aspettando, chiamando, ed accogliendo

5 - aspettando, chiamando, ed accogliendo tutti coloro che vengono a visitarvi,

Aspettando: l'attesa. Ad tendo. Anche a voler analizzare i molte­plici significati che si danno al termine, che in fondo nella sua impo­stazione etimologica è tendere con i sensi e con l'intelligenza a qual­che cosa, non ci soddisfano in questa ricerca le definizioni che deri­vano da uno dei verbi: osservare, considerare, porre mente, stare attento, prestare attenzione, dedicarsi, accudire, badare, e pure a volersi riferire alla situazione psichica, lo stato d'animo di chi aspet­ta, di chi non è appagato, la spiegazione non ci convince. La tua atte­sa, Signore, è un'altra cosa, è la voglia che hai di amicizia con me, di compartecipare a me il tuo amore per il Padre e per l'uomo. Padre nostro: la verticalità e l'orizzontalità.

Noi misuriamo l'attesa con il tempo, ma per te i secoli sono gior­ni. Noi la vita consideriamo una successione ininterrotta di attese, la morte a chiuderne la serie. Le attese angoscianti dell'esistere umano. Ma c'è la risurrezione, che segna l'inizio dell'attesa dell'amore di Dio, mai definitivamente raggiunto ma sempre appagante nel suo equili­brio dinamico. Non esiste nella chimica dell'universo e nel suo fluire un equilibrio statico: così sarà per noi nella dinamica dell'amore dopo la morte. È chiaro che il riferimento e l'esempio servono a cer­care di capirci meglio. In fondo, l'attesa è l'ansia della ricerca solleci­ta di una posizione. Ma con il tempo anche la categoria dello spazio non esisterà più dopo la morte e tutto diventerà infinito come eterno, sempre soddisfacente ma sempre nuovo.

L'attesa è quindi un momento dell'amore: il tuo aspettarmi è il segno della carità che sei, qui, nelle sacre specie, in persona, come Dio nei suoi attributi assoluti e come uomo con la mia carne e le mie ansie. Ma l'attesa, in ogni senso si prenda, presuppone ed implica la speranza, che è virtù teologale. Cos'è la vita senza la speranza? Speranza è la tua fissità nell'eucaristia, segno autentico del tuo regno, seme immarcescibile di fede. Il tuo aspettare è dare fiducia senza limiti all'uomo, è attesa della glorificazione del Padre.

Chiamando: la vocazione. Ma a che ci chiami? Ce lo dice Paolo di Tarso nella lettera ai galati. Ci chiami alla libertà. In virtù della sua anima e delle sue potenze spirituali d'intelligenza e di volontà, l'uo­mo è dotato di libertà, segno altissimo dell'immagine di Dio. Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciate­vi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un prete­sto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate al servi­zio gli uni degli altri. Tutta le legge infatti trova la sua pienezza, in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso... Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge.

Ci chiami al regno, facendoci ben comprendere che regnare è servire e che l'appartenenza alla signoria del regno è essere liberi dentro, spezzate le catene di ogni schiavitù del mondo, consapevoli della propria finitezza che s'immerge, bruciata dall'amore, nell'infi­nità del Padre, con la certezza che accettarsi per quello che si è è l'u­nica via conveniente di salvezza: fare la volontà del Padre. Ce lo hai detto tu nella passione che hai vissuto per me e che continui a vivere sempre nell'eucaristia per spiegarmi il mistero della vita e per redimermi. Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. In te, Signore, ho comunione con la verità che mi fa libero. Mi hai donato lo Spirito Santo e, lo dice Paolo, dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà.

Siamo chiamati alla libertà di farci suoi figli. Lo dice Ratzinger con grande chiarezza. Cristo è in modo unico immagine di Dio. In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l'uomo a sua immagine, guardò in anticipo a Cristo e creò l'uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell'Uomo che è il canone dell'umanità. Soprattutto, però, Gesù è il Figlio in senso proprio, è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio. In questo modo la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esser­lo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comu­nione con Gesù. Essere figli diventa l'equivalente di seguire Cristo.

Cosa devo fare alla tua chiamata, Signore? Dirti: mi hai chiamato? Eccomi, come Abramo, come Samuele, come Maria. Parla, perché il tuo servo ti ascolta. Però, ho tanta paura, mio Dio; suonano gravi gli avvertimenti della tua chiamata. «Ti seguirò dovunque tu vada». Gesù gli rispose: «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di anda­re prima a seppellire mio padre». Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va' e annunzia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore, ma prima lasci che io mi congedi da quel­li di casa». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno, che ha messo mano all'a­ratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio». Continualo tu, Signore, il solco che lascio incompiuto. Fammi dire con Abramo alle Querce di Mamre: Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo.

Accogliendo: il dono. Quando si riceve a casa l'ospite, ogni cosa si fa che sia di suo gradimento, gli si offre tutto quello che di buono si è conservato, s'imbandisce la tavola nel migliore dei modi. Lo fa Cristo Gesù, ricevendoci con amore. Il dono di Dio è Dio stesso, con­ferma Ratzinger: la cosa buona che Egli ci dona è lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi. Questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c'è biso­gno». In quel tempo Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avan­ti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a ser­vire? Dille dunque che mi aiuti» Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta». Potrebbe apparire retorico quanto dice Cristo, che lì è accolto, e vi si deve pur mangiare e quindi preparare. Difatti nelle sue parole non v'è condanna alcuna dell'operosità di Marta e delle cose che fa, ma l'occasione è buona per ribadire, sia pur non esplicitandola, qual è la parte migliore che non si perde. La verità che mi convince nella tua risposta, Signore, è che dove c'è il vero amore per te, lì si pratica in ogni modo la carità evangelica.

L'accoglienza vera è quella che dai tu, chiuso nel mistero, il grande mistero delle specie eucaristiche, centro del mistero della redenzione e del tuo amore divino. Né vale l'episodio delle due donne che amavi a dar risalto alla contrapposizione tra vita attiva e vita con­templativa. Il tema è centrato con la ponderatezza della sua riflessio­ne profonda e con l'acume della sua intelligenza da Agostino di Tagaste. Nessuno deve essere così contemplativo da non pensare nella contemplazione all'utilità del prossimo, né così attivo da non ricerca­re la contemplazione di Dio. L'amore della verità cerca la contempla­zione, la necessità della carità accetta l'azione.

L'accoglienza è dare tempi e dare spazi agli altri, come fai tu, che le categorie dell'uomo assumi in toto per ragionare con lui nei suoi termini di concretezza terrena, ma più che ragionare per fare. Mi torna in mente la parabola del samaritano: non colui che sa, ma colui che fa. Gli altri. L'altro. Chi è il prossimo? Chiunque si trova sul mio cammino e ha bisogno di soccorso, di comprensione, di amore. Come fai tu, con la tua accoglienza: tutti hanno diritto all'amore. Allora, sono io l'altro, perché sono io che devo farmi prossimo all'altro. Il centro d'interesse si sposta, come fai tu con la tua donazione infinita, dall'io agli altri. Tu ti sposti sempre dalla parte dell'altro, annullando ogni distanza, facendoti sempre prossimo.

Tra tutti coloro che vengono a visitarti ci sono io. Ma una rifles­sione m'impone la parola «tutti», che Alfonso Maria de' Liguori pone nella frase, e non senza senso. Tu aspetti, chiami ed accogli tutti senza alcuna differenza, di razza, di colore, di fede, di cultura, belli e brut­ti, malati e sani, buoni e cattivi. Proprio tutti, pronto ogni volta ad ascoltare, ad aiutare, a farti prossimo. Tra questi tutti ci son pur io. E vengo a visitarti, quando ne ho volontà, le poche volte, dove mi capi­ta. Ma un luogo voglio fissarlo ora, uno spazio, quello che mi ricorda la fanciullezza e mi è caro nella memoria: la cappella del Corpo di Cristo della chiesa madre del mio paese.

È antica come il duomo, viene eretta per la devozione dei sodali della congrega del santissimo Corpo di Cristo, è testimonianza del­l'attaccamento all'eucaristia dei nostri avi generosi. È piuttosto lunga, due corpi: l'oratorio vero e proprio e l'area dell'altare, prezioso di marmi intarsiati. Vi entra poca luce dalle finestre del tiburio che sostiene la cupola che lo sovrasta: il dato di fatto ne aumenta il misticismo. Dietro il tabernacolo di pietra di buona fattura artigianale e di architettura bene impostata, è sistemata una tela con la raffigurazio­ne dell'ultima cena, Cristo di fronte, gli apostoli intorno, spartiti sei a destra, sei a sinistra: la pittura è vecchia, del primo Seicento, se non addirittura dell'ultima parte del Cinquecento; è bella, acconcia, bene intonata al luogo in cui è collocata e incorona il tabernacolo.

Sulle pareti laterali della cappella sono sistemate in apposite cor­nici di tufo e stucco colorato quattro tele ad olio di buone dimensio­ni, databili alla prima metà del Seicento; lì sono rappresentati quat­tro momenti dell'itinerario verso il compimento del sacrificio del Figlio di Dio. Il lacerante dolore dell'orto degli ulivi. Non mea voluntas, sed tua fiat. Con questa preghiera ripetitiva di un rosario di par­tecipazione alla tua sofferenza, mio Signore, percorro i viali del giar­dino del mio vescovo più caro, i declivi che portano al lago d'Orta da Casale Corte Cerro o quelli che al mare di Paestum menano dai din­torni di Capaccio. E vi penso la notte di ogni giovedì santo nell'agape fraterna degli «operai» di Luigi Gedda o nella solitudine silenziosa degli ultimi anni.

Poi c'è la flagellazione. Da poco hai confermato a Pilato che tu sei re, com'egli ha detto, ma hai soggiunto che il tuo regno non è di que­sto mondo. Sono come Giuda coloro che per sfruttamento mediatico di grossolana natura ti considerano di questo mondo e ti fanno solo personaggio storico, rivoluzionario sì, ma legato alla terra. Non è facile farlo capire che la signoria del regno è la glorificazione del Padre e che la tua missione è la redenzione dell'uomo per terra e cicli nuovi. «Il mio regno non è di questo mondo... Il mio regno non è di quaggiù... Io sono re... Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce».

E gli altri due dipinti sono l'incoronazione di spine e la salita al Calvario, il tempo dello scherno, terribile, il mantello rosso, la coro­na di duri sterpi pungolosi, il dileggio, la beffa degli incolti, e il tempo della sofferenza, la passione. Son lì le tele a rappresentare come si colleghino intimamente l'istituzione dell'eucaristia e il sacrificio della croce, i passaggi ultimi, quelli della testimonianza della storia di Dio che si fa uomo, i più significativi. E l'intimo collegamento è stabilito da Cristo stesso e lo consacra la liturgia secolare della Chiesa: l'eucaristia è un sacrificio perché rende presente il sacrificio della croce, perché ne è il memoriale e perché ne applica il frutto. Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell'eucaristia sono un unico sacrificio: si tratta di una sola ed identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il mini­stero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diver­so è solo il modo di offrirsi.

È un atto di amore, una preghiera, questo mio dilungarmi sulla cappella del Corpo di Cristo della chiesa madre del mio paese: i luo­ghi hanno rilevanza notevole nella vita dell'uomo, segnano di nostal­gia i punti di un itinerario pellegrinato, ma che si fa segreto nella memoria, tutto personale, da godere nel ricordo vivo che ne da la solitudine. Vi arrivo, a questa cappella, passando davanti a quella del Crocifisso, la statua che ha tre secoli, scolpita da Giacomo Colombo: ne ho scritto con devozione. Vi arrivo, ma non so organizzare la pre­ghiera. Vengo per vederti, Signore, tra quelli che ti visitano in questa chiesa e in tutte quelle della terra, il più povero, bisognoso come sono di te da mattina a sera, anzi di giorno e di notte. Non è il latino visi­tare forma iterativa di visere e intensiva di vidère? Vengo a vederti nella mutazione della sostanza del pane nella sostanza del tuo corpo e di fronte al miracolo d'amore m'inchino a chiedere a te, che sem­pre mi chiami, mi aspetti e mi accogli, la tua parola di salvezza.