzano, gocce d'oro volanti su tutto quanto può dar loro succhi dolci e profumati. Vi è un piccolo tralcio di caprifoglio che ne è preso di assalto, e così una siepe di fiori a forma di campanule messe a pannocchia, di cui ignoro il nome, che stanno chiudendosi - devono essere fiori notturni - dal profumo intensissimo. Le api si affrettano a suggerli, questi fiori, prima che essi pieghino i petali nel sonno della corolla. (EV4.Cap264.1)

18.

Gesù non è più dove era nell'ultima visione. Ma è in un vasto giardino che si prolunga fino al lago, oltre il quale, anzi in mezzo al quale, vi è la casa, preceduta e costeggiata da questo giardino che sul dietro, però, si prolunga almeno tre volte tanto quanto è lo spazio ai lati e sul davanti della casa.

Vi sono fiori, ma più che altro alberi e boschetti e recessi verdi, quali chiusi intorno a vasche di marmo prezioso, quali come chioschi intorno a tavole e sedili di pietra. E dovevano esserci statue qua e là, sia lungo i sentieri come al centro delle vasche. Ma ora restano solo i piedestalli delle statue a mettere un ricordo di esse presso i lauri e i bossi od a specchiarsi nelle vasche colme di limpida acqua. (…) Il lago è tutto un crespo grigio azzurro, riflettendo il cielo su cui scorazzano nubi cariche delle prime piogge dell'autunno. Eppure è bello anche così, in questa luce ferma e pacata di un giorno che non è sereno e che ancora non è del tutto piovoso. Le sue rive non hanno più molti fiori, ma in compenso sono dipinte da quel sommo pittore che è l'autunno, e mostrano pennellate d'ocra o di porpora ed estenuato pallore di foglie morenti per gli alberi e i vigneti, che trascolorano prima di cedere alla terra le loro vesti vive.

Vi è tutto un punto, nel giardino di una villa che è sul lago come questa, che rosseggia, quasi traboccasse nelle acque del sangue, per una siepe di rami flessibili che l'autunno ha fatta di un rame acceso da un fuoco, mentre i salici sparsi sulla riva, poco lontano, tremano nelle loro foglie glauco-argentee, sottili, ancor più pallide del solito prima di morire. (EV4.Cap277.1)

19.

E tutto intorno a questo paesello si contempla la sua fertile campagna alberata, variata nelle colture per cui dall'alto sembra un tappeto a quadri, a trapezi, a triangoli, quali bruni di terra zappata di fresco, quali verdi smeraldo per l'erba rinata alle piogge d'autunno, quali rosseggianti per le estreme foglie delle viti e dei frutteti, quali verde grigio per pioppi e salici, o verde smalto per querce e carrubbi, o verde bronzo per cipressi e conifere. Molto, molto bello!

E strade che vanno, come nastri da un nodo, dal paese alla pianura lontana, oppure verso monti anche più alti, e sprofondano sotto boschi, oppure dividono di un segno bigio il verde dei prati, il bruno dei campi arati.

E vi è un ridente corso d'acqua, che è d'argento oltre il paese verso la sorgente, che è di azzurro sfumato in giada al lato opposto, nella discesa a valle fra gole e pendici, e che appare e dispare, scherzoso, sempre più robusto e sempre più azzurro man mano che, ingrossando le sue acque, non permette più alle canne del fondale e alle erbe nate nell'alveo nei mesi di secca di tingerlo di verde, ma riflette il cielo, avendo seppellito gli steli sotto un velo d'acque già fonde.

Il cielo è di un azzurro irreale: una scaglia preziosa di smalto azzurro carico, senza una incrinatura impura nella sua compagine stupenda. (EV4.Cap. 287.1) 

20.

Il sole splende in un cielo purissimo e folate tiepide portano odore di bosco, di mentucce, di viole, dei primi mughetti, dei rosai sempre più fioriti e, sovrano su tutti, quell'odore fresco, lievemente amarognolo, dei fiori delle piante da frutto, che da ogni dove spargono neve di petali sulle zolle erbose. [---] Susanna si unisce alle altre donne portando seco i prodotti della sua terra in ceste e vasi, e un intero tralcio di rose rosse tutte in bocci, prossimi a schiudersi, «da offrirsi a Maria», dice.

«Io pure, vedi?», dice Giovanna scoprendo una specie di cassa dove sono adagiate rose e rose fra muschi umidi: «Le prime e le più belle. Sempre un nulla per Lei, tanto cara!».

Vedo che ogni donna ha portato derrate per il viaggio pasquale, e con le derrate chi questo fiore, chi quella pianta per l'orto di Maria; e Porfirea si scusa di non avere portato che un vaso di canfora, splendido nelle minute foglioline glauche che sprigionano il loro aroma solo a sfiorarle. «Maria la desiderava questa pianta balsamica...», dice. E tutte la elogiano per la bellezza rigogliosa dell'arboscello. (EV5.Cap348.5-6) 

21.

La casetta di Salomon, quella che senza saperne il proprietario ho visto nel marzo 1944 nella visione della risurrezione di Lazzaro, è una delle ultime dell'unica via, che va a sfociare al fiume, di questo villaggetto povero e fuori mano. Un villaggetto di barcaiuoli, con le casette più... ricche messe lungo la vietta polverosa, le altre sparse a casaccio fra le piante delle rive. E non sono certo molte. Credo che non arrivino a cinquanta. E così piccine che entrerebbero tutte in uno di quei casamenti popolari delle grandi città attuali. Ora la primavera le fa apparire meno misere perché le decora della sua freschezza, e ghirlande di convolvoli, o festoni di viti, o ridere aperto di gialli fiori di zucche, sono sulle embrionali palizzate che segnano i possessi, sui bordi dei tetti, intorno alle porte delle case, né manca qualche rosa che pare spaesata nella sua bellezza in mezzo a ceste e reti, a giallore di senapi in fiore, a umile dondolare dei primi baccelli dei legumi.

Anche la via pare meno brutta, perché il canneto là in fondo non ha solo le bacche dure dei nocchi polverosi, ma si infiocchetta di pennacchi delle eleocarie e fra i nastri delle foglie delle canne drizza i coltelli dei gladioli selvatici, che si pompeggiano nelle spighe multicolori dei loro fiori, mentre leggeri vilucchi, dallo stelo filiforme, abbracciano a spirale nocchi e canne e ad ogni giro mettono il calice delicatissimo del piccolo fiore di un rosa lilla tenuissimo. E uccelli, a miriadi, amoreggiano fra i canneti, civettando in cima alle canne, dondolandosi appesi ai vilucchi, mettendo trilli e colori fra il verde delle rive palustri.

Gesù spinge il rustico cancelletto che immette in un orticello o cortile. Certo, se era un orto, ora è un arruffìo selvaggio di erbe rinate; se era un cortile, è ugualmente una gazzarra di erbacce seminate dai venti. Solo delle zucche hanno mostrato saggezza, attaccandosi all'unica pianta di vite e al fico e salendo a mettere le bocche ridenti dei loro fiori vicino ai grappolini in miniatura della vite o alle foglie tenerelle del fico, che alla base, nella cuna del picciolo, hanno la gemma dura dei fichi- fiore appena formati. Le ortiche tormentano i piedi nudi, tanto che Pietro e Tommaso, raccolti due remi tarlati, si dànno a mortificare le irritanti piantacce per sminuirne il veleno. (EV6.Cap384.1)

22.

(…) Pecore bianche pascolano sotto il frusciante tetto dei palmizi, delle mimose, delle piante da balsami, degli alberi di pistacchi e di altri che esalano aromi sottili o acuti che si fondono a quelli dei roseti, dello spigonardo in fiore, della cannella, cinnamomo, mirra, incenso, zafferano, gelsomini, gigli, mughetti, e del fior dell'aloe che qui è gigante, e dei garofani e benzoini che lacrimano insieme ad altre resine dai tagli incisi nei tronchi. Veramente questo è «l'orto chiuso, la fonte di giardino», e frutta e fiori, fragranze, bellezza sorgono da ogni parte! Ancora non avevo visto in Palestina un luogo bello come questo, nella sua vastità e naturalezza. Comprendo ora molte pagine di poeti d'Oriente, quando cantano le bellezze delle oasi come quelle di paradisi spersi sulla Terra. (EV6.Cap389.2)

23.

(…) «Ti saluto, o casa santa dal mio Parente e Precursore! La pace a te! Per quanto ora tu sia sola e desolata, sempre la pace a te, o santa dimora di pace e di fede!».

Gesù pone piede, benedicendo, nel giardino divenuto selvaggio, e si inoltra fra le erbe invadenti e costeggiando quelle che una volta erano pergole od ordinate spalliere di lauri e bossi, e che ora sono una scapigliata famiglia di piante fasciate di edere, di vitalbe, di convolvoli che le opprimono; va in fondo, ai resti di ciò che era il sepolcro, e sosta là. (EV6.Cap398.1)

24.

Gesù vi arriva in una fresca aurora. E sono belle queste fertili campagne del buon Nicodemo in queste prime luci del sole. Belle nonostante che molti campi siano già segati e mostrino l'aspetto stanco dei campi dopo la morte dei grani che, a biche d'oro, oppure ancor stesi come salme al suolo, aspettano di essere portati sulle aie. E con loro muoiono i fiordalisi stellari e zaffirei, le violacee bocche di leone, le corolle minute delle scabiose, il labile calice delle campanelle, le ridenti raggiere delle camomille e margheritoni, i violenti papaveri e i cento altri fiori che, a stelle, a pannocchie, a grappoli, a raggiere, ridevano prima là dove ora è giallore di stoppie. Ma, a consolare il duolo della terra spogliata dei grani, stanno le fronde degli alberi da frutto, sempre più festose per i frutti che crescono e si spennellano di sfumature e che, in quest'ora, brillano di uno spolvero diamantifero per le rugiade non ancora arse dal sole. (EV6.Cap407.1)

25.

Nella splendida mattina, mentre ancora l'aria non è pesante di calore, è bello stare seduti in fraterna, pacifica accolta, sotto la pergola ombrosa, o là dove il melo attiguo al fico e al mandorlo fanno chiazze di ombra, prolungando quella della pergola sulla quale matura l'uva. E bello è passeggiare avanti e indietro per i sentieri fra le aiuole, andando dall'alveare alla colombaia, da questa alla piccola grotta, e poi, passando dietro le donne - Maria, Maria Cleofe, la nuora della stessa: Salome di Simone, Aurea - andare verso i pochi ulivi che dal balzo si protendono sull'orto quieto. (EV7.Cap.436.1) 

26.

(…) Gesù abbassa il volto, sempre rimanendo in piedi a braccia conserte, e si sprofonda ancor più in una meditazione intensa. É concentrato totalmente in Se stesso. I suoi magnifici occhi ben aperti fissano il suolo quasi per strappare alle erbe una risposta. Ma scommetto che non vedono neppure il moto lento degli steli, che al vento fresco dell'alba hanno come un fremito, un brivido simile a quello di chi esce da un sonno e si stira, si volta, si scuote, per tornare ben desto, agile in tutti i suoi nervi e muscoli. Guarda e non vede questo destarsi dell'erbe e dei fiori selvaggi che dai rametti, dalle foglie, dalle corolle a ombrello o a grappoli, a spighe, a ciocche, quali isolati nei calici, quali a raggiere, o a bocca di leone, a cornucopia, a piumino, a bacche, talora rigidi sullo stelo, talaltra molli e penduli da un fusto non loro su cui si sono avviticchiati, quali abbandonati e striscianti al suolo, quali riuniti in famiglie di molte pianticine basse e umili, altri solitari, larghi, violenti nel colore e nel portamento, e tutti intenti a scuotersi dai petali le stille della rugiada, desiderosi ora non più di guazze ma di sole, capricciosi nel desiderare come nel disporsi... (EV7.Cap455.2)

27.

Non so in che luogo sia Gesù. Certamente fra i monti e in un luogo abbandonato dopo esser stato distrutto, o da qualche cataclisma o da operazione di guerra. E direi più da quest'ultima, perché le rovine delle case mostrano anche segni di fiamme nelle volte protette dall'acqua e visibili ancora di fra l'intrico di rovi, edere e altre piante rampicanti o parassitarie, nate per ogni dove. Le larghe foglie pelose di una pianta, della quale non so il nome, ma che ho notato anche in Italia, coprono tutta una rovina che pare un monticello scosceso. Più là un muro, rimasto ritto e solo a contemplare il resto della casa caduta, è invaso dai capperi e da parietaria e, dal parapetto a traforo di quello che era un terrazzo, spenzola una vitalba ondulando al vento i suoi rami come una chioma disciolta. Un'altra casa crollata al centro, ma dai muri esterni ancora ritti, pare un enorme vaso portafiori, che in luogo di steli contiene alberi nati spontaneamente nel cavo dove prima erano stanze. Un'altra rimasta in parte ritta a gradini sembra un altare preparato per qualche rito e tutto ornato di verde. In cima alla rovina un pioppo, esile e diritto come una lama, pare chiedere al cielo il perché di tanta sciagura.

E, fra casa e casa, fra maceria e maceria, ostinate piante da frutto imbarbarite, inselvatichite, soverchiate o soverchianti l'altra vegetazione, nate da frutti caduti, contorte, erette, striscianti, emergenti dal buco di un muro, da un pozzo disseccato, sembrano un bosco stregato. E uccelli e colombi che, uscendo dai crepacci fra le rovine, si gettano avidi nelle vicinanze, dove un tempo certo erano campi arati e dove ora è un groviglio di vecce dure, rinsecchite dal sole, aprenti i baccelli per lasciar cadere i semi e poi rinascere a primavera, di zizzanie, di logli. (EV8.Cap512.1)

28.

(…) Il giorno volge al crepuscolo. Ma un superstite ricordo di sole colpisce ancora la chioma frusciante di alcune palme, riunite in gruppo a pochi metri dalla sala, e la vetta di un lauro gigantesco in cui rissano i passeri prima di porsi a riposo. Oltre le palme e il lauro, oltre le siepi di rose, di gelsomini, e le aiuole di mughetti, di altri fiori e pianticine odorifere, la macchia candida, spruzzata del verde tenero delle prime foglie, di un gruppo di meli o di peri tardivi nel frutteto. Sembra una nuvola rimasta impigliata fra i rami. (EV9.Cap586.1) [---] Maria di Lazzaro esce dalla sala, mentre Marta mette sulla tavola dei vassoi colmi di fiori di fichi novelli, di verdi steli di finocchio e mandorle fresche sgusciate, fragoloni o lamponi, che so io, che sembrano ancor più rossi in mezzo agli smeraldi pallidi dei finocchi e delle fiore e al latteo delle mandorle, dei piccoli poponi o altro frutto del genere... mi sembrano quei poponi verdi della bassa Italia, e aranci dorati. (EV9.Cap586.4)

29.

(…) Ombre, silenzio, profumi di fiori, aromi di canfore e garofani, cannella, spigo e mille altre erbe da odori, e fruscio di ruscelli, certo alimentati dalle fonti e cisterne vicine, sotto gallerie di fogliame, cinguettii d’uccelli, fanno del luogo un posto di riposo paradisiaco. (EV9.Cap596.23)

30.

Un nuovo mattino. Così sereno! Così festoso! Non ci sono più neppure le nuvole rare che ieri vagavano lentamente sul cobalto del cielo. Non c’è neppure l’afa pesante che ieri era gravosa tanto. Una brezza sottile alita sui volti. E sa di fiori, sa di fieni, sa di aria pulita. E smuove lentamente le foglie degli ulivi. Sembra voglia far ammirare l’argenteo delle fogliette lanceolate e sparge fiori, piccoli, candidi, odorosi, sui passi di Cristo, sul suo capo biondo, baciarlo, rinfrescarlo -perché ogni minuto calice ha la sua stilluzza di rugiada- baciarlo, rinfrescarlo e poi morire prima di vedere l’orrore incombente. E si inchinano le erbe dei clivi scuotendo le campanelle, le corolle, le palmette dei mille fiori. Stelle dal cuore d’oro, le grosse margherite selvagge stanno alte sullo stelo come per baciargli la mano che sarà trafitta, e le pratoline e le matricarie gli baciano i piedi generosi, che si fermeranno dall’andare per il bene degli uomini solo quando saranno inchiodati per dare un bene maggiore ancora, e le rose canine odorano e il biancospino che non ha più fiori agita le foglie dentellate. Pare che dica: «No, no» a quelli che lo useranno per dare tormento al Redentore. E «no» dicono le canne del Cedron. Anche loro non vogliono colpire, la loro volontà di piccole cose non vuol fare male al Signore. E forse anche i sassi delle chine si felicitano di essere fuori di città, sull’Uliveto, perché in tal modo, no, non feriranno il Martire. E piangono gli esili convolvoli rosati, che Gesù amava tanto, e i corimbi delle acacie candide come grappoli di farfalle strette a uno stelo, forse pensando: «Non lo vedremo più». E i miosotis, così esili e puri, lasciano cadere la loro corolla al tocco della veste purpurea che Gesù ha indossato di nuovo. Deve essere bello morire quando cosa che è di Gesù colpisce. Tutti i fiori, anche uno sperso mughetto, forse caduto là incidentalmente e che si è radicato fra le radici sporgenti di un olivo, è felice di esser scorto e colto da Tommaso e offerto al Signore… 27.

Il sole di un sereno mattino d'aprile empie di brillii i boschetti di rose e gelsomini del giardino di Lazzaro. E le siepi di bosso e d'alloro, il ciuffo di un'alta palma che ondeggia lieve al limite di un viale, il foltissimo lauro presso la peschiera, sembrano lavati da una mano misteriosa, tanto la copiosa rugiada notturna ne ha deterse e irrorate le foglie, che ora paiono coperte di uno smalto nuovo tanto sono lucide e nette. (EV10.Cap621.1)

31.

(…) il corpo di Maria è quale era appena spirata. Nessun segno di morte è sul suo volto, sulle piccole mani. Nessun odore sgradevole è nella stanza. Anzi aleggia in essa un profumo indefinibile che sa d'incenso, di gigli, di rose, di mughetti e di erbe montane, insieme mescolati. (EV10.Cap650.1)