Giacomo Vitale

COMITATO DELLE CIVICHE ONORANZE

PIEDIMONTE

I

GIACOMO VITALE

Tip. La Bodoniana

Piedimonte d’Alife

1964

Il “Comitato per le civiche onoranze” si propone di ricordare gli illustri di Piedimonte e del suo antico distretto, con un monumento e una pubblicazione.

Intende far ciò per dare il dovuto onore a chi lo merita per altezza d’ingegno e pubbliche benemerenze, per spronare le giovani generazioni, e per conferire un’altra nota di distinzione a Piedimonte e a tutto il Medio Volturno.

S’è cominciato col prof. Giacomo Vitale, anima santa e grande di sacerdote e maestro, uomo di fede, di carità, di sentimento. Seguiranno gli altri.

Il Vescovo di Alife, Presidente del Comitato ha affidato al prof. D. Marrocco l’incarico di scrivere sul Prof. Vitale. Il Comitato, nella seduta del 6 agosto 1963, decideva la forma delle onoranze: sistemazione della tomba, monumento, pubblicazione. Nella seduta del 18 dicembre 1963, con voti 17 su 22, si dava l’incarico del busto di bronzo al prof. Luigi Fagnani di Campobasso. Nella stessa seduta, la data della cerimonia era stabilita per il 5 aprile 1964: 17 anniversario della morte del Professore.

IL COMITATO

S. E. Mons. Vescovo, Presidente

Sindaco di Piedimonte, Con-Presidente

Caiola dr. Corrado Medico Prov. – Canzanella prof. Giulio Presidente della Banca Matese – Cappello On. Dr. Dante Deputato al Parlamento e Presidente del Consorzio di Bonifica – Caso prof. Angelantonio – Catarcio cav. D. Michele – Ciaramella mons. Prof. Don Egidio Primicerio della Cattedrale – Cinotti mons. D. Vincenzo Parroco della Cattedrale – Cobianchi prof. Franco Presidente del Consorzio forestale – D’Amore Dr. Giovan Giuseppe – De Lellis Nasti prof. Giovanna – Della Paolera Capasso Giovanna – Della Paolera Preside Michelangelo Sindaco di S. Gregorio – Di Nardo Pasquale – Farrace consigliere Dr. Alessandro – †Ferritto mons. D. Lucio – Ferritto Dr. Luigi – Ferritto Vincenzo – Gaudio Alfredo – Izzo Concettina – Leone Anna Presidente diocesana Donne Cattoliche – Matarazzo D. Lorenzo – Padovano Manzo Angelina – Pisaturo Avv. Michele – Rossini Viceprefetto Dr. Roberto – Simonetti Romeo – Vaccaro mons. D. Luigi Vicario Generale della Diocesi – Zotti Grillo prof. Rinda.

Grillo Mons. D. Espedito – Cassiere.

Marrocco Prof. Dante – Segretario.

Piedimonte, 25 dicembre 1963

Il Vescovo di Alife

Il Comitato per le civiche onoranze mi domanda con filiale cortesia un pensiero introduttivo ai “Ricordi del Prof. Vitale”, lavoro col quale ci si propone di illustrare specialmente alle giovani generazioni, la figura del sacerdote Prof. Giacomo Vitale, decoro della diocesi di Alife.

Non ho conosciuto il Prof. Vitale – ma dalle notizie ricevute qua e là dai suoi alunni – tutti impegnati oggi in alte e delicate posizioni di responsabilità – ho pensato ad una personalità dalle vaste dimensioni, ad un cuore generoso, ad una intelligenza ardita e luminosa. Del resto, la stessa iniziativa di perpetuare il ricordo del Prof. Vitale in un monumento cittadino e nella presente pubblicazione, sta a significare la validità del suo messaggio e la perenne freschezza della sua anima sacerdotale.

Nutrito di studi severi, innamorato del suo sacerdozio, dotato di altissima sensibilità, poteva aspirare ad incarichi elevati; invece la sua modestia e l’amore alla terra nativa lo tennero legato a Piedimonte d’Alife che, testimone per oltre un quarantennio della sua carità e del suo coraggio, non tardò a lasciarsi conquistare dal fascino della sua bontà.

La profonda cultura umanistica non imprigionò la sua anima in una sterile contemplazione di valori artistici, perché il forte senso della Chiesa gli imponeva una comunione di ideali e di vita. L’altare, la cattedra, il confessionale furono i centri principali di irradiazione; di lì partiva la fiamma che faceva fremere i cuori; lì avvenivano gli incontri decisivi con le anime, che poi si lanciavano coraggiosamente nell’azione apostolica o sociale, con la speranza di rifare più bello il mondo e più amabile l’uomo in una realtà sociale rispettosa di verità e di giustizia.

Quando le condizioni storiche del Paese obbligarono il Prof. Vitale ad un silenzio discreto e prudente, tutta la sua passione apostolica si riversò sull’Azione Cattolica, come il grande Pontefice Pio XI l’andava delineando, e come egli l’aveva appresa dall’anima candida di Giuseppe Toniolo. La minuscola chiesa di S. Maria delle Grazie rievoca ancora oggi i momenti più acuti delle sue ansie nella formazione di coscienze capaci di capire le attese e le esigenze del mondo moderno.

E le sue fatiche non furono vane. La Diocesi di Alife sente ancora la presenza del Prof. Vitale. Molte cose parlano di lui: - Seminario e Azione Cattolica, Ospedale e vita civile-religiosa di Piedimonte ascoltano tuttora le vibrazioni del suo grande cuore.

Possa questa commemorazione, che ha riscosso unanimi e commoventi consensi, riaccendere nel cuore di tutti – Clero e Laicato – gli alti ideali e i fermi propositi del Prof. Vitale che, amando fortiter et suaviter, senza svilire la sua nobile fierezza ebbe in gran rispetto ogni autentico valore, fu umilmente grato al benefattore, seppe fare il dono del suo sorriso anche al maldicente e all’ingrato.

† Raffaele Pellecchia

Vescovo di Alife

Ricordi del Prof Vitale

Date e ricordi

Riassumere da opere è facile, guardare in un’anima e capirla è difficile. Ci si dovrebbe immedesimare in essa. Ma, è possibile l’immedesimazione? Non si corre il rischio di trasformar quell’anima in noi, invece di specchiar noi in essa?

Invece di una fotografia non potrebbe saltar fuori una pittura, che potrebbe anche esser bella, ma non sarebbe fedele?

E allora… Ho fatto dei proponimenti: ricordare, sentire, descrivere, soprattutto far parlare il prof. Vitale. La mia non sarà un’indagine su di lui – non ne sarei all’altezza, poiché la parte non comprende il tutto – ma solo un racconto, una descrizione, un ricordo.

Il perché si sa. Lo conoscemmo ed ammirammo. Prima che scompariamo anche noi che ne serbiamo viva nel cuore la devozione, abbiamo voluto ricordarlo ai sensi e al pensiero di quelli che verranno. Ai sensi parlerà dall’espressivo monumento che l’arte di Luigi Fagnani ha saputo creare, al pensiero parlerà da questo opuscolo (poca cosa in verità). Lo rivedremo comunque, e lo vedranno i futuri, in corpo ed anima. E sarà proprio come in vita: fisicamente lo vedemmo qual era, spiritualmente ne intravedemmo solo un bagliore.

***

Agli amanti delle date dirà che Giacomo Anna Armando Mario Vitale vide la luce a San Gregorio sul Matese il 26 luglio 1883, e vi fu battezzato il 29.

Il padre, Carmelo Pasquale, era di Avellino, e a San Gregorio era a servizio del Senatore Del Giudice, poi morì in casa di salute. La madre, Maria Filomena De Lellis, maestra, era del posto. Ebbe in seguito un fratello. Eliseo, passato poi in America e mortovi, impiegato al consolato di Buenos Ayres. La madre lo lasciò quando aveva diciassette anni. Il piccolo Giacomo, dal fisico non eccezionale, era stato tirato su amorosamente da lei, e così non perdette quel sorriso che conserva chi ha avuto l’affetto materno.

Frequentò il seminario diocesano per tutti i corsi inferiori e teologici.

Il ricordo di lui nei vecchi professori, era più che lusinghiero. Compare per la prima volta in un documento, durante un’accademia, che nel giugno 1903 fu tenuta lì, in occasione del 16° centenario del martirio di S. Marcellino. Il Rettore, prof. Pennacchio, affidò a lui la recitazione di un’ode “Causa facit Martyres” del prof. Landolfi, e di un epigramma greco del prof. La Catena, con traduzione.

La caratteristica fisica del prof. Vitale, dalla mano destra invalida e sempre inguantata, ebbe origine durante gli anni del seminario da una malattia, per cui gli si dovettero amputare falangi. L’operazione, interessando i tendini delle altre dita, gli lasciò la destra inservibile, ma forse fu una minorazione che ne affinò le voglie, indirizzandolo decisamente al mondo dello spirito.

Per l’Ordinazione occorse la dispensa. La Congregazione del Concilio si rimise al vescovo Caracciolo di Torchiarolo, che “visa instantia clerici Jacobi Vitale… cum, operationis chirurgicae causa, esset impeditus in articulatione dexterae manus… dispensationem super irregularitate, ita ut ipsae sinistrae manus in benedictione hostiae super calice et in benedictione et in sumptione sacrarum specierum uti licite valeat… concedimus et impartimur”.

Così, usando la sinistra nella consacrazione e nella benedizione, il 14 aprile 1906, Don Giacomo salì all’altare.

La società si rinnovava e, ferma restando la preparazione tradizionale del clero, era anche bene che qualcuno dei giovani preti seguisse i corsi delle università statali. Don Giacomo s’iscrisse a Napoli nel 1906, e l’anno dopo passò a Pisa, attrattovi dalla presenza del prof. Toniolo, Ordinario di Economia politica.

La vita universitaria e l’affetto degli studenti migliori, fra i quali Pietro Silva lo storico, il latinista Zamboldi, il giurista Zanobini, il Codignola, dettero più spigliatezza alla sua già pronta intelligenza.

Come viveva a Pisa? Erano sacrifici, suoi e dei parenti. Il vescovo gli mandava molte messe, quasi tutte a L. 1,22, e qualcuna a L. 1,50, ed insisteva (lettera 16 dicembre 1909): “Cogli esami a che state? Quando più o meno pensate potervi ritirare?… qui veramente desidererei la vostra persona per varie ragioni”. Ma gli stenti erano superati dalla forza d’animo, rivestita di giovialità. Sentitelo: “…ieri sera intervenni ad un pranzo dato nell’hotel più aristocratico di Pisa, hotel Nettuno, per festeggiare l’Assistente dei circoli universitari, e mi ritirai ch’era mezzanotte. Se lo sapesse S. E.! (il vescovo) il quale, poveretto, m’ha scritto raccomandandomi di fuggire i libri e i giornali cattivi, e la compagnia cattiva (leggete: compagnia di secolari). Se sapesse che il Cardinale è delle mie idee! Approva il mio modo di agire, anzi vuole che io mi mescoli ai giovani per mostrar loro che Cristo non ha rinnegata la gioia della vita, ma l’ha benedetta e innalzata, e dissipare, così senza parere, tra un motto arguto e una cicalata, dissipar dico, dei pregiudizi, combattere le idee errate, far del bene mentre si ha l’aria di divertirsi, rimanere sacerdote, mentre si appare goliardo”. Tale rimase per tutta la vita. Nell’aprile 1909 fu torturato da un’artrite dolorosa. Soffrì senza cercare compatimento. “Dovrei parlare di dolori?” scriveva al dott. Ernesto de Lellis, “ma dopo me ne pentirei, come di una viltà imperdonabile”. È il Toniolo, professore – amico, a rassicurare il vescovo e il rettore Del Prete (7 giugno 1909): “… Ebbi l’onore di comunicarle l’esito veramente felicissimo degli esami di sessione straordinaria di aprile del Sac. Vitale. Egli se ne incoraggiò talmente che, mercé lo studio sempre assiduo, sorretto da una mente vigorosa e sottile, si proponeva di affrontare in luglio… gran parte degli esami rimanenti… e laurearsi in novembre, certo con grande onore. Disgraziatamente però… si pose a letto con febbre non più interrotta, e con acutissimi, sebbene vaganti, dolori artritici, che assolutamente gli rendono impossibile il minimo movimento, senza soccorso altrui… Il medico è impensierito, perché alla sofferenza non piccola e certo lunga, si aggiunge una debolezza di cuore alquanto allarmante… In tanto speriamo in Dio e nella Vergine santissima”. Fu assistito, dice il prof. Toniolo “da una santa e caritatevole signora, con grande pena e fatica, giorno e notte” e confortato dalla zia Eleonora e dal dott. Ernesto. Lo guarì, dopo l’ospedale, la cura a Monsummano, nelle grotte infocate.

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Nel ‘910 tornò a Piedimonte. Da mansionario di Santa Maria Maggiore (1905), fu promosso canonico dell’Annunziata (1910). La chiesa è unita al seminario dove insegnava e dimorava, e vi rimase tutta la vita. Come aveva rinunziato ad insegnare a Montecassino, rinunziò a dignità più elevate in diocesi. Al vescovo Noviello che insisteva in tal senso, rispose: “Non è il posto che fa l’uomo, è l’uomo che illustra il posto”.

Fu questo l’ambiente in cui visse il sacerdote e l’insegnante, ed appare contenuto. Quello sconfinato era nella sua camera, in seminario, dove da un letto in un angolo, in mezzo ad un disordine pittoresco, contemplava attraverso centinaia di volumi per nottate intere con una visiera sugli occhi, quanto il genio ha creato, soffermandosi con più simpatia sui prodotti letterari d’Italia. Ad una vita, in fondo, sempre uguale, unica parentesi il viaggio annuale alle Settimane sociali in varie città. Volle anche volare, da Ancona a Zara, e ritorno.

Il Fascismo gli aveva precluso l’attività politica, e scaricò la sua energia nell’arte. Vendette un suo terreno a S. Gregorio. Col ricavato, e con devoti contributi, incaricò Nicola Fabbricatore di un dipinto nella cappellina delle Grazie, fra gli ulivi del Cila. E l’artista gli consegnò una sua delicatissima copia della Madonna del Magnificat del Botticelli, (con poche varianti), e ai lati un S. Francesco e una S. Caterina, in cornici di oro brunito, in un ambientino d’un celeste soffuso e digradante, tra una fioritura di gigli.

Nella tempesta del ’31 egli, sorvegliato dell’OVRA, stette in disparte, poi venne l’Istituto “S. Tommaso” e con esso apparve meglio al sua velentia. Fu preside dal ’40 alla morte, e lì lo trovò la seconda guerra. Questa da molti era vista come “fascista”, e Vitale, patriota come nel ’15, apparve – e con nostra meraviglia – sostenitore della resistenza e del Governo. “Non si cambia cavallo in mezzo al guado” disse.

Il 25 luglio chiarì le cose. Nel terribile ottobre del ’43 il seminario fu invaso da persone atterrite, e fu ad un momento, il 17, dall’essere minato. Vitale era lì a confortarle.

In quel tragico mese, come nel ’21 al Mercato, non aveva avuto paura d’intervenire in un comizio socialista, così il 19, a Porta Vallata, senza pensare alle conseguenze, gridò disgustato: “Rispettate i cadaveri!” di fronte ad una scena orribile: alle sevizie da parte di qualche furioso, su alcuni morti tedeschi.

Ed eccoci all’ultimo Vitale, quello del raggio al tramonto, e del crepuscolo dei sensi. Nel ’46 si manifestò la malattia che doveva portarlo, sessantaquattrenne, alla tomba: papilloma vescicale. Era cosciente della gravità del male, e quando il vescovo Noviello lo condusse a Napoli, era ormai tardi. Rifiutò l’operazione che ne avrebbe prolungato alquanto l’esistenza, e la morte fu più dolorosa. “Sopportò la malattia con una rassegnazione da destare ammirazione”, hanno detto i suoi intimi, Dr. D’amore, P. Di Nardo, R. Simonetti, che lo curarono e assisterono con affetto. Durò quasi un anno. Poi le continue emorragie lo spensero, munito dei Sacramenti della Fede, togliendolo finalmente alle sofferenze, il 5 aprile 1947.

Un accompagnamento funebre interminabile, spettacolare, testimoniò la devozione che se ne aveva.

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Non era mia intenzione inzeppare di date i ricordi del Prof. Vitale. Sarebbe stato ridicolo, in quanto la sua vita è stata dinamica interiormente, ma esternamente quasi statica. Sarebbero date di bazzecole. E poi, non c’è forse una storia senza date? I pochi avvenimenti della quale sono luci rivelatrici di una mentalità e di una coscienza?

Guardiamo al carattere, alla coscienza del Professore. Nessuno meglio, e più gustosamente di lui ce lo comunicherà, poiché aveva una formidabile capacità introspettiva di sdoppiamento, e di analisi della propria personalità.

In una lettera (luglio 1909), a proposito di mancati auguri suoi per un compleanno, ecco come parla del «sé» intimo in terza persona: “…bisogna ricordare che è strano molto strano, ha una maniera tutta sua di pensare e di operare, per dirla in breve, è un vero anarchico del senso comune e delle convenienze sociali! …anche lui, sebbene viva sempre nel mondo della luna… era venuto a sapere che sulla terra si usava festeggiare i compleanni… (Ora parla il «sé» superficiale, esteriore, quello delle convenienze). Ho fatto l’impossibile per convincerlo, se non altro della sconvenienza del suo modo di procedere: inutile dire a voi che non sono riuscito, perché la sua testardaggine è nota… ho tentato tutti i mezzi, ho tentato anche la famosa mozione degli affetti… e lui, sensibile a questa corda, si è scosso, ha dato vibrazioni, ma poi è ritornato di nuovo nell’immobilità capotica dei suoi principi pazzi ed irritanti… Perché, mi diceva, perché si dovrebbe festeggiare il compleanno? L’onomastico lo capisco, perché l’imposizione del nome è l’affermazione della spiritualità e dell’individualità dell’uomo… L’onomastico è la festa della nascita dello spirito, è il compleanno dell’anima”.

È un brano stupendo, dal quale in una veste faceta, l’indagine di sé stesso sbocca nella visione cristiana della vita. Stupendo anche quel che segue: la manifestazione della personalità non compresa, procura da parte dei mediocri affrettate definizioni e giudizi. Ebbene, egli vi indulge – hanno i loro diritti anch’essi, – e riesce a vedere sé stesso nell’esame degli altri: “Torno a ripetervelo: il mio amico in fondo, forse molto in fondo, è un buon ragazzo, ma strano, testardo, con un’idea pazza per capello. Per questo sua zia Eleonora, donna pratica e navigata, quando venne a Pisa, in confidenza domandò giustamente alla sora Teresa: «Come ha fatto a sopportarlo durante l’anno?» e la sora Teresa… fece mostra di cadere dalle nuvole, e chiese alla sua volta: «- Oh perché mi dice questo?» «Perché?» ripigliò la zia naturalmente stupita, «con quel carattere così strambo, così scontroso, così intrattabile…»”.

La lettera è un capolavoro. Nell’intimo e nei rapporti egli si vedeva così… E prevedeva che il suo intimo, prevalendo con l’età sulla vernice, sulla patina, lo avrebbe ridotto ad appartarsi sempre più dal mondo delle convenienze: “…lui no, non è uomo da stare in società, non sa mantenersi le simpatie e gli affetti che pure ispira a tante anime indulgenti, ispira a causa dei suoi dolori immensi ed innumerevoli, quasi come le sue stranezze… voi lo vedrete a poco a poco ridursi a viver solo, più che non viva ora da misantropo, senza amici, senza parenti, abbandonato da tutti pel suo carattere impossibile…”. Basta. Profezia sbagliata. Il mondo non è interamente meschino da tener lontana, da isolare l’anima superiore. San Giovanni Battista e Savonarola, gli austeri che avevano rotto ogni rapporto col mondo, ebbero seguaci e ammiratori a non finire! Gli alunni e gli amici del Prof. Vitale, anche quando non afferrarono il movente delle sue azioni, capivano almeno questo: che aveva delle ragioni che essi non comprendevano, e perciò non lo lasciarono. Né poi la sua coscienza profonda mai interamente sommerse la mostra faceta, che tanto attraeva.

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Il maestro di spirito

Entriamo in un’indagine ancor più difficile. Come assolveva il prof. Vitale la sua funzione di sacerdote? Come entrava nelle coscienze? Come medicava le malattie dell’anima? Come risolveva quesiti di estrema delicatezza?… Ma il segreto confessionale circonda di un velo impenetrabile questo lato importantissimo del sacerdote-maestro, e solo la manifestazione esterna è giunta a noi.

Confessava conversando. Proprio come quando in classe ampliava l’idea dell’alunno, così in confessionale la colpa veniva analizzata da lui nella causa e nelle conseguenze, nelle concause sociali, nelle occasioni ambientali, perfino nell’anàmnesi. Perciò riduceva, senza sottovalutarla, l’azione responsabile del penitente, e la riconosceva nell’esatto valore di azione mezza incosciente, di ribellione capricciosa o, peggio, di abulia, e la sistemava con indulgenza nel gran quadro della debolezza, della limitatezza umana. Il referto costante alla mia indagine e stato questo: non un elenco di colpe cui seguisse il “Badate, evitate le occasioni, pensate alle conseguenze”, ma ad ogni accusa, sia pur di una parola, un ragionamento, un ordine di convinzione, sia logico che emotivo.

Maestro dunque di convinzione anche nel sacramento penitenziale. La via ascetica preferita si compendiava nell’amor di Dio più che nel timor di Dio. Non punizione ma redenzione. S. Paolo, S. Francesco e Don Bosco i suoi maestri di spirito. E il suo magistero intimo – infondere coscienza della colpa senza abbattere né crogiolare, ma sforzando alla redenzione – variava secondo l’età, il sesso, la condizione intellettuale e sociale, e non si esauriva nel confessionale.

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Qualcosa è documentato da lettere e discorsi.

Una signorina gli riferiva d’essere stata chiamata “di altri tempi”. “Ebbene” le scrive, “questo è il tuo pregio e il tuo vanto… Ci sono qualità moderne che è gloria non averle, e ci sono delle qualità antiche che o sono un dono di madre natura, o sono un desiderio vano e insoddisfatto… Tu sii moderna, sempre più e sempre meglio, in tutto ciò che giova essere moderni, nella cultura non limitata ai lavori donneschi, nella visione di orizzonti più vasti e più vari, nell’attività benefica e sociale e patriottica e religiosa…”. Una visione ampia, positiva, incoraggiante.

Pure ad una persona che, dopo il sogno del fidanzamento e l’euforia delle nozze, gli ha scritto di un certo disagio, egli risponde: “Tu cominciavi a sognar troppo… Tu andavi scrivendo e ripetendo da bimba ingenua ed illusa «Siamo felici». Ora nessuno può dire: Io sono felice. Sposando l’uomo che fa per te, tu puoi dire solo che hai un compagno che, invece di accrescere – come spesso accade – ti aiuti a superare gl’inevitabili ostacoli, t’aiuti a salire il tuo Calvario… Il primo Calvario l’hai sperimentato subito: la differenza di idee. È insopprimibile… Non illuderti dunque. Il matrimonio – sia pure solo per questo – non ti darà la felicità: t’aiuterà semplicemente a compiere meglio la tua missione. Ti darà delle gioie, non la gioia. La vita non è piacere, è missione… La dote che hai è grande, è la dote dell’anima… Egli ti ama per questo”.

Temporaneamente di può soccombere ad uno sforzo superiore. E per un animo delicato, un momentaneo rovescio può essere triste e rovinoso.Don Giacomo sapeva infondere il coraggio necessario: “…le tue battaglie, le tue delusioni, le tue sofferenze – lo sai – io le sapevo, le seguivo giorno per giorno. Ho più fede in te di quel che tu possa avere in quest’ora buia, ma ho anche più esperienza di te… Vi sono sconfitte più belle delle vittorie. E più utili. Oso dire una verità che può sembrarti una mezza eresia: ti gioverà più questo dolore che la riuscita. La riuscita ti avrebbe adagiata nella faciloneria, nella tendenza all’irriflessione, nel carpe diem, queste tre brutte illusioni che t’hanno causato l’attuale delusione…”.

Ormai dinanzi alla morte, così scriveva ad una bambina, il 10 marzo 1947. Ammiratene la condiscendenza, lo sprone benevolo, e il presagio insistente della sua fine imminente: “Cara, ti ringrazio del pensiero che hai avuto per me, vedo che sei già una donnina, e una mezza letterata. Continua per codesta via, e fai presto, e corri, se vuoi che io faccia in tempo a consolarmi dei tuoi progressi, a gustare, intenerito e commosso, la tua prima novellina, i tuoi primi sogni fissati sulla carta. A darti qualche consiglio, a dirti: Qui correggi, lì sei brava… Fai in modo che il tuo sviluppo intellettuale vada di pari passo con lo sviluppo della bontà. D’ora in poi voglio sentire da te contemporaneamente due cose: che progredisci nello studio, e che progredisci nella bontà. Lo studio è un certo arnese che ti servirà a brillare nella vita e a capirla: la bontà è un arnese più utile, perché servirà a rendere felice te e i tuoi, specialmente la mamma e il babbo che ti sono più accosto, e di cui potrai essere il sorriso… e fai presto, perché non ho tempo di aspettarti”. Questo all’innocenza.

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Giacomo Vitale sacerdote di Cristo, esplicò il suo magistero nell’Azione cattolica. In che consisteva per lui la religiosità? “La fisionomia della Chiesa di Cristo è vita, e vita sociale”. E, sotto questa luce, ci dice il parroco Grillo nel suo discorso funebre, organizzò in Piedimonte e diocesi l’Azione cattolica, “sotto questa luce inquadrava la predicazione domenicale, il mese di Maggio, il novenario di San Francesco, le confessioni di turno”.

Il concetto di Azione cattolica, “cooperazione dei laici all’apostolato del clero” può offrire adito a interpretazioni inesatte, se non è inteso con fedeltà e precisione. E la lungimiranza del Vitale in questo campo, si ricava, da alcuni suoi articoli del 1940, firmati “Un parroco di campagna”. Non bastava a lui vedere l’organizzazione dei laici in Piedimonte e diocesi “balda, compatta, battagliera, piena di slanci e d’iniziative…”, egli correva subito a riempire le lacune del sistema organizzativo e formativo. L’eventualità di un tesseramento vistoso ma superficiale, non lo attraeva. Notava la mancanza del vivaio (Aspiranti), come di una tecnica di preparazione personale e di propaganda. Voleva una formazione in profondità, lenta, costante, intelligente.

Come salutò con simpatia la missione paolina del ’38 a Piedimonte! Al veder borghesi parlare di Dio, al veder 2000 uomini comunicarsi la notte del 27 febbraio, e subito dopo recarsi in massa presso il monumento ai Caduti, armonizzando, egli dice “i due sentimenti fondamentali dello spirito umano”, provò una palese soddisfazione, quanta ne provava del resto, per i Ritiri di perseveranza degli operai, e le conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli, “scuola mirabile di pietà attiva” era la legge della sua fede.

L’Università cattolica era da lui definita “la grande missionaria d’Italia”. E si spiega il fascino che esercitava su di lui, intellettuale, la scuola superiore della classe dirigente cattolica.

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Le feste religiose (!) di Piedimonte egli le vedeva sotto un aspetto caricaturale, ma non privo di amarezza. Che poteva dire per lui la processione di un Patrono che fu torturato e decapitato, se non corteo di protesta contro i tiranni di tutti i tempi? E invece era ridotta ad una questua, a sparatorie senza significato, a inchini fra statue…

Di qui la sua scuola di religiosità alla Madonna delle Grazie, appartata, e inevitabilmente contenuta almeno in un gruppo più scelto.

La devozione a S. Francesco s’era più sviluppata in lui, ci dice mons. Vaccaro, dopo la conoscenza personale del Padre Gemelli. (Quando questi seppe che egli veniva da Piedimonte, gli chiese subito: Come sta Don Vitale?). Il santo di Assisi aveva rinnovato il Cristianesimo medioevale, eliminando distanze e paure, vedendo Dio nella natura e nell’umanità. Qui stava la santità nuova di lui, e qui l’affetto del Vitale.

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Altro aspetto, e assai caratteristico, del suo magistero spirituale, erano le visite che faceva nelle case, alla buona, e nelle quali fra una battuta di spirito e una tipica espressione dialettale del genuino vernacolo di San Gregorio, si adattava a tutte le mentalità, ed aveva per tutti una parola che restasse salda nel ricordo. Avvicinava tutti, trattava con affabilità e spigliatezza il credente e l’incredulo, e tutti gli rendevano atto di questa sua mentalità aperta e superiore.

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Manifestazione inconfondibile di lui era la predicazione. Non gli abbiamo mai sentito recitare panegirici, quasi mai discorsi ufficiali. Teneva conferenze, commemorazioni poche, meditazioni molte. Inutile dire che non aveva il corredo di prediche scritte. Se l’argomento lo attraeva, si preparava così: su e giù per il corridoio del Seminario, solo, pensava (e talvolta non si accorgeva di qualche gesto). Sul pulpito o sull’altare si fermava dei minuti, ordinava le idee, e parlava. Coerente all’argomento dalla prima all’ultima parola, parlava in un flusso continuo di idee, quasi a scatti nella manifestazione, con soste improvvise per fermare il pensiero, e generare la riflessione. La sua predica, il suo giudizio, (come per la lezione in classe) non erano un’informazione. Egli voleva che si entrasse nel suo ordine di idee, o ne risentiva. E diceva che i suoi discorsi non erano comprensibili staccati, ma come parte di un tutto. Gli argomenti erano logicamente della sua levatura. Ai corsi annui di Esercizi spirituali svolgeva concetti come questi: “Il più grande problema della vita è quello di non essere quel che si dovrebbe”.

Ammiriamo lo sprone ai novelli sposi – ed erano i suoi parenti De Lellis Di Nardo – quanto sia ampio, quando li ammonisce a non vedere solo nella famiglia propria tutto il mondo cui si appartiene: “…la società non deve perderti sol perché sei entrato a costituire una società domestica. La nuova famiglia deve segnare una tappa nell’espansione intera e completa delle tue energie di uomo e di cittadino; è un moto progressivo, e non un arresto, un centro di espansione e non di assorbimento; è un punto di raccoglimento e non di esaurimento…”. E più oltre è un vero volo platonico: “Il piacere passa, stanca, esaurisce e si esaurisce, genera noia… Troppo piccola cosa il piacere per un’anima che porta come ricordo dell’infinito da cui deriva, qualche cosa d’infinito nelle sue aspirazioni”. Ma non si esauriva nel sogno: “…L’amore è dolore, l’amore è sacrificio, perché l’amore è dono; dono della propria persona, dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie abitudini, dono della propria pace, della propria felicità, per la pace e la felicità d’un altro. Almeno l’amore cristiano è questo. Ho detto l’amore cristiano: ora aggiungo, l’amore vero, l’amore eterno”.

Leggendo ci commoviamo… ma, bisognava sentirlo!

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Cosicché tutti insieme, – magistero intimo del confessionale, e quello palese della parola e dello scritto – aspetti laterali d’un unico edificio, ci danno, oggi, a tanti anni dalla morte, la visione lontana e nostalgica di una grande anima, di uno spirito che intuimmo superiore, ma che forse allora ci sfuggì nella sua purezza, nella sua profondità, e del quale avevamo ricordato finora la barzelletta o il rimprovero, o la creduta debolezza, o la esigenza a mantenere la parola e l’impegno, ma che oggi, investigando e meditando, e risalendo da una realtà poco pulita all’ideale, vediamo più alto e distante.

Non è la progressiva affezione al soggetto trattato, che spinge me ad una ricostruzione idealizzata. La mia convinzione è anche la persuasione di quanti lo stimarono a distanza, e di quanti lo amarono da vicino.

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Come pensava e come insegnava

Fermiamoci anzitutto sulla manifestazione evidente della cultura del prof. Vitale: l’insegnamento. Da essa, per essa, potremo risalire consideratamente alle idee animatrici.

Quel suo metodo didattico, così tipico e così efficace, (il prof. Di Muccio lo ricordò nell’elegia alla sua morte):

Qui Dantis linguam docuit perquam arte stupenda…

era logicamente espressione d’un temperamento, ma il contenuto, l’idea era prodotto della convinzione dottrinale. Risalendo dunque dagli effetti alle cause, saremo sicuri di fare induzioni, non congetture.

Come insegnava? Egli non si preparava una certa lezione da enunziare, spiegare, riassumere, e poi richiedere. L’acutezza dell’ingegno e la cultura vasta lo ponevano in condizione di attuare alla perfezione il metodo attivo della pedagogia d’oggi, con lezioni occasionali. Ad una domanda replicava con una lezione improvvisata, spontanea, svolta non nelle sue minuzie, ma solo in alcune idee sostanziose, che voleva restassero impresse. Dall’idea dominante divagava per poco verso altre, tanto per cercarvi maggiori prove, per fare intravedere altri motivi di sostegno e validità, e poi tornava insistentemente all’argomento e, di convincente autorità, lo chiudeva.

Semplificava il pensiero e la locuzione difficile, e li rendeva col gesto rapido, quasi a scatti, senza mai dimenticare quella verve simpatica e convincente, e che era pure il tocco di grazia, per cui nasceva in noi la simpatia per li, accanto ad una illimitata stima.

Da noi esigeva molta lettura, la riflessione giornaliera del diario, la scelta del colorito e del rilievo, e cioè della proprietà e del valore della parola, non pretendeva ripetizioni o memorie, né temi svolti come prediche.

S’immedesimava nella spiegazione, nella lettura, e ci richiedeva di parteciparvi. Eliminata ogni pesantezza, creava così nell’ora d’Italiano un’ora di sogno, sogno per noi, ma che per lui era solo il trionfo di ciò che è spirituale e superiore, comunicato con arte. Ma allora, guai a interromperlo!

Credevamo che rimproverasse perché nervoso, dopo s’è capito che era per disgusto, per orrore di quella contaminazione che una distrazione, un’inframettenza grossolana portava nell’alta regione cui ci aveva levati, sporcandola.

Dava quando sapeva, senza misura alcuna, con la sola restrizione di dover ridurre, perché parlava a ragazzi. Dava molto ed esigeva poco. Convinto com’era di quanto diceva, era sicuro di averci comunicato la sua convinzione. E perciò a lui il dettaglio sfuggiva, e a noi non lo chiedeva. Gli bastava che avessimo corrisposto nell’essenziale. Voleva comunicarci una passione, ecco, più che un certo numero di idee.

Logicamente una spiegazione, una definizione, non era mai la stessa. Egli non la sapeva a memoria. E c’era sempre del nuovo in quanto diceva. La sua paura era di cristallizzarsi e perciò leggeva tanto, e si aggiornava, e poi rifletteva e trovava da sé, e voleva, in piccolo, lo stesso spirito d’indagine e di riflessione in noi. Né la limitatezza mentale di un alunno si sarebbe trovata a suo agio con lui. Bisognava capirlo. Capirlo nella mentalità elevata, aperta. Solo così si afferrava il senso vero di certe sue espressioni, e certe preferenze, certe commozioni.

***

L’uomo che insegnava così, manifestava oltre che mentalità e tendenze, anche la consuetudine di studi e il patrimonio culturale.

Ecco le sue idee basilari:

    1. Cristianesimo teologico paolino.
    2. Francescanesimo.
    3. Sociologia cristiana.
    4. Teorie estetiche crociane.

Da ragazzi ci sfuggiva logicamente la genesi di ciò in lui. L’abbiamo capito quando, nel Vangelo e nelle lettere di San Polo, come nelle encicliche di Papa Leone XIII, e sulle opere estetiche e storiografiche di Benedetto Croce, le abbiamo ritrovate.

Pur rinnegando alcuna elaborazione posteriore, certo il Vangelo e S. Paolo erano il pane che consumava e che offriva. Insisteva tanto vivamente sul “corpo mistico” oltre che nell’aspetto soprannaturale, anche in quello sociale. S. Francesco, tipo dell’attuazione estetico – morale del Vangelo, rappresentava per lui quello a cui potesse tendere l’anima naturalmente cristiana. Ma ne ho parlato avanti, e non mi prolungo. Torniamo ai suoi studi.

Se nell’insegnamento egli trascurava il preciso e trito dato storico, pur di metter noi soltanto nello stato di contemplazione estetica, è evidente, e lo diceva, che non preferiva la critica storica tedesca, ma senz’altro quella estetica che, preparata dal Vico, attraverso De Sanctis arriva a Croce.

In questa scia troviamo Vitale. Metter da parte ogni giudizio sulla forma pura, l’anatomia delle parti, ammirare la bellezza del complesso vivo, ecco quanto raccomandava, e cioè quanto sentiva. Ho già detto che rinnovava, mai ripeteva. E anche questo corroborava col Croce, dato che anche per lui l’arte era momento irripetibile di vita.

Se certamente correggeva l’errore sintattico, non esauriva l’insegnamento nella “bella forma”. Era nemico della rettorica. Niente enfasi o studiato abbellimento, ma idea sentita, proprio attraverso la naturalezza dell’espressione.

La stessa idea crociana (e veramente hegeliana) della storia lo sorreggeva nell’interpretare e giudicare i fatti. Spesso citava la Storia d’Europa del pensatore abruzzese.

Anche per lui la storia era progresso dell’idea di libertà attraverso trionfi e sconfitte, superando le dittature, momenti necessari che rendono irresistibile la nostalgia della democrazia.

E il suo cuore che batteva tanto palesemente per l’ideale democratico, l’aveva spinto, come si vedrà, anche alla concreta azione politica, ma non con vieto spirito di clientela, non per l’arrembaggio di grasse mangiatoie, no, unicamente per moralizzare la politica. E perciò, di fronte a situazioni corrotte, tuonava con violenza estrema, mortificando anche, e giustamente.

Punto ancor più delicato a valutarsi è la sua posizione filosofica. Non era proprio uno Scolastico. Siamo lì. La sua indole dinamica, sentimentale, attuale, avversa al sillogismo, lo faceva propendere piuttosto per S. Agostino, per una filosofia nelle cui attuazioni poneva la convinzione. Pragmatismo? Certo, era un ammiratore di Papini, ma non è il caso di lavorare di fantasia su quanto non sappiamo. La filosofia non era comunque il punto focale del suo ingegno emotivo (è sintomatico all’Università il “20” in Filosofia teoretica, di fronte al “30 e lode” in Italiano.

E come si spiega l’influenza delle idee del Croce? Si era incontrato con esse, e vi aveva aderito, perché non subiva niente, e non giurava su nessuno. Si spiega in due modi: psicologicamente era predisposto a farle sue.

Storicamente non dimentichiamo che negli anni della sua seconda formazione, 1905-15, predominava l’idealismo e la storiografia pura della libertà, e il pensiero storico, respingendone l’antitrascendenza. Moderno nel fatto, ma ancorato ai principi trascendenti del Vangelo. È che certe idee si unificano in una sintesi superiore solo nelle persone d’ingegno.

***

Prodotto dell’incrocio fu la tesi di laurea (che meritò un “110 e lode”).

Tratta di “Lo spirito filosofico nei canti d’amore dei poeti del Dolce Stil Novo”, e fu discussa nel Giugno 1910. È stato un godimento leggerla, e ne ringrazio il gentile Rettore Magnifico di Pisa, anche per il frutto che ne ho ricavato. È fra storica e personale. Si vede anzitutto il lettore di gran respiro dalla bibliografia immensa, si nota il continuo riferimento teologico, si avverte – ed è il costante, eterno Vitale, – l’accantonamento del simbolismo poetico, aspetto deteriore della “bella scuola”. Nel primo dei quattro capitoli appare il suo compiacimento innanzi alla moralità dell’amore. Nel 2° è trattato il tentennamento di quei poeti, evitato solo da Dante, fra vita attiva e contemplativa, e appaiono quelle sue definizioni che tanto lo distinguevano: “non sono le teorie che plasmano l’uomo, ma l’uomo che plasma le teorie”, e altrove “è l’uomo che elegge fra i molti, il sistema conforme alla propria mentalità e alle proprie esigenze”. Nel 3°, più storico, espone “il gravame del medioevalismo filosofico sulla poesia, e nel 4° c’è l’indagine del polisenso in poesia, finché si chiede (non senza un certo dramma); come dall’interpretazione allegorica “che vegeta sotto il freddo sole degli Scolastici… venne la lussureggiante vegetazione poetica?”. La tesi ha il merito, fra l’altro, di mostrare come una preparazione teologica possa introdurre in modo sistematico e comprensivo alla domanda se l’allegoria, il simbolo, sia separabile dall’intuizione poetica, se in arte può esistere un doppio fondo, risponde crocianamente. E, salvando solo Dante, ridimensiona il Dolce Stil Novo, riconoscendogli in poesia un valore espressivo, ma ben diverso dal monismo poetico moderno.

Sarebbe inconcepibile il prof. Vitale, se non si accennasse alle sue vedute cristiano-sociali. Furono sempre ortodosse, anche se di avanguardia. Le abbiamo ritrovate limpide, in quel miracolo di rinnovamento che è la dottrina emanante da Leone XIII. La Chiesa, nelle sue posizioni di adattamento alla società si assunse il grande compito dottrinale, spianando la via ai successori. Ci interessa ora il campo sociale, per riconoscere dal pensiero leoniano, le direttive dell’Opera dei Congressi, le idee del Toniolo, e quindi del prof. Vitale.

La Rerum novarum (1891) stabiliva le direttive della convivenza cristiana, incoraggiando le associazioni operaie, l’intervento dello Stato per proteggere la dignità del lavoro e additava nella soluzione della questione sociale, non la sola economia, ma la morale e la religione. La “Nuntiasti Nobis” (1884), e la lettera “Dall’alto” (1890) incoraggiavano l’apostolato dei laici e l’Azione cattolica; la “Graves de communi” (1901) raccomandava al clero di andare verso il popolo, e stabiliva la natura e i veri fini della Democrazia cristiana; la “Sapientiae Christianae” (Gen. 1900) additava ai laici le vie dell’apostolato. In questo programma è ritratto Vitale.

Con Pio X, l’applicazione portò inevitabilmente a contrasti. Il Saugnier nel suo “Sillon” s’era spinto ad una forma eccessiva di democrazia, e i Papa condannava il Sillonismo; il Modernismo, per troppo adattare il “Credo” al progresso moderno, stava portando la fede all’agnosticismo kantiano, e fu condannato con la “Pascendi” (1907), e la “Lamentabili” (1908); anche l’Opera dei Congressi stava deviando con Murri ecc., e anche qui l’intervento deciso del Papa, e lo scioglimento.

Lavoreremo ora di fantasia? No. Vitale, ben diretto dal suo piissimo maestro, seppe mantenersi lontano dagli eccessi, e permanere sinceramente nell’ovile da dove altri uscivano, senza per questo rinunziare alla battaglia. L’origine delle sue idee sociali è manifestamente nell’autorità della Chiesa. Il Toniolo gli scriveva (lett. 24 sett. 1911): “…negli stessi indirizzi e principi sociali, la verità e le sue benefiche conseguenze pratiche si trovano sul cammino diritto che ci viene dalla Chiesa e dal Pontefice…”. Accusato di Modernismo, quello sociologico, fu difeso e scagionato dal vescovo Caracciolo, e giustamente dunque.

***

Poesia e sentimento

Il sacerdote austero, lo studioso solitario aveva un cuore. Un cuore palpitante verso ciò che è grazioso e deliziosamente umano.

Di fronte alle piccole anime sorrideva intenerito, e s’immedesimava nei loro concettucci, negli infantili desideri. Effetto della capacità di spersonalizzazione propria dei cuori emotivi e disinteressati, più che delle menti astratte; cose poi assolutamente impossibili per i disonesti e i corrotti.

La poesia è sentimento e fantasia, e non necessario far versi per sentirla. Don Giacomo aveva un animo come l’hanno un po’ tutti quelli dei monti, quelli non raffinati dalla città e dalla società, un animo semplice, anzi, vergine. Sarà l’ambiente dagli scenari sconfinati e solitari, sarà la vita modesta di villaggio che li predispone a ciò.

Dinanzi al bello artistico, quello creato dall’uomo, non sentiva la commozione che provava di fronte al bello naturale. Parlando dei monumenti di Pisa, scriveva (4 Dicembre 1908): “La fantasia mi suscita nella mente un fantasma così smagliante, così sublime delle cose che poi, quando mi trovi dinanzi alla realtà, non posso non provare lo schianto della delusione”. E cosa ammira?: “…Il tramonto, per esempio. Il tramonto contemplato dal Lungarno è sempre bello ed è sempre nuovo: ma in certe sere ha tali riflessi cangianti di luce, ha tali bagliori ch’è uno spettacolo divino. E mi piace pure una specie d’istinto meraviglioso che si sente in mezzo al popolo”. Dunque è il bello naturale a generargli sentimento estetico. Quando la visione è diversa, egli respinge la grandiosità per sé stessa, fastidiosa, non attraente. A Roma (12 Novembre 1908): “…la basilica di S. Paolo mi irritò addirittura: io non credo che si potesse innalzare un tempio più pagano, più profano al più grande degli Apostoli!”.

***

Inutile dire che il suo animo sensibile aveva uno spiccato gusto musicale. Preferiva, fra i tanti, senz’altro i Romantici, e fra essi Mendelssohn, con le sue “Romanze senza parole”. Per la musica sacra, pur essendo un conoscitore e un amatore del Gregoriano, dava la preferenza ai canti semplici, melodici, facilmente orecchiabili, poiché suo scopo era di far partecipare tutti, far capire, far sentire la bellezza della liturgia. Ora, un motivo semplice s’imprime facilmente nell’orecchio e nel cuore dei fedeli, e con essi il ricordo della funzione cui qual canto è legato.

Dunque anche nell’armonia entrambi i valori: estasi intima e missione elevatrice del gusto.

***

Si veda quanto mette nella parola e nell’anima dei fanciulli per far loro intravedere al di là della poetica tradizione del presepe, il valore elevante della parola di Dio, divenuta uomo:

…Lo so, preferisci il freddo agli spini

che sono nel cuor dei cattivi bambini!

Per questo gli spini, vò toglierli tutti,

gettarli lontano: son tristi e son brutti,

vò fare il mio cuore più bello e più buono;

del male che ho fatto ti chieggo perdono.

In questo mio sforzo aiutami tu…

Si noti l’ultimo verso: il primo tentativo a far comprendere l’azione della Grazia soprannaturale, che viene dopo il nostro sforzo.

La stessa idea domina nel “Dialogo dei pastori”: mettere nell’animo infantile l’idea costante della religiosità che non si paralizza nella forma, ma si attua già in uno stato d’intenzione pura, che supera, nel suo valore di dedizione, ogni atto apprezzato dall’uomo comune.

Notate ora, nella composizione che segue, il valore d’interpretazione di quel che può un esserino nella culla sull’animo adulto, rapito. Si gustino i paragoni che sfuggono all’uomo banale: qual che l’infante compie nell’azione irriflessiva, supera, negli effetti emotivi che comunica, quanto può produrre l’adulto in stato di grazia.

Alla bambina Lilia de Lellis, di mesi tre.

Mentre il sonno lieve e dolce le mie palpebre premeva,

Lilia è apparsa questa notte, m’ha sorriso, e mi diceva:

Mi diceva civettuola: “Sai? Ci ho gente a casa mia,

son regina della festa, sono l’angelo, il messia,

son la gioia, sono tutto!… Ma son pur tanto piccina,

ed ancora balbettare io non so una parolina.

So sorrider, so imbronciarmi, so far tante smorfiette,

ma dell’arte di parlare, non ho appreso ancora un ette.

Dillo tu ai buoni zii, quel che dire or non saprei,

dille tu le tante cose belle e care ch’io vorrei,

siamo intesi?”. Così ha detto, ha sorriso, ed è sparita,

qual celeste visione è comparsa ed è svanita.

Oh, mia Lilia! Io no, non posso accettare il caro invito!

altro verso ci vorrebbe, assai terso e più forbito.

No, mia Lilia, parlerai melodie di Paradiso

tu, coi vezzi, colle grazie sante e ingenue del tuo viso.

Parlerai con le moine, parlerai con l’occhio anelo,

che divaga, che si fissa, che ricerca terra e cielo.

L’affannoso lavorio del tuo labbro in movimento

è il poema più grandioso, più potente del momento.

Il silenzio tuo è loquace più del verso mio migliore,

il tuo grido è più efficace che un bel canto del mio cuore,

il tuo riso… d’espressioni dolci e care è si fecondo!

Il tuo riso vale un canto, il tuo riso vale un mondo!

Lilia, io taccio. Fissi tutti, tutti attenti al tuo bel volto,

parla tu col tuo sorriso: io cogli altri taccio e ascolto.

(11 ottobre 1908)

Innanzi ai subitanei scoramenti, agli abbattimenti di chi comincia ad avvertire in sé lo sboccio di una nuova vita, egli senza figli e senza famiglia, avvertì quei sentimenti di tenerezza e di conforto, velati di compressa commozione, che ogni uomo – parlo di quelli migliori – sente innanzi alla propria sposa. Non occorrono parole di commento. Son versi semplici, ad una sua nipote, e saranno apprezzati da quelli che hanno un cuore.

Non ripeterla più la sconsolata

parola: “Son finita!”.

Ho il corpo affranto e l’anima ammalata:

sento fuggir la vita.

Non dirla più! Le angoscie senza nome

che ti danno sgomento

velocemente vaniranno, come

nere nuvole al vento.

Una manina tremula e gentile

verrà a sfiorarti il viso,

una vocina tenue e sottile

“Mamma”, dirà “un sorriso!”.

E tu sorriderai. Ritornerai

romantica fanciulla,

i sogni, si sogni tuoi ricanterai

sovra una bianca culla.

E la lacrima, o cara, che dal ciglio

ora ti sgorga mesta,

ti cadrà, ma per gioia, di tuo figlio

sovra la bionda testa.

A che disperi? A che tanto terrore?

Perché? Perché quel pianto?

Sarai madre! Solleva in alto il cuore!

Schiudi l’anima al canto!

Chiudo con un breve frammento: il programma della sua vita in versi.

Nella lettera del 12 novembre 1908 già l’aveva esposto questo programma, ed io lo propongo come lapide alla sua tomba: “…l’ideale della mia vita: dolorare e sacrificarmi, pensare e agire”. Inizia altero, così sembra ma si espande subito nella tenerezza, nella carità cristiana. Né questa appare qui accettata come dovere (è tale nella gran parte dei tiepidi cristiani). È passione. Egli sprezza il godimento e i gaudenti, e neanche perché si senta un asceta, rigidamente pago delle sue conquiste e dei poteri inibitori raggiunti, ma perché ha un’altra serie di gioie da vivere. Chi ha studiato psicanalisi vede chiaro qui il fenomeno non di reazione ma di sublimazione dei sentimenti.

Sulle gioie della vita ardenti e belle

passo sprezzante e altero:

io sol dono il mio cuore e il mio pensiero

ai gementi quaggiù sotto le stelle.

Oh penetrare le lacrime arcane,

il pulsar delle vene!

Poter lenire tante e tante pene,

immense pene, pene sovrumane!

Poter cangiar del dolor la stretta

in un tenue sorriso!

donar della pia speme il paradiso!…

… è sol gioia per me, gioia perfetta.

***

Colligite fragmenta

Restio a scrivere, lascia pochissimo sulla carta. Sappiamo bene che ha lasciato molto nei cuori.

Si sa che iniziava e, mobile e incontentabile com’era di sé, abbandonava. Quel che c’era s’è perduto dopo la morte.

In quel che leggiamo di suo, vediamo evidenti, il suo stile e il suo animo. Si legga la lapide che dettò per Pietro de Lellis, avvocato e poi sacerdote † 1808, alla cappella delle Grazie in Piedimonte. Niente sovrabbondanza di encomi sperticati e monotoni:

Pietà di edificazione profonda

cultura di lucido intelletto…

e più oltre:

si ritrasse silenziosamente qui

a imparare dalla Regina della sapienza

come rendere la vita

utile e santa.

È del 1925, e c’è ritratto lui stesso.

Più descrittiva, e di concisa ammirazione è quella per Alessandro Vessella in Alife:

…gloria nazionale,

con meravigliose trascrizioni

dava alla banda italiana le forme dell’arte nuova,

ed all’Italia la comprensione e il gusto

della musica straniera.

Sulla tomba della madre, nel piccolo cimitero di San Gregorio, quasi un nido sulla valle profonda, aveva invitato semplicemente a pregare per la “tanto buona e cara maestra” le fanciulle da lei educate. Per tutti molto, per i suoi poco.

***

La preghiera popolare alla Vergine delle Grazie, ricca di sentimento e di umile fede, nelle sue mani divenne arte. Ecco come chiedeva grazie:

“…L’aspetto da quegli occhi di grazia: l’attendo da quella tua bocca che è sempre dischiusa ad un sorriso di grazia: la invoco da quella tua fronte soavemente china sulle umane miserie, da quelle mani protese a benedire, e soprattutto da quel tuo benedetto e materno cuore, o Maria, piena di grazie…”.

Del suo buon gusto e della sua capacità di critica, si hanno fra l’altro due saggi. Uno è: “Spigolando – G. Bocchetti e i suoi critici”. Vi dice che l’arte del Bocchetti “…si rivelò… con quella sua pittura tonale, d’intonazione dorata, fastosa e insieme sobria, la quale dà mirabile risalto alla ricchezza degli stucchi che adornano il tempio” (l’Annunziata in Piedimonte). Sull’Avvenire d’Italia di Bologna, l’11 marzo ’32, così scriveva: “…analizzando i principi dell’arte sua, l’elemento simbolico non si sovrappone alla visione pittorica, non la contamina, non la strania dal suo fine: il racconto della Regalità di Maria è così compenetrato col linguaggio pittorico, che l’animo del riguardante non sa se più ammirare una poesia del colore o un colore della poesia”.

Ma più che critica d’arte, questa la chiamerei una comunione di spiriti. Vitale non guarda come un freddo e preciso Alinari; egli contempla, come Dante contemplò il suo Paradiso vivo e palpitante, e si agita e si commuove.

***

Si sa di un suo commento a Leopardi, di un suo studio sul Francescanesimo, di una “Novella del biancospino” … Dopo averla letta, chiese se era piaciuta. Lo era, e molto. Gli alunni dalla sua reticenza, capirono che era sua. Si sa di relazioni epistolari con vari pubblicisti: è il prof. Ciaramella e la prof.ssa Zotti Grillo a lui spiritualmente vicini, che informano. Si sa di propositi suoi di scrivere, e specialmente sull’amato Manzoni… Ma tutto è inconcepibilmente scomparso subito dopo la morte.

***

Che la destra inerte gli abbia impedito il lavoro di scrittoio (dettava infatti volentieri), e che la stessa debolezza fisica e i frequenti dolori di testa vi abbiano contribuito, è un fatto.

Al giornalismo più rapido, più sbrigativo e, solo per questo, meno impegnativo, s’era dedicato alquanto.

Studente a Pisa, fu collaboratore del “Giornale di Pisa”, e dopo il ’18, scrisse anche sul “Corriere della sera” firmando G. V., e anche su “Il Popolo”. A Piedimonte, ormai lanciato nella politica attiva, volle Libertas, organo del locale Partito Popolare, e volle anche La Zanzara, foglio di satira politica. E a volte, per essi, dettava a Don Ferritto, fino alle 2,30 di notte. Fece epoca l’articolo: “Non ho rubato io la vittoria”, dopo mancata riuscita elettorale.

***

Bozzetti drammatici di vita popolare paesana, gustosi, non mancano, ma anch’essi sono introvabili nell’originale.

I tipi erano scelti naturalmente a S. Gregorio. Ci capitarono in mezzo il vecchio signorotto, impettito e solenne, il “cavaliere” dal parlare enfatico, che definiva il Comune ricco di acque, cone una “comarca acquifera”, e che, essendo Conciliatore, amministrava solennemente la giustizia fra gli esplodenti pastori del Matese, seduto su un enorme vaso da notte… Non sfuggiva un vecchio “Cancelliere”, cioè il Segretario del Comune che, paralitico, gli aveva dedicato un sonetto quando, la notte del 1° Agosto 1903, il Vitale era salito a Monte Miletto; né scampavano vanitosi di villaggio, come Don Isaia lo speziale, che a Napoli andava come uno sporco studente per apparire un ballerino pulito a S. Gregorio. E di quest’altro aspetto del Vitale ringrazio anzitutto la signora Giovanna della Paolera, l’ultima rimasta di quella che fu la seconda famiglia del Professore, dopo i De Lellis. Nei personaggi locali rappresentava quasi i tipi della farsa napolitana. Tipo a sé, irriducibile, Don Domenico, vecchio prete e maestro elementare, “famoso oratore” diceva Vitale, che ripetette per cinquant’anni la stessa predica alle Quarantore, tanto che il popolo in chiesa la recitava con ui: “…E tu, zitella zitella, che non vieni in chiesa per pregare…”.

Gusto del buffo e del grottesco? Esattamente no. Piuttosto nostalgia del piccolo mondo antico al declino. In queste rappresentazioni egli, a volte, lavorava sul subcosciente del popolo, come nel sogno dello “Scuppato”, un povero diavolo che si vedeva Padre Eterno, e distribuiva i posti del Paradiso; o coglieva la voce del sano realismo popolare, come per quella interminabile lettera di otto pagine, la lettera d’un soldato alla fidanzata. – Che dice? Aveva chiesto la madre di questa. – Che le vuole bene. – E otto pagine?…

A volte rappresentava l’infantile curiosità popolare, quando descriveva l’organista locale che, all’Elevazione, poneva sui tasti un’enorme chiave, e si girava a curiosare giù tra i fedeli, mentre dall’organo, interminabili note trasformavano con indifferenza l’armonia sacra nei suoni di una officina. Con facilità aveva messo in versi le cronache di Assunta, la vecchietta pettegola del paesino. Era capace della cicalata scherzosa, e sapeva spiare e spifferare insinuazioni e malignazioni di donnette, o le facoltà “iettatrici” d’un alto dignitario.

L’animo del Vitale? Poliedrico anche per questo. Non gli sfuggiva l’aneddoto, e sapeva ricavarne e fissarne il tipo.

***

Non è poesia, è solo capacità di versificare, ma quanto houmor nel lungo ditirambo che segue. Si pensi solo a questo: è un malato che scrive. Soffre, e pur riesce a dimenticare, è colpito dall’affetto rusticano dell’inserviente, e ci ride su. Era bisogno di allentare per qualche momento la solitudine di cui era fasciata la sua esistenza.

Il liscio e busso delle malattie – Storia dal vero.

Nell’ardore convulsore – creatore

del mio spirito febbrile,

il mio letto è come un mondo…

cioè a dire: è un po’ simile

a questo mondo:

qui vallate, lì fratture,

giù sporgenze, su pendenze,

e altipiani tra bassure.

Ci son l’Alpi, perfin l’Alpi!

E son l’Alpi i piedi miei

colle punte irte nel ciel!

Ciò contemplo resupino,

mentre frulla e frulla, e frulla

una frase dal mattino

nel mio cervel:

“Liscio e busso”, è un liscio è busso…

Dicea fra me: c’è dunque in fede mia

un liscio e busso ancora in malattia?…

Speculavo resupino

su tal frase del mattino,

mentre il vecchio zio portiere,

reso arzillo dal bicchiere,

là innalzava, qua spianava

rifaceva, ricreava,

al mio letto in convulsione

nuove forme più consone

all’alticcia sua ragione.

Con un atto – forte e ratto,

impensata, una manata,

giù dall’alto egli calò,

e ahimé l’Alpi, i piedi miei,

che di nulla erano rei,

nel profondo duro e fondo

del mio letto allivellò:

“Ahi, che fai?” gli gridai,

ma i miei lai

non pietoso, ei non curò…

“V’aggia alliscià. Lassate fa”.

E giù ancora altra manata

più spietata v’assestò.

Poi paterno, buono, grave,

con la voce più soave,

con un lento gesto pio

disse, l’occhio all’occhio mio:

“Vuia avita penzà sul’ a sta bbuono.

Zi Mì, chellu che fa, fa tuttu bbuonu”.

Tacqui, vinto. Il mio piede dolorava.

E proruppi in clamorosa, impetuosa

Filosofica risata…

E zì Mineco: “E che gghiè?”.

Meditava ora e trovava

che le pieghe si levano a manate,

e che queste son sempre un po’ sgarbate.

Almeno le pieghe

che sono spianate

la pensan così.

Né solo le pieghe

ognuno vorrebbe,

(ma solo potrebbe)

goder, non dolere.

Aulire la rosa,

la spina penosa

buttare poi lì…

E faticosamente giunto qui,

il pensier filosofico finì.

Era questo ridotto in posizione:

La picchiata e la lisciata – ruminata,

mi chiarivano alfin a spese mie

il liscio e busso delle malattie:

il liscio eran le pieghe accomodate,

il busso eran le Alpi rientrate.

La variazione del metro, e il filosofico sorriso lo fanno rassomigliare al Redi (Bacco in Toscana), ma il gusto della macchietta è suo.

***

L’azione sociale

L’uomo cui non sorrise una famiglia propria, e che anche nell’ampio mare della cultura aveva trovato una foce insufficiente al suo irrompente sentimento, non poteva appartarsi dalla vita vissuta. E si riaffacciò nella società da cui era uscito, in due modi: facendo del bene e resistendo al male.

Ora, qui ricordiamo la sua attività pubblica, perché la carità nascosta, che Dio solo conosce, sarà portata nella tomba da tanti beneficiati. Quanto e quanto dette con discrezione, appena conobbe o intuì una situazione penosa, una sventura improvvisa, una miseria segreta!

La sua carità cristiana non consistette nel privarsi di residui, ma fu soprattutto un movente morale di redenzione dal bisogno.

La scossa decisiva l’ebbe all’Università dal Maestro, il principale organizzatore del movimento cristiano–sociale in Italia, e che fu anche il maggior esponente della Scuola etico–cristiana. Toniolo reagiva alla concezione utilitaristica dell’economia individualista, volendo disciplinare l’esigenza del singolo nella collettività. Alla insufficienza dell’individuo riparava col Sindacato, (unità organica professionale) e la Corporazione, in cui si determinano i Sindacati, termini intermedi fra l’individuo e lo stato. Di questo non volle mai la strapotenza totalitaria, ma solo una adeguata legislazione per una maggiore giustizia sociale. Base dei rapporti era la regolazione dei contratti di lavoro, ed a quelli individuali (che possono finire nel crumiraggio) sostituiva il contratto collettivo.

L’autore di opere poderose di sociologia era un cristiano di gran pietà, e prediligeva, lo sappiamo, il giovanissimo Vitale. Tutte le mattine gli serviva la Messa, e ne riceveva la Comunione. Fu lui a dargli la notizia che Don Murri, il sacerdote modernista e sociologo, si preparava a ribellarsi: “Don Vitale, è il primo giorno che Don Murri non ha celebrato!”. Giudicate voi che leggete, se Don Giacomo, con la sua indole, la sua coscienza di figlio del popolo, e con questa formazione dottrinale ed affettuosa che ricevette per anni da lui, doveva o non berne il pensiero e l’azione, e farli suoi, e lottare per attuarli.

Dalle lettere di Don Giacomo notiamo anzitutto il disagio a staccarsi dall’ambiente pisano dove gioventù, studi, tanto maestro, attività sociali, gli davano le uniche sante soddisfazioni che cercava, mentre da noi tutto quel che gli sorrideva, gli sarebbe mancato.

Scriveva: “…Vedo con dolore avvicinarsi il momento del mio ritorno, e se una nuova malattia più forte e più lunga di quella che ho già sofferta, mi venisse a visitare in modo da impedirmi gli esami, e così prolungarmi il soggiorno a Pisa, io l’accoglierei come la benvenuta. A tanto son ridotto. Tanto orrore mi fa la vita d’inerzia e di abbattimento che mi aspetta così! Tanto ribrezzo sento per tutte le forme di vita, per tutte le manifestazioni di attività politica e religiosa, per tutti i costumi barbari che ancora regnano fra noi… Almeno ci fosse a Piedimonte una biblioteca, dove immerso nei miei studi, potessi non vedere e non sentire! Potessi almeno essere libero di esplicare quell’azione ch’io credo solo buona e rispondente al momento storico che attraversiamo… Se non posso dar l’anima agli studi e all’azione, meglio rifugiarmi in un paese alpestre, lontano; mettermi a contatto coll’anima del popolo, e plasmarmela lentamente, amorosamente, secondo il mio ideale, aliena dai pregiudizi, nemica delle prepotenze, cosciente dei suoi diritti e dei suoi doveri di cristiana e di cittadina”.

È la visione d’un Ideale. Direttiva costante per lui, l’azione. Il suo tormento, la paura di non poter agire. La tempesta del dubbio lo assale, la supera, e l’Ideale si radica. “Di che devo parlarvi?” chiede in una lettera (1909) a un suo parente “Stamane abbiamo fatto un gruppo noi tutti laureandi in Lettere, e dopo abbiamo festeggiato…o meglio hanno festeggiato: io no, io ho meditato, io ho visto che il giorno della laurea non è per me un giorno di gioia ma di dolore…Finora avevo uno scopo nei miei studi: che farò quando l’avrò raggiunto?…Organizzare gli operai per guidarli contro i ricchi che li sfruttano e il governo che li deride?…”

E ancora una volta lo studio, solo lo studio gli si affaccia come via di uscita dal naufragio del suo sogno. Ma subito riaffiora potente in lui, uomo di azione, la funzione sociale della cultura: “…mentre io sarei astratto dalle memorie del passato, intorno a me ci sarebbero tanti oppressi che avrebbero bisogno di chi li aiutasse a sollevarsi, tanti miserabili che aspetterebbero invano una parola di speranza. Sentire i loro lamenti e non poterli soccorrere, perché…ne sarei impedito dai pregiudizi, dall’interesse, dall’ignoranza di chi, nato ed educato con criteri antidiluviani, ha la forza per reprimere ogni iniziativa, ma non per comprendere i bisogni, le esigenze, i diritti del tempo in cui viviamo. Se questo bene che io vorrei fare mi è impedito, allora perché vivere? Che cosa sarà la mia vita fatta per la lotta?…Se tutto quello che ho imparato, se tutto il bene che ho sognato, io non potrò, venendo, distribuirlo a chi vive nella miseria e nell’ignoranza, come posso guardare con occhio lieto il giorno del mio ritorno?…E se mi lamento, se guardo con angoscia al mio ritorno, non è perché tremi delle difficoltà, ma perché credo che mi si legheranno le mani, e sarò condannato a vegetare nell’inerzia e nell’avvilimento…Sognare un grande sogno, sacrificare la gioventù, l’ingegno, l’anima per esso, rinunziare ad ogni allettamento di un roseo avvenire, rinunziare a parenti, ed amici, alle cose più belle e più dolci per esso, e non poterlo realizzare, e vedere che tutto, tutto è stato invano! La mia condizione è questa, il mio dolore è questo, e non altro”.

Ma qual era il quadro della società che preferiva, e non voleva abbandonare? “…Qui…gli operai sono tutti organizzati in leghe e sindacati professionali…e da preti e da socialisti gli operai sono guidati negli scioperi…Domando: potrei io a Piedimonte organizzare gli operai, e non dico condurli a scioperare, ma parlare solamente di sciopero, senza passare come rivoluzionario, ed essere scomunicato?…I cosiddetti “signori” qui non esistono…Tutti lavorano. Le donne sono unite in circoli di cultura dove ascoltano conferenze e lezioni d’arte, di educazione d’igiene, di pratica casalinga. Vi sono associazioni di madri di famiglia…di operaie. Doposcuola, l’Opera della Protezione della giovane, il Comitato pel voto elettorale alle donne…”.

Ecco quel che Vitale voleva, e per cui il contrasto fra Nord e Sud è visto da lui con tinte così contrastanti. Ma, ricordiamoci che era un giovane dallo spirito esuberante, e perdoniamogli per questo qualche esagerazione.

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Tornò a Piedimonte. E le occasioni a entrare concretamente nelle questioni operaie, ad attuare il suo programma di azione, non mancarono. La prima fu nell’Aprile-Luglio 1911: la controversia fra operai e padroni al cotonificio Berner, che portò al primo, totale, ostinato sciopero dei cotonieri. Ne ho fatto cenno su “Piedimonte”. Gli operai chiedevano un compenso minimo in caso di inattività non causata da loro, ma ad es., da guasti. La richiesta era lecita, e Guglielmo Berner finì con l’accettarla, ma pretese il diritto di ridurre le giornate lavorative senza preavviso, e per di più, licenziò 13 operai. Gli altri preoccupati, dopo tanta resistenza tornarono sotto.

Don Giacomo si trovava di fronte una massa operaia quasi scristianizzata, non aveva ancora un seguito, e perciò agì con prudenza. Descrisse anzitutto al Toniolo la situazione, e ne chiese il parere. Questi, hià dal 14 ottobre 1910 gli aveva additate le linee da seguire nella difficile situazione dei Sindacati cristiani, della delicata posizione del sacerdote in essi: ed ora, con la lettera del 12 aprile 1911, affronta l’accesa situazione piedimontese, vedendola però non dall’angolo pedemontano sotto il Matese, ma da una cima molto alta, dalla situazione nazionale. “Se Ella riuscisse a una composizione amichevole…” consiglia Toniolo, e perché? Perché sì, è vero che negli stabilimenti a telai automatici c’è supplemento in seguito a inattività di macchine, per mancata preparazione o per guasto, ma non c’è contratto che regoli ciò, e allora? Se c’è “consuetudine di fatto”, “contratto tacito”, l’impegno reciproco presuppone la stabilità dell’industria, ma se questa manca, cessa l’impegno per padroni e operai. Ora, il momento è rovinoso per l’industria cotoniera italiana, e perciò le richieste degli operai urtano contro una situazione di fatto, che devono pur capire. “E potrebbesi accennare agli operai quanto siano gravi in tutta Italia le condizioni odierne del cotonificio a danno di padroni e lavoratori insieme…”. Già la promessa (di Berner) di non ridurre le giornate di lavoro più di quanto è stato finora è qualche cosa. “E se fosse possibile” consiglia, “faccia accettare agli operai il cottimo sull’unità del prodotto dei telai selfacting: vale come il supplemento”. Si tratta di far pagare all’impresario per il lavoro effettivo e non per l’ozio forzato. Si deve infine evitare che una sola delle parti (padroni-operai) comandi all’altra. Patti, contratti, impegni devono dirigere la vasta azienda piedimontese, non scioperi e serrate.

Conclusione di sociologo-economista, che il prof. Vitale si sforzò di far capire. Ma l’ostinazione, gli animi accesi di 600 operai, i licenziamenti, la presenza dei Carabinieri al cotonificio, non gli permisero un’azione tutta sua.

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Venne la guerra del ’15. Vitale al “Dio e Patria” spiegava le nostre operazioni militari, s’interessava per la Croce Rossa, facendo lavorare indumenti, e fece propaganda per il Prestito Nazionale, ed infine fu Presidente della Congrega di carità. Presiedere è una cosa, animare è un’altra. S’imponeva il problema dell’infanzia abbandonata. Egli lo risolse non a titolo di elemosina, ma “in modo organico e completo” (dice mio padre nelle “Memore storiche”). Il 18 ottobre 1916 provvide:

1. per i bambini inferiori a tre anni con la Casa di maternità, fornitura dell’intero baliatico, di latte o surrogato, di corredini a neonati figli di combattenti, e con sussidi mensili.

2. per bambini dai tre ai sei anni, aumentando la dotazione all’Asilo infantile.

3. per i fanciulli oltre i sei anni, col sussidio ad una Scuola di arte e mestieri. Doposcuola, sussidi a domicilio per famiglie povere e borse di studio. Pensò anche ai locali.

Ancora una volta si manifestava il suo sentimento retto da intelligenza, ispirato da disinteresse.

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Dove la superiore moralità del prof. Vitale apparve più connessa, fu nella questione dei pascoli del Matese. Qui il bene si dové fare lottando, e Don Giacomo non si sottrasse alla lotta, che ebbe momenti drammatici.

I fatti andarono così. Quando la S.M.E. iniziò i lavori di sbarramento degli inghiottitoi al lago Matese, le acque innalzandosi di cinque metri di livello, invasero terre demaniali, fino allora adibite a pascoli. Mentre i pascoli diminuivano, il Comune di S. Gregorio aveva permesso all’Avv. Pedone di Foggia di trasferire sul Matese 3650 ovini-caprini, e 250 bovini-equini, aggiudicandogli l’appalto della fida del pascolo sulle erbe demaniali. I pastori locali da padroni divennero tollerati, senza contare il danno finanziario al Comune, e la diminuzione del prodotto. Messi dinanzi alla fame, minacciarono d’incendiare il municipio.

Il prof. Vitale – non dispiaccia una volta l’atuzia in lui – anzitutto puntò sulle elezioni amministrative, che portarono al Comune il Partito Popolare, e cioè i pastori. Col nuovo sindaco Vincenzo Ferritto, il Comune diffidò il Pedone, chiedendo una modifica agli accordi, data la situazione mutata. Ma questi e l’Autorità stavano alla lettera della legge. Prevedendo il peggio, il Sottoprefetto D’Elia nel Maggio ’21 scriveva: “…si diffidino energicamente promotori opposizione affatto arbitraria e sobillatori” (leggi: Vitale). Ecco gli armenti pugliesi, il 15 Giugno sull’Esule. Assessori, consiglieri, e guardia campestre vogliono impedire. Si fa violenza contro di essi. Accorrono minacciosi i pastori. Sopraggiungono 100 carabinieri armati. 25 pastori sono tratti in arresto. Il tumulto in paese è indescrivibile. Il Comune ricorre. È Vitale, assessore al Comune che istruisce sul da fare. Fa fare interpellanza alla Camera per l’immediato rilascio degli arrestati. Spedisce anche i fogli di carta bollata “nel timore che costà non vi siano”. Finalmente il 7 Dicembre, vittoria del Comune! Il pretore Renella ordina al Pedone lo sgombero del Demanio. Ma quello ricorre. Il 1° Maggio ’22, il Tribunale accoglie l’istanza. Il 1° Giugno appello ostinato del Comune. Si preparano le condizioni di una transazione. Il Comune, il 24 Giugno, con deliberazione n. 304 nomina Vitale “fiduciario”.

Il 26, a Napoli, Vitale s’incontra con Pedone, ed ottiene: Limitazione del pascolo al Pedone senza limitazioni di numero, solo al Monte Esule, e questo fino al ’25, e dietro L. 5.000 annue. Rinunzia del Pedone a tutti i diritti del contratto 7 Luglio ’20, e rinunzia esplicita alla Bufalara (dov’è produzione di fieno). Era molto più di quanto era stato chiesto dal Comune prima, in via di transizione. Non solo, ma il Comune, vendendo il fieno di Bufalara a metà prezzo, “faceva da calmiere efficace contro ogni avidità di incettatori e di monopolizatori”. Il Comune approvava la transazione “in tutte le parti”, e sentiva il dovere di “tributare al prof. Vitale i sentiti ringraziamenti del Consiglio per l’opera veramente efficace e laboriosa da lui adoperata a solo scopo del bene della cittadinanza”.

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Altra feconda realizzazione di Don Giacomo in quei giorni fu la Cassa rurale per impedire lo strozzinaggio (soldi “a senà”).

Si tratta di società di credito agricolo, quasi sempre a forma cooperativa in nome collettivo, per migliorare la condizione materiale e morale dei soci con l’agevolar loro il credito e favorendone il risparmio. L’attività sociale si basa sul credito personale, si attua nel villaggio al cui santo patrono spesso s’intitola. Furono attuate in Germania fin dal 1848, e furono diffuse in Italia dal Wolleborg e dal Rossi, e si moltiplicarono, spesso ad opera di parroci, in Toscana, Veneto, Lombardia, ed Emilia.

Don Giacomo si recò appositamente a Bergamo per due volte, a studiarne il funzionamento e, delle tre sorte nella piccola diocesi alifana, il Vitale fu promotore di quella di San Gregorio (la preparò anche a Calvisi). Il 27 Dicembre 1921 vi s’iscrissero agricoltori di S. Gregorio e Castello, versando ognuno L. 500. Sul capitale si riscuoteva un utile del 3% se il deposito era libero, del 4% se vincolato. Verso il ’30-’35, la piccola Cassa aveva un movimento annuo di L. 2.000.000. Poesia delle cifre! Durò fin quando non fu messa in liquidazione dal Governo nel 1935.

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Ultima manifestazione del suo Cristianesimo vissuto, fu l’attività all’Ospedale di Piedimonte, e in essa suggellò la sua vita.

Commissario dell’Ospedale l’8 Gennaio ’44, messovi dall’Allied Military Governement, subito, dinamicamente, il 20 Febbraio, egli costituiva l’Ente “Ospedale Ave Gratia Plena”, dopo aver “ritenuto la convenienza e il dovere nelle attuali difficili comunicazioni col centro, di costruire un Ospedale che accolga, oltre i degenti locali e dei paesi viciniori, i numerosi infermi e feriti che in numero sempre crescente vengono inviati dal fronte di guerra”.Intanto Ailano, Alife, Castello, Gioia, Raviscanina, S. Gregorio, S. Potito, S. Angelo e Valle Agricola, stringevano consorzio con Piedimonte, e il prof. Vitale si metteva in giro ad elemosinare. Egli chiedeva e riceveva, e il Dr. D’Amore, direttore sanitario attuava.

Il momento era tragico, col fronte a pochi Km, e i nostri paesi semidistrutti. Già erano arrivati tanti feriti da Alife martoriata, quando da Cassino ecco giungere sventurati sanguinanti in numero sproporzionato. Furono mobilitati i medici e, d’urgenza, si dovette pensare a forniture di alimentari, paglia, sapone, legna e carbone, medicinali soprattutto, e recipienti, cascame, stoffe… e pensare alla impellente lavanderia, al rattoppo, e tutto sul momento, senza poter respirare, fra il rantolo del morente, e gli urli di dolore di chi portava il piombo nella carne.

In pochi mesi l’Ospedale era un altro. Stanze per singoli, due sale per feriti, due per infermi, una sala per maternità, un gabinetto per analisi, e uno radioscopico, un consultorio oculistico e uno otorinolaringoiatrico, tre sale per disinfezione, preparazione e operazione, una stanza di casermaggio, perfino un nuovo statuto organico, e un aumento di reddito! “Tutto questo”, scriveva D. Giacomo, “si è potuto conseguire per i sussidi dell’A.M.G., per i concorsi dei Comuni e, primo, del Comune di Piedimonte, e per le continuazioni affluenti elargizioni dei privati”.

Il 1° marzo 1947 ci fu l’ultima riunione sotto la presidenza Vitale (manca la firma di lui). La morte era vicina. Ma egli, l’aspettava ormai, liberatrice dalle sofferenze atroci del corpo, e schiudentegli l’orizzonte di luce che Cristo promise a chi passa nel mondo beneficando.

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La grandezza del Prof. Vitale, per cui tanti lo ricordano, per cui lo rievochiamo per primo nelle civiche onoranze sfugge agli uomini esteriori. Essi infatti si chiedono: Che ha fatto in fondo, da meritare un monumento?

Rispondo a nome del Comitato, a nome di quanti ne serbano devoto ricordo.

È una benemerenza e un vanto compiere pubblici lavori, o emergere nella vita politica e nella carriera. E queste sono grandezze che si vedono.

Ebbene, Giacomo Vitale non costruito strade, né è diventato un alto prelato. Ha solo lavorato nei cuori e nell’intelletto di centinaia di persone. Ha lasciato perciò tracce materialmente invisibili, ma non per questo inesistenti. Sta qui la sua benemerenza civica.

Egli non rivive in un palazzo o in un titolo, ma nel subcosciente di chi cade e risente, come in un soffio, la voce del suo rimprovero, o di chi sale e rivede il suo gesto d’incoraggiamento e di plauso… La sua ombra non aleggia su realizzazioni materiali, ma appare nell’intimo, quando si studia, quando faticosamente ci esaminiamo.

Chi non lo conobbe, chi era refrattario alla scuola del carattere e della bellezza, può non riconoscerne l’altissimo merito. Ma noi che dal suo insegnamento abbiamo ricavato la visione spirituale della vita, non esitiamo ad attribuirgli quanto si disse di Socrate: “Scolpì anime, e fece nascere idee”.

Obbedendo con slancio alla richiesta del Vescovo, ho steso questi cenni sul mio Professore. Ma non devono servire solo a ricordarlo. Un libro “…è men che niente se, fatto il libro, non rifà la gente”.

Il Giusti ha ragione. E speriamo perciò che i “Ricordi del Prof. Vitale diano un significato allo sguardo intelligente e buono che emana dal monumento, ed egli continui a parlarci, ad ammaestrarci, a farci riflettere, a farci migliorare.

Piedimonte, 20 luglio 1963

Dante Marrocco