Piedimonte_17

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Cap. XVII

RIMEMBRANZE

(pp. 139-171)

ASSEDIO DEL 1229 – Non pochi avvenimenti si svolsero in Piedimonte in epoche remote ed a noi vicine. Di vario ordine e natura essi fecero della nostra città oggetto di ammirazione e di commozione insieme. Per questo, e per un giustificato sentimento di orgoglio, li riconsacriamo oggi in queste « Memorie », cominciando dall’assedio del 1229, che fu uno degli episodi della lotta tra Federico II e Papa Gregorio IX. Questi, come è noto – allorché l’altro era per ritornare dalla Palestina – mandò, nel 1229, un proprio esercito alla conquista del reame, e riuscì con esso, ad assoggettare non poche città e castelli in Terra di Lavoro. Dopo tali risultati il Cardinale Pelagio, comandante delle schiere, andò a campeggiare un miglio da Capua ove si trattenne tre giorni (marzo 1229) ma Capua ben difesa, si tenne fedele a Federico, per cui il Pelagio fu costretto dirigere le sue mosse verso Ailano, castello di Tommaso d’Aquino, conte di Acerra, difeso dal nipote Niccolò Spinelli, che, non potendo sostenere l’assedio, dové cedere alla forza.

Di là l’esercito volse verso Alife, e, sebbene incontrasse resistenza, dopo forti e ripetuti assalti riuscì ad espugnarla. Pervenuto finalmente a Piedimonte, non riuscì il Cardinale Pelagio a penetrarvi malgrado che le truppe della Chiesa, fossero soverchianti, per cui il castello e la rocca rimasero nelle mani del conte Tommaso d’Aquino, che strenuamente si difese costringendo il Pelagio ad abbandonare definitivamente l’impresa.

Tale avvenimento è riportato da Riccardo di Sangermano, come altrove si è detto. Nella sua Cronaca, narrando le mosse del Pelagio, dice: « ...similmente anche il castello di Piedimonte che era del ricordato conte (di Acerra) con la torre dello stesso castello si conservò sino alla morte del conte medesimo » (similiter et castrum Pedemontis, quod erat Comitis memorati turris tamen castri ipsius est ad finem ipsius comitis conservata).

PIEDIMONTE SI DÀ A LUIGI XII D’ANGIÒ – Durante le vicende tra Ladislao e Luigi XII d’Angiò, venne in Piedimonte, scortato dall’esercito di re Luigi, il notaio Antonio di Pietraroia – familiare di Niccolò di Sanframondi, che era governatore, con altri, del regno di Sicilia – per ricevere da Iacobello Gaetani il ligio omaggio e il giuramento di fedeltà che aveva in precedenza manifestato di compiere.

L’atto venne ricevuto il giorno 30 Aprile 1386.

Iacobello s’impegnò anche di sollecitare il padre Giacomo e la madre Sveva Sanseverino perché avessero anch’essi prestato analogo giuramento entro il 15 maggio successivo, e con le proprie mani issò il vessillo angioino sul castello di Piedimonte.

Indi l’esercito lasciò la terra dirigendosi per la via di Amorosi.

Ma l’omaggio di Iacobello, e quello, promesso, dei genitori, restarono senza effetto, perché qualche tempo dopo ritroviamo i Gaetani schierati nuovamente a favore di Ladislao.

ASSEDIO DEL 1437 – In quest’anno Piedimonte subì un secondo assedio pure ad opera delle truppe della Chiesa.

Cristoforo Gaetani, essendo partigiano della Casa Aragonese, allora in contesa con Roma, si trovò avversario del Pontefice Eugenio IV, che gli inviò contro il proprio esercito comandato dal Cardinale Vitelleschi, il quale agiva, com’è noto, anche per conto d’Isabella, moglie di Renato d’Angiò.

Il Vitelleschi – dopo aver conquistate altre Terre del Gaetani – prese prima Alife, indi assediò Piedimonte, e dopo espugnato il castello e la rocca, costrinse il Gaetani a fuggire.

Dopo un anno, però, Cristoforo riacquistò la Terra, ma il castello, la rocca e le mura si trovarono in gran parte danneggiati.

FATTO D’ARMI TRA PIEDIMONTE ED ALIFE – Un aspro fatto d’armi si svolse tra Onorato Gaetani, conte di Fondi e Signore di Piedimonte, e Marino Marzano, principe di Rossano e conte di Alife, l’uno parteggiante per gli Aragonesi, l’altro per gli Angioini. L’avvenimento, che si verificò nei primi giorni del dicembre 1459, è stato ignorato da quanti si sono occupati di Piedimonte. Solo il Ricciardi, nella sua Valle di Pietrapalomba, ne fece un brevissimo cenno. Un documento da noi rintracciato nell’Archivio di Stato di Milano – che sarebbe poi il rapporto che fece al proprio Governo l’Ambasciatore milanese a Capua, Antonio da Trezzo – descrive il fatto d’armi. In esso, tra l’altro, è detto: « El magnifico conte de Fundi (Onorato Gaetani) tenne in questa parte de qua una grossa terra, chiamata Pedmonte, la quale è vicina a due miglia ad Alifi, terra del principe di Rossano ( Marino Marzano). Li homini de Pedemonte in questi dì corsero ad Alifi nella quale intrarono et saccheggiarono grande parte, et bruzarono lo palazzo (quello del principe) et molte altre case, et amazarono quattro citadini: poi se ne ritornarono a casa et scrivono che se la Maestà del Re gli mandasse qualche poca gente, vinceriano et la terra et la fortezza ».

Il saccheggio ebbe però più vasta proporzione e violenza poiché da altro documento, riportato pure dal Ricciardi, si apprende l’invio di una supplica degli uomini di Alife al Re, nella quale, tra l’altro, è detto che dessi « considerato sonno state sachizate et brusate (le case) azo possano reabitare la dicta cita e chiedono di degnarsi concedere loro grazia speciale, col “fareli franchi” dai pagamenti fiscali. Esenzione che il Re concesse per la durata di dieci anni, come risulta da un diploma dato in Napoli il 6 febbraio 1468.

PRIMA CONGIURA DEI BARONI – SACCHEGGIO DI PIEDIMONTE – Racconta il Trutta che avendo « quasi tutti i Baroni del Regno prese le armi contro il Re Ferdinando I se n’andarono colle loro truppe per la via di Alife a tentar Onorato Gaetano, conte di Fondi, che nella fortezza di Piedimonte se ne stava rinchiuso, e non voleva mancar di fede al suo Re; ma non potendo espugnare né la fortezza del luogo, né la costanza di quello, a’ campi di matura messe abbondanti diedero il fuoco, spiantarono le vigne, gli uliveti recisero, i bei giardini e frutteti tagliarono, incendiarono le montuose selve e il bestiame asportarono ». Tale notizia ei dice di rilevarla dagli Statuti della Terra. In verità essa è riportata in un Diploma, in latino, di Onorato Gaetani (fatto in Napoli il 7 aprile 1483) trascritto in una convenzione allegata agli Statuti in parola. Tanto il Diploma quanto il Trutta non precisano la data dell’avvenimento. Il Diploma dice che Giovanni d’Angiò invase il regno di Napoli, e tentando la pace e la tranquillità di Ferdinando I d’Aragona, raccolse intorno a sé quasi tutti i Baroni, rendendoli ribelli al Sovrano. Dice ancora che gli uomini di Piedimonte per mantenersi fedeli al Re e ad Onorato Gaetani, subirono da parte degli invasori dei danni alle campagne, vigne, uliveti e giardini, nonché incendi, rapine, ferimenti e catture di persone.

Secondo noi l’avvenimento dové verificarsi immediatamente dopo il saccheggio di Alife (1459), e dobbiamo ritenerlo opera, principalmente, di Marino Marzano sia per vendicarsi del saccheggio in parola, sia pel fatto che il Gaetani era partitario degli Aragonesi.

Che l’avvenimento siasi verificato appena dopo il fatto d’armi indicato, sta a dimostrarlo che Onorato Gaetani, Marino Marzano e gli altri Baroni congiurati finirono con l’accomunarsi contro Ferdinando I, come diremo. Non risponde a verità, quindi, l’asserzione del Trutta quando dice che il Gaetani non volle mancar di fede al proprio Sovrano, perché il Carinci, a sua volta, rileva da documenti che Giovanni d’Angiò rivolse invito a Onorato Gaetani per un convegno in Castellamare al Volturno per stabilire i patti della sua entrata nella Congiura, e che il Gaetani inviò un suo Cancelliere colà a mezzo del quale fece conoscere le proprie condizioni. Quest sono notate in una memoria dell’Archivio Caetani di Roma.

Il Gaetani diceva di volere:

« Lo contado de Fundi con tutto soi lochi, terre, ciptà et castella. Lo contado de Trajecto con Garigliano con tucti altri soi lochi, terre et prerogative quomodolibet pertinente ad quelle cole Fracte et Castello Novo, et più lo contado de Nola, de Sarno et de la Tripalda, com terre, castelle, etc. et più Venafro, Sancta Maria, la Rocca de Gramnola, et Sancta Capeta – et più l’offitio del Mastro Justitieri, loco offitii protonothariatus sibi concessi, sin minus la confermatione del protonotariato, et ex nunc intitolarlo – et più la provisione annua di ducati duomila ». Queste petizioni, dice il Carinci, gli furono accordate, ma recisamente gli fu negato il contado di Traetto, le Fratte e Castelnuovo che deteneva il Principe di Rossano: il quale venuto a cognizione di tali domande disse al cancelliere del Gaetani: « che quello ho fatto contro lo Re Ferrante, ho fatto per queste terre, e ci ho messo a pericolo la persona et lo stato ». Queste parole vengono così chiarite: avendo il Marzano chiamato a colloquio il Re Ferdinando, questi, senza alcun sospetto, portatosi sul luogo del convegno, subì un tentativo di assassinio da parte del Principe suo cognato.

Ottenuto Onorato Gaetani le accennate promesse, si portò con le sue genti d’arme al campo angioino in Teano; e da Giovanni, che s’intitolava Duca di Calabria, gli fu affidata la custodia di Pontecorvo, dell’Abbadia di S. Germano, di Venafro, ecc.

« Mentre però il Gaetani – seguita il Carinci – combatteva contro gli Aragonesi in Terra di Lavoro, Papa Pio II, che gli proteggeva, occupò a lui la terra di S. Felice nel Circeo, spinse il popolo Setino a far guerra a Sermoneta, cui recò infiniti danni, fece prigione in Roma Nicolò Gaetani figlio di Onorato e lo mandò in Napoli al Re Ferdinando, che tratto umanamente, fino a condurlo seco nelle caccie reali. Il Papa faceva questo a terrore, per staccare Onorato dalla fazione angioina: ma egli sprezzando le più larghe promesse, si mantenne sempre costante nell’impegno intrapreso ». Depose le armi quando, declinando la fortuna di Giovanni d’Angiò, e restati sconfitti in gran parte, i Baroni congiurati, fu dal Duca lasciato libero.

Ferdinando I lo perdonò a sua volta non dimenticando che nel Parlamento del 1443 fu Onorato Gaetani che lo fece designare erede al Trono di Napoli. Passato nuovamente dalla parte degli Aragonesi, riuscì, poi, ad arrestare Marino Marzano l’8 giugno 1464, e due anni dopo fu premiato col famoso privilegio, di cui ci siamo occupati nel Capitolo dei Feudatari.

REPUBBLICA NAPOLETANA – Gli avvenimenti di Napoli allorché, nel 1799, vi fu proclamata la Repubblica, di cui era a capo il nostro concittadino Ercole d’Agnese, non potevano non ripercuotersi in Piedimonte.

Il d’Agnese, nel maggio di quell’anno, si trasferì per poche ore in questa città allo scopo di rivedere i parenti. Nel ripartire per Napoli fu accompagnato dalle Autorità locali e da gran numero di cittadini, dalla casa, in piazza S. Domenico, sino alla Porta di Vallata, dove, nell’accomiatarsi, tenne un breve discorso nel quale, tra l’altro, disse: « ...Se io rimarrò al posto che occupo nella Repubblica, farò di Piedimonte il giardino di Napoli ».

TRUPPE REPUBBLICANE A PIEDIMONTE – La venuta del d’Agnese e l’omaggio tributatogli dimostrano che in Piedimonte era stata accettata o per lo meno subita la nuova forma di governo, anche perché sin dal gennaio precedente vi presidiavano le truppe repubblicane, che avevano il compito di collegarsi e di mantenersi in contatto con le altre scaglionate in diversi luoghi, specie in territorio di Campobasso.

SACCHEGGIO – Come sempre avviene nelle occupazioni militari, le truppe saccheggiarono la città sin dai primi giorni di loro venuta. Ne abbiamo la prova in una nota manoscritta conservata nello Archivio della Chiesa di S. Maria Maggiore. In essa è detto: « La Chiesa della Insigne Collegiata di S. Maria Maggiore di Piedimonte, metropoli del Distretto, era ben corredata di sacri arredi e di argenterie. Venuti poi i Francesi nel principio di Gennaio 1799 in Piedimonte, posero a sacco e a ruba tutta la città, ed incendiarono alcune abitazioni di campagna, e S. Maria ne portò la peggio, poiché perdé tutti gli arredi sacri, cioè Piviali, Pianete, e Camici di valore, e di ogni guisa; dodici calici di argento, Incensieri, campanelli e molte lampade, tutti di argento ben lavorato, e tante altre suppellettili, che ora non sono più a memoria. Solo dunque la statua del Santo Protettore, che pure è tutta di argento, fu riguardata, e ciò si attribuisce ad un miracolo, mentre neppur le Pissidi furono rispettate... ». Venne però rubata la testa d’argento della statua di S. Felice, come si legge in un’altra cronaca manoscritta conservata pure nell’archivio della stessa Chiesa, e il Monte di Pietà fu completamente svaligiato, come saccheggiato il Palazzo Gaetani.

Da una lettera originale, che conserviamo, di Marcellino Ragucci – amministratore allora, di Casa Gaetani – diretta al Duca di Laurenzana in Napoli, si rileva che dall’8 al 12 gennaio del 1799, le truppe repubblicane involarono tomoli sessantacinque di farina dai depositi della Casa, e otto staia di olio, nonché oggetti, mobili, ecc. dal Palazzo ducale, dove, peraltro, prese alloggiò il Commissario di Guerra. « ... Per comune disgrazia – egli dice – mentre ancora mi tratteneva in d.o v.o Palazzo, si sentirono nella Vallata sonar campane ed armi, ed immediatam.te fucilate senza numero; chi fuggì da una via, chi da un’altra; ed io poveretto vivo miracolosamente, avendo ricevuto replicati scarichi nell’atto che fuggivo; si disperse pure la mia famiglia, e tutto il Paese fuggì; né i Padri sapevano dove erano i figli, le mogli i Mariti, i fratelli le sorelle; tutto diventò pianto, e confusione. Intanto la Truppa giustamente irritata da pochi birboni della Vallata, che presero le armi, potete figurarvi in quattro giorni e notti di sacco continuamente, che poté fare. Nessun ceto di persone, né Monasteri, né Tempii, furono eccettuati. Finalmente assicurati tutti per mezzo di manifesti, di essere lo sdegno finito, mi ritirai il dì 14 in Piedimonte dopo avere, Dio sà che sofferto, ramingo per le montagne piene di neve e temporali terribili. Trovai la mia casa spogliata. La Tinta scassata... il Purgolo scassato... Li trappeti detti del Duca, Nuovo, e S. Rocco, anche scassati; nel trappeto del Duca scassato il Camerino dove era l’olio di quest’anno... Le chiavi della Dogana se le aveva prese la truppa con forza da mia moglie... La Municipalità mi costrinse darli conto di tutto ciò che era rimasto in Dogana, ed all’ingrosso rivelai tom. duecento di farina di grano, tom. cinquecento di granone rosso, e tom. cinquanta di biada, e me ne fecero stipulare un obbligo di esibire d.a robba ad ogni ordine, sotto pena di esecuzione militare, dovendo servire la med.a per uso della Truppa Francese ». Indi il Ragucci fa un notamento di tutta la farina preesistente al saccheggio per concludere che ne mancavano tom. 263.

ESECUZIONI CAPITALI – Durante i moti del gennaio vi furono delle esecuzioni capitali. Una tradizione afferma che queste ammontarono a quattordici. Il Vescovo Di Giacomo in una lettera del 19 maggio 1865 diretta al Ministro dell’Interno a proposito dello smembramento del Distretto di Piedimonte, dice: « Il 99 contò vittime illustri tra cittadini di Piedimonte di Alife, morte per la mano del carnefice per la causa della Libertà... ». Senonché nei registri di morte dei nostri archivi parrocchiali risultano soltanto due esecuzioni nelle persone di Carullo Michelangelo, giustiziato in « platea », e di Macolino Vincenzo, ucciso nella propria bottega, esecuzioni avvenute il giorno 19 gennaio del 1799.

COMBATTIMENTO SUL MATESE – Il 5 giugno di quell’anno avvenne sulle montagne del Matese un combattimento fra repubblicani e realisti. Movendo i primi da Campobasso, capitanati da Nicola neri, che conduceva prigionieri numerosi realisti, cercarono di evitare l’incontro con le truppe del Santilli, appostate nella località Capraro. Ma l’incontro avvenne lo stesso e dopo quattro ore di combattimento i repubblicani riuscirono a sfuggire l’accerchiamento, giungendo la sera in Piedimonte, ove riposarono un giorno, ripartendo, poi, alla volta di Napoli.

CADUTA DELLA REPUBBLICA – Quando la Repubblica fu soffocata nel sangue, in Piedimonte se ne festeggiò la caduta. Lo attesta un’annotazione a pié di un atto di battesimo dell’archivio della Chiesa di A. G. P. Essa dice:

« Siccome nel dì dieci dello scorso Gen. Cor. Anno 1799 venne il popolo della nostra Città funestato pel succeduto fatto di malvagi Francesi, così dopo il corso di mesi cinque di lutto e mestizia pel maledetto abominevole libertinaggio, si cambiò il pianto in allegrezza ed il lutto in riso attesa la controrivoluzione del popolo istesso, ed altro non si sentiva che un continovo Viva Dio ed il nostro Rè, muora il sempre detestabile dominio Francese ».

RIPRISTINO DEI GOVERNANTI MUNICIPALI REALISTI – Negli atti dei Pubblici Parlamenti di Piedimonte, in data 9 giugno 1799, leggiamo:

« Nel mese di Gennaio corrente anno essendo disgraziatamente venute in questo Regno le armi Francesi, ed essendosi piantata la Municipalità, restò abolito l’antico sistema di Governo, ma essendosi nel dì sei del corrente mese mercé il Divino Aiuto realizzata questa Città, e rimesso nell’antico piede il Governo medesimo, questa popolazione per conclamazione avendo eletto due Deputati per regolare l’insurgenza, la spedizione della gente armata a favore delle armi di Sua Maestà, Dio Guardi, e per mantenere il buon ordine in questa sudetta Città, quali sono li mag. D. Gio. Batt. Giorgio e D. Francesco Conte, ha insiemamente fatto premura di procedersi alla nuova elezione dei Governanti dell’Università, nulla tenendosi di quella fatta nel dicembre (1798) ».

Si nominarono, infatti, Giudici e Sindaci D. Giacinto Paterno e D. Nicola Pascale, nonché i primi eletti (assessori). L’atto così prosegue: « Trovandosi ad esercitare da Governatore e Giudice della Corte di questa Città il Dott. Gaetano Lombardi, nel passato mese di Gennaro di questo corrente anno, tempo in cui invasero la Città sudetta le infami armi francesi, dai quali fu espulso, perché il medesimo dimostrò tutto zelo per la giustizia ed il massimo attaccamento per la Real Corona », fu ripristinato nella carica pel resto del 1799 e per l’anno 1800.

UNA VOTAZIONE SIGNIFICATIVA – Senonché nella seduta del Parlamento Municipale del 25 agosto 1799 avendo il Sindaco uscente proposta la scelta del successore nelle persone di D. Gennaro Fiorillo o di D. Pasquale Di Jorio, i cittadini – che non avevano dimenticato Ercole d’Agnese ed i suoi congiunti – si ribellarono gridando « che essi avrebbero escluso qualunque persona che avesse nominato, atteso loro volevano per Giudice e Sindaco successore D. Domenico d’Agnese ». Ed il Paterno « per evitare tumulto annuì, raccogliendo nella bussola il d.o d’Agnese voti affermativi N° 100 e negativo n° 1 ». Con ciò il popolo volle indubbiamente protestare contro il deliberato del 14 luglio precedente, col quale furono nominati due deputati – Dott. D. Vincenzo Mezzala e D. Giov. Battista Giorgio – incaricati di portarsi in Napoli « a prestare giuramento di fedeltà alla Maestà del Sovrano (D.G.) parte di questa popolazione », come dice il documento municipale.

MORTE DI ERCOLE D’AGNESE – Ma la Repubblica cadde, come si è detto, ed Ercole d’Agnese arrestato, rinchiuso nel carcere del « Coccodrillo » in Castelnuovo con Pagano, Cirillo ed altri, si preparò a salire il patibolo. Non sentendosi forte coll’esporsi alla derisione della plebe, trangugiò dell’oppio, per cui la sua esecuzione fu rimandata di qualche giorno. Abbastanza ripigliato, alle ore 8 e mezza del 1° ottobre il nostro concittadino fu portato al patibolo sul quale giunse boccheggiante. Malgrado ciò il boia gli cinse il nodo scorsoio e lo lanciò nel vuoto.

Dopo quella esecuzione la folla non gridò come al solito : « Viva il re! ».

Si era afforcato un uomo già morto!

Tolto dal patibolo, Ercole d’Agnese fu sepolto nella Chiesa di S. Luciella ai Dottori, nell’età di 54 anni, 4 mesi e 27 giorni.

Alla famiglia furono confiscati i beni, e si suoi germani Filippo e Giacinto condannati all’esilio.

VICENDE DEL 1860 – Ci asteniamo dal parlare delle cause che dettero origine alla perdita del trono di Francesco II sia perché note sia perché esulano da questo lavoro ristretto alla storia locale. Diremo soltanto che Piedimonte, come afferma il Petella, era, nella sua grande maggioranza, devota ai Borboni per benefici da questi ricevuti, per l’influenza di Casa Gaetani e del Clero esercitata sul popolo, e per l’indole di quest’ultimo più incline al lavoro che alla vita intellettiva e politica.

Ma l’attuazione del nuovo regime liberale, la cui idea di unità e d’indipendenza nazionale aveva infiammati i patriotti italiani, non poteva non trovar proseliti anche in Piedimonte.

Beniamino Caso

I PRIMI COSPIRATORI – Seguendo sempre il Petella, apprendiamo che Beniamino Caso, da S. Gregorio d’Alife e cittadino di Piedimonte, attratto nell’orbita dei patriotti di Napoli, organizzò qui un Sotto-Comitato distrettuale dell’Ordine, nel quale entrarono Pietro Romagnoli avvocato; Pietro Buontempo, medico; Vincenzo Pitò, possidente; Nicola Torti, avvocato; Giacomo Torti, ingegnere; Damiano Torti, medico; Luigi Pertusio, possidente, già compromesso nei fatti del ’48; Achille Del Giudice, possidente, e Pasquale Petella, notaio. Aderirono al Sotto-Comitato: Del Santo, padre e figlio; Cosimo di Matteo, sacerdote; Luigi Masucci, sacerdote; Gennaro Gismondi, possidente; Gennaro Cassella, possidente; Oronzio Marrocco e figli Giuseppe, Michele e Raffaele.

Al gruppo s’unirono, in seguito, i liberali del Distretto e fuori, formandosi così una falange di cospiratori.

LEGIONE DEL MATESE – I liberali di Formicola – Bonaventura Campagnano e Francesco Rossi – furono gli organizzatori della “Legione del Matese” in Piedimonte, cioè un battaglione garibaldino formato da volontari armati. La “Legione” fu largamente sussidiata dalle famiglie liberali del luogo e del Distretto. Essa iniziò i suoi movimenti fin dal 31 agosto 1860. Partì prima per Ariano, poi entrò in Benevento; indi marciò per Padula, Bonito ed altri paese dell’Avellinese.

Pietro Romagnoli

PROCLAMAZIONE DELLA CADUTA DEL REGIME BORBONICO – La sera del 7 settembre il Sindaco Pietro Romagnoli, convocato il Consesso municipale, nella cui seduta intervennero numerosi cittadini, e udito il parere di tutti, proclamò senz’altro la caduta del regime borbonico, istituendo nella città un Governo municipale provvisorio. Di esso fecero parte: Alfonso Rispoli, Beniamino Caso, Pietro Romagnoli, Achille Del Giudice, Luigi Pertusio, Vincenzo Pitò e Gennaro Cassella.

La notizia dell’entrata di Garibaldi in Napoli, quella della seduta consiliare, e l’abbassarsi degli stemmi borbonici, fecero sì che il popolò trasformò d’un tratto, forse per opportunismo, i suoi antichi sentimenti, schierandosi per il nuovo regime, tanto vero che esso uscì in acclamazioni al termine della seduta decurionale, e fece una dimostrazione che percorse il paese al lume di fiaccole, portando in trionfo i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele.

L’8 settembre il Governo provvisorio emise alcune ordinanze con le quali soppresse i dazi sulla pasta, sulle carni pecorine e sul diritto di posteggio, ed elargì ai poveri centocinquanta ducati.

ARRIVO DELLE TRUPPE BORBONICHE – Mentre questo Governo attendeva ai propri affari, le truppe regie si avvicinarono a Piedimonte, dove, infatti, il 25 pervenne l’avanguardia, e dove già il 20 era giunta la « Legione del Matese », che, per la difesa della città, costrusse a Porta Vallata, al Carmine e al Ponte omonimo alcune barricate.

Prima che le truppe entrassero in paese, la « Legione » e le famiglie liberali si posero in salvo guadagnando i monti del Matese, mentre altri cittadini rimovevano le barricate per non dar idea di resistenza. E perché, poi, Piedimonte venisse salvata dal fuoco delle truppe regie, una Commissione composta da Antonio Gaetani Duca di Laurenzana, dal Conte Raffaele Gaetani, dal Vescovo Gennaro Di Giacomo, Vincenzo, Coppola, G. Giuseppe Ragucci, Antonio Onoratelli ed altri, si portò alla Scafa del Volturno, assicurando le truppe che in Piedimonte non v’era resistenza alcuna.

Il 26 settembre entrò il grosso dell’esercito regio in numero di 6000 fanti e 400 soldati di cavalleria con 4 cannoni (che furono puntati contro i palazzi Caso e del Giudice), accolto festosamente dalla popolazione che quattordici giorni innanzi aveva inneggiato a Casa Savoia.

Le truppe borboniche, ristabilito l’antico stato di cose, ripartirono da Piedimonte.

La « Legione del Matese » aveva intanto compiuto prodigi di valore nelle memorande giornate del 1° e 2 ottobre alla battaglia del Volturno e altrove. Rientrò, poi, in Piedimonte in missione d’ordine, e si sciolse l’8 marzo 1861.

COMPONENTI DELLA LEGIONE DEL MATESE – I cittadini che vi avevano preso parte, secondo le indagini del Petella furono: Altieri Raffaele, Altobelli Pietro, Azza Giuseppe, Balsamo Giuseppe, Balsamo Luigi, Barbato Raffaele, Buontempo Giuseppe, Capone Ottavio, Cappella Pasquale, Caruso Vincenzo, Cassella Pasquale, D’Amico Michele, D’Amico Raffaele, De Biase Pasquale, De Biase Raffaele, De Lisi Felice Antonio, De Luca Pasquale, Di Matteo Cosimo, D’Orsi Vincenzo, Fontanella Raffaele, Fragola Federico, Fragola Raffaele, Francese Luigi, Francese Salvatore, Gagliardi Giovanni, Galeno Salvatore, Gallino Ignazio, Gardon Giovanni, Gasbara Filippo, Gaudio Luigi, Gaudio Samuele, Giordano Giuseppe, Giordano Pasquale, Giordano Pietro, Giordano Raffaele, Giorgini Antonio, Girardi Marcellino, Giuliano Vincenzo, Giuseppe Pasquale, Grande Samuele, Gravante Lorenzo, Grifo Leonardo, Grillo Adamo, Iannotta Giuseppe, Iasalvatore Vincenzo, Imondi Angelo, Mandaro Lorenzo, Manzi Michele, Marchitti Pasquale, Marappese Salvatore, Marappese Silvestro, Marrocco Oronzio, Marrocco Michele, Marrocco Giuseppe, Marrocco Raffaele, Meola Gaetano, Messere Alfonso, Messere Luigi, Messere Michele, Messere Silvestro, Miglione Luigi, Navarra Giovanni, Orsini Girolamo, Pacelli Giovanni, Pacifico Antonio, Pepe Francesco, Pepe Girolamo, Pingitore Nicola, Pinque Francesco, Pirollo Angelo, Pisanti Francesco, Pisanti Raffaele, Santagata Filippo, Santangelo Raffaele, Santelli Vincenzo, Santillo Nicola, Tartaglia Giuseppe, Terenzio Luigi, Terribile Biagio, Torti Nicola e Toto Gaetano.

BANDIERA DELLA LEGIONE DEL MATESE E LAPIDI COMMEMORATIVE – Il 26 settembre 1909 Piedimonte volle festeggiare con particolare solennità la consegna al Comune della Bandiera della « Legione del Matese », conservata fino allora dalla famiglia Torti, murando le due seguenti lapidi commemorative nella facciata della Casa comunale e del palazzo della famiglia Caso, in piazza Municipio. L’una è in ricordo dei Decurioni che proclamarono nel 1860 la caduta della Dinastia borbonica, l’altra in ricordo di Beniamino Caso per l’opera patriottica da lui compiuta per l’Unità Italiana.

La prima dice:

Nel dì VII settembre MDCCCLX – A Napoli esultante fece eco Piedimonte – Per libero unanime consenso di popolo – Il Corpo Municipale – In nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia – Proclamò dittatore Giuseppe Garibaldi – I Cittadini memori e grati – Nel XLIX anniversario del fausto evento – Vogliono tramandati ai venturi – i nomi di quei benemeriti – Pietro Romagnoli Sindaco – Pasquale Costantino Decurione – Filippo Onoratelli – Gennaro Gismondi – Eduardo Capassino – Pietro Buontempo – Angelo Vastano – Francesco Caso – Pasquale Petella – Nicola Ventriglia – Luigi Greco – Raffaele Imperadore – Vincenzo Coppola – Raffaele Ciminelli – Marcellino Gagliani – Giovanni Poggi – G. Giuseppe d’Amore – Andrea Cerbo – I Membri del Governo provvisorio – Alfonso Rispoli – Beniamino Caso – Pietro Romagnoli – Achille del Giudice – Luigi Pertusio – Vincenzo Pitò Segretario – Gennaro Cassella Pro-Segretario – E vogliono pur ricordati – Mons. Gennaro Di Giacomo Vescovo di Alife – Il Conte Raffale Gaetani di Laurenzana – Il cittadino elvetico Gaspare Egg – Che il XXVI settembre salvarono la città – dagli eccessi della soldatesca regia – Sopravvenuta con seguito di plebe sfrenata – E Nicola Torti – Valoroso Capitano nel la “Legione del Matese” – Che nei mesi funesti della reazione – Vigilò alla tutela dei concittadini – XXVI Settembre MCMIX.

La seconda è del seguente tenore:

Al fatidico grido di Garibaldi – Italia e Vittorio Emanuele – Beniamino Caso – Ardente propugnatore di libertà – Formata qui nel XXV agosto MDCCCLX – La Legione del Matese – Non ristette ma più animoso operò – Fiso lo sguardo a la Patria ideale – Libera unita forte temuta – A Lui che con pochi ma eletti seguaci – Preparò sostenne l’azione concorde – Che pago del fine raggiunto – Nulla chiese per sé tutto dié ad altri – Esempio mirabile di virtù – L’omaggio perenne dei cittadini – Riconoscenti – XXVI Settembre MCMIX.

La gloriosa bandiera della « Legione del Matese », racchiusa in una grande cornice è ora custodita nel Museo Civico.

QUARTA GUERRA D’INDIPENDENZA – COMITATO PRO FAMIGLIE DEI RICHIAMATI – Appena l’Italia entrò nell’immane conflitto europeo, rivendicando terre e popoli nostri, sorse in Piedimonte un Comitato di Mobilitazione Civile col nobile intento di apportare aiuti economici e morali alle famiglie dei richiamati alle armi. Sorsero ancora altre istituzioni per agevolare la popolazione nella difficile ora. Il Patronato Scolastico, presieduto allora dal prof. Angelo Poccia, raccolse in un Ricreatorio gli alunni delle Scuole, specie i figli dei richiamati, fornendo loro refezione e indumenti; il Deputato Teodoro Morisani cedette la sua indennità parlamentare; signore e signorine confezionarono, per conto dell’Amministrazione comunale, indumenti di lana per i soldati in trincea; le Suore della Carità raccolsero anch’esse non pochi bambini; molti profughi di guerra furono cordialmente ospitati... sì che – meno per il deficiente approvvigionamento pel quale sofferse non poco – Piedimonte dette nei quattro anni di guerra un bell’esempio di patriottismo.

FIEREZZA SANNITICA – Come alle notizie di vittorie delle armi italiane così alle comunicazioni di sconfitte, la nostra popolazione, serena e compatta, si mantenne sempre fidente nella vittoria finale. Non un moto, non un segno d’impazienza o d’agitazione se non nel lavoro e nella produzione. Giovani e vecchie contadine, col pensiero ai propri cari nelle insanguinate trincee, lavoravano nei campi con lena ed energia impareggiabili, e furono ammirevoli, perché, sole e senza guida, seppero trarre dalla terra quanto bisognasse, in parte, alla popolazione.

ARMISTIZIO – Quattro anni di trepidazioni, di ansie, di lutti e di gioie, passarono così in una nervosa alternativa. Il 4 novembre 1918 – epoca dell’armistizio – tutta l’anima di Piedimonte vibrava, commossa, in Piazza Municipio, al suono degli inni patriottici frammisti alle acclamazioni pei trionfatori. Fu un’ora di spasmodiche esplosioni di pianto e di gioia insieme, e quell’ora parve un secolo.

POESIA EROICA – Come tanti fiori recisi, caddero – nei quattro lunghi anni di carneficina – numerosi concittadini che scrissero la loro meravigliosa epopea in una sublime eroica poesia. Questi giovani furono:

Aquilio Beniamino fu Marcellino, soldato – Aquilio Antonio di Angelo, soldato – Bernini Giacomo d’ignoti, soldato – Bettino Pasquale di Vincenzo, soldato – Caprarelli Antonio fu Gennaro, soldato – Carpentino Vincenzo fu Nicola, soldato – Cassella Vittorio di Marcellino, soldato – Civitillo Vincenzo di Michelangelo, soldato nell’Esercito americano – Civitillo Vincenzo di Raffaele, soldato nell’Esercito americano – Civitillo Domenico fu Ferdinando, soldato – Coronati Raffaele di Federico, soldato – Crispino Michele di Giov. Giuseppe, soldato – Crispino Antonio di Giov. Giuseppe, soldato – Cristillo Fiorentino fu Pasquale, soldato – De Cesare Andrea di Casimiro, soldato – De Cesare Antonio Attilio di Casimiro, Tenente – De Filippo Giuseppe fu Michele, soldato – De Luise Alfonso fu Michele, soldato – Del Giglio Nicola d’ignoti, soldato – De Marco Domenico di G. Giuseppe, soldato – Desiderio Antonio di Domenico, soldato – D’Onofrio Mariano di Pasquale, soldato – Fantini Gaspare fu Gaetano, soldato – Farina Giovanni di Giuseppe, caporale – Fatone Raffaele di Luigi, soldato – Federico Salvatore di Alfonso, soldato – Fochetti Almerindo di Lorenzo, soldato – Fortiguerra Pietro di Angelo, soldato – Gagliardi Antonio di Giuseppe, soldato – Guglietti Carlo di Vincenzo, caporal maggiore – Imperatore Alessandro fu Giuseppe, soldato – Leggiero Bartolomeo fu Andrea, soldato – Magaldi Umberto di Vito, Tenente – Marchitto Luigi di Francesco, soldato – Mastrangelo Marcellino di Vincenzo, soldato – Mastrangelo Pasquale fu Antonio, soldato – Mastrangelo Vincenzo fu Francesco, soldato – Mastrillo Michelangelo fu Giuseppe, soldato – Milone Marcellino fu Gaetano, soldato – Mastrobuono Francesco di Pietro, soldato – Olivella Pietro di Francesco, soldato – Palmieri Giacinto di Enrico, soldato – Pascale Luigi di Vincenzo, Sottotenente – Paterno Ferdinando di Luigi, soldato – Pecoraro Felice fu Vincenzo, soldato – Perrotta Michele di Giuseppe, soldato – Rapa Antonio di Giuseppe, soldato – Raucci Giovanni di Raffaele, soldato – Riccio Michele di Angelo, soldato nell’Esercito americano – Riselli Salvatore di Salvatore, soldato – Sacco Gennaro di Domenico, soldato – Salerno Beniamino di Giovanni, soldato – Salomone Giacomo fu Angelo, soldato – Sasso Amedeo fu Saverio, caporale – Santagata Pasquale fu Marcellino, soldato – Santagata Pietro fu Nicola, caporale – Settembrini Giovanni Vincenzo fu Gaetano, soldato – Settembrini Francesco di Giuseppe, soldato – Spinosa Giovanni di Domenico, caporal maggiore – Sposato Vincenzo di G. Battista, soldato – Tartaglia Adolfo fu Raffaele, soldato – Torti Guglielmo fu Nicola, Capitano – Vetere Luigi di Antonio, soldato – Vetere Giuseppe di Antonio, soldato – Vernizzi Umberto di Vincenzo, Sottotenente – Zappoli Giovanni fu Antonio, soldato – Zappoli Francesco fu Antonio, soldato.

Capitano GUGLIELMO TORTI

Ad essi vanno aggiunti i cittadini di elezione: Antonucci G. Vincenzo di Francesco, soldato – Bergantino Sisto di Donato, soldato – Borrega Pasquale fu Domenico, soldato – D’Antonio Giuseppe fu Francesco, sergente – Di Baia Nicola di Giovanni, tenente medico – Di Lillo Giuseppe di Michelangelo, soldato – Fetta Sistantonio di Vincenzo, soldato – Fongellino Donato fu Giuseppe, soldato – Gaetani Alfredo di Alfonso, Tenente – Leonetti Ernesto di Carlo, soldato – Luciani Girolamo di Antonio, soldato – Melone Pietro di Ferdinando, soldato – Paradiso Sebastiano di Michele, soldato, Paterno Vincenzo di Giacinto, caporale – Raviele Michele di Andrea, soldato – Riccio Pasquale di Michele, soldato – Riccio Pasquale fu Salvatore, soldato – Sasso Nicola di Gabriele, Soldato – Tamasi Oliviero fu Nicola, soldato – Tedesco Raffaele di Salvatore, soldato – Valli Domenico fu Gennaro, soldato.

MONUMENTO AI CADUTI – Di questi gloriosi giovani il paese ha voluto eternare la memoria elevando in loro onore un Monumento.

Fin dal maggio 1919 il Consiglio comunale aveva deliberato una lapide coi nomi dei Caduti; ma il Comitato, all’uopo nominato, stimò invece erigersi un monumento, promuovendo, all’uopo, delle pubbliche sottoscrizioni per la raccolta dei fondi necessari, che pervennero anche da concittadini residenti nelle Americhe.

Tra i progetti presentati fu scelto quello dello scultore Ennio tomai di Napoli.

Monumento ai caduti

Il monumento, collocato in piazza Valpaterno o Cavallerizzo, è alto metri 7,50. Rappresenta una grande stele romana, nella cui somità è collocata la statua, in bronzo, poco più del naturale, raffigurante il « Fante » con elmetto, dal petto nudo, con nella sinistra una fiaccola e nella destra il moschetto. Il fante è in atto di scavalcare la propria trincea per slanciarsi contro il nemico. L’atteggiamento della figura, la sua maschia e vigorosa espressione, la rudezza delle linee e delle contrazioni muscolari, nelle quali si nota un perfetto studio anatomico, manifestano potentemente i movimenti tumultuanti dell’anima e del corpo nel supremo e disperato istante della difesa e dell’attacco contro il nemico.

Questa statua, assai indovinata nella tecnica, nelle proporzioni e nella sua palpitante espressione realistica, ben manifesta il sentimento patriottico di cui diedero prova tangibile i nostri Piedimontesi durante l’immane conflitto. I nomi dei Caduti ai lati della stele, e il motto

NVNQVAM

ESTINQVATUR

FLAMMA

inciso in alto alla stessa, sono un monito perenne per le future generazioni.

BRIGANTAGGIO – Sin dall’alba del Sec. XIX si ebbero bande di briganti nel territorio di Piedimonte, una ripetizione, forse, delle famose compagnie di Fra Diavolo e di Chiavone, di cui sono piene le cronache di quei tempi. Dagli atti decurionali del 1807 si rileva che il Municipio per rifarsi delle spese sostenute negli anni precedenti per equipaggiare la truppa venuta per le incursioni contro le bande, contrasse un debito di 300 ducati. La truppa era comandata dal Colonnello Pignatelli prima, e poi dal Colonnello Mari.

NOMI DI BRIGANTI – Nel Distretto di Piedimonte, da principî dell’800 fino al 1816, terrorizzavano queste bande di cui facevano parte tra gli altri: Sebastiano Ferrante, Luigi Maddaloni, Filippo di Leva, Domenico Scala (per costoro ci fu la taglia di 500 ducati), Arcangelo Confreda, Giovanni Civitillo, Otavio Chiarizia, Arcangelo Girardi, Francesco Barbato, Pietro Fusco, Pietro Lo Sapio, Stefano Gravina, Giovanni Ciaburro, Gioacchino Scaramuzzi, Filippo Benedetti, Domenico Mastrobuoni, e Giovanni Pacelli, dei quali alcuni soltanto erano nativi di Piedimonte.

Altre sporadiche gesta si susseguirono dopo il 1816, e i paese ritornarono in una relativa tranquillità.

BRIGANTAGGIO DEL 1856 – In quest’epoca venne catturato il famoso brigante Angelo di Muccio di Piedimonte, capo della banda omonima. Col Di Muccio venne catturata parte della comitiva. Leonardo Montedoro – che coi mezzi di polizia era stato impegnato all’arresto dei briganti Mezzullo e Caruso, compagni del Di Muccio – ebbe la commutazione in dieci anni di relegazione dei venticinque cui era stato condannato in contumacia dalla Gran Corte Criminale della Capitanata.

BRIGANTAGGIO DAL 1860 AL 1865 – Le più temibili bande di briganti furono quelle che terrorizzarono dal 1860 al 1865 gran parte della Provincia, e denominate, dai nomi dei loro capi: Fuoco, Guerra, Santaniello, Campagna, De Lellis, Albanese, Farano, Sartore, Ciccone e Giordano. Alcune di esse avevano ramificazioni nel distretto di Piedimonte. L’ultima fu più attiva nelle campagne di Cerreto. Aggregati alle suddette bande erano, tra gli altri, i seguenti: Pietro Ferri, Silverio d’Andrea, Silverio d’Orsi, Domenico Ferritto, Giuseppe Cassella, Cosimo tino, Generoso d’Errico, Michelangelo Materazzo, Baldassarre Granitto, Giovanni Cunti, Antonio Mastrobuono, Angelo del Zambro, Nicola Pietrangelillo, Iannace, Civitillo, ed Aurecchia. Tra costoro alcuni erano Piedimontesi.

Brigante Santaniello

Il Brigante FUOCO sgozzato

Briganti GIORDANO (1) e GUERRA (2)

Brigantessa “PADOVELLA”

Un tipo singolare di brigante fu Maria Maddalena De Lellis, nata in S. Gregorio d’Alife l’8 Agosto 1835. Era agnominata « Padovella », e sembra sia stata l’amante di Fuoco. Catturata dopo che fu colpita all’inguine da un proiettile durante un conflitto, venne processata nel 1868 e condannata ai lavori forzati a vita. Liberata, dopo espiata la pena di 30 anni, ritornò in S. Gregorio dandosi ad una vita di fervore religioso. Morì il 7 marzo 1908.

Le gesta di queste bande fecero eco in tutto il Regno. Dal 1860 al 1864 furono rubati più di 8000 capi di bestiame minuto. Vi furono violenti sequestri di persone, assalti di paesi, mutilazioni feroci alle persone catturate, i cui membri recisi venivano inviati alle rispettive famiglie quando non sborsavano le somme richieste per il riscatto.

CARLO DI BORBONE IN PIEDIMONTE – Della venuta di Carlo di Borbone in Piedimonte ci parla diffusamente il nostro Trutta. Egli così scrive: « Del passaggio poi per Alife e Piedimonte delle vittoriose armi di Spagna, comandate dal Reale Serenissimo Infante D. Carlo Borbone, proclamato indi a poco nostro Sovrano, ed ora delle Spagne tutte Monarca, e Padre di sua Maestà Ferdinando IV, nostro amorosissimo ed amabilissimo Signore, chi è che non si ricordi di noi, come di cosa avvenuta sotto i nostri occhi nel 1734? Il martedì, dunque, sesto giorno di aprile dell’anno anzidetto, essendo di buon’ora sloggiata la Vangardia, guidata dal Duca di Castropignano, dalla nostra pianura, dove era giunta il giorno antecedente, e vi avea riposato la notte, andando alla Terra degli Amorosi, v’incominciò ad arrivare il grosso dell’Esercito, che si accampò sulla strada dei Pioppi e sul margine del fiumicello Torano fra Piedimonte ed Alife, dove giunto l’Infante vi pranzò, e poi sull’ora di mezzo giorno capitò in Piedimonte, e vi riposò la notte, dopo aver in pubblico cenato, e tenuto immediatamente Consiglio di guerra, in cui sulla notizia che gli Eletti della Fedelissima città di Napoli, congiunti a’ Deputati delle grazie e capitoli, sarebbero in fretta venuti a fare l’omaggio in Mataloni, fu risoluto di doversi partire con l’esercito il giorno seguente per gli Amorosi, come fu fatto, partendo ben contento sulle ore sei della mattina, o sieno le undici d’Italia, e ciò per le acclamazioni giulive e ricevimento festoso, che gli erano state fatte in Piedimonte ed Alife ».

Carlo di Borbone fu ospite di Casa Gaetani, nel cui palazzo tenne il consiglio di guerra di cui scrive il Trutta, e il 15 Maggio successivo ebbe dal padre, Filippo V la facoltà di proclamarsi Re delle Due Sicilie. Il 3 luglio, infine, fu solennemente incoronato in Palermo.

UNA VISITA DI FERDINANDO II – Nel 1841, e propriamente il 17 aprile, giunse a Piedimonte Ferdinando II, accolto festosamente dalla popolazione. Fu ospite di Casa Gaetani. Visitò, per prima, la Chiesa di S. Maria Maggiore, abbellita da paramenti e festoni in occasione del Triduo festivo di S. Giovan Giuseppe della Croce, ove ricevette la particolare benedizione.

Ammirò la sorgente del Torano; visitò la città che – secondo una notizia conservata nell’Archivio della Chiesa in parola – chiamò « tre volte bella ». Visitò anche il Cotonificio Egg, di cui ammirò le tele che vi si fabbricavano. Ricevette tutte le Autorità del luogo e il Sindaco del tempo, il quale – richiesto di qualche grazia per il paese – supplicò il Re di accordare l’onore che la Porta Vallata venisse chiamata « Porta Ferdinandea »!... Ferdinando, con un sorriso significativo, rispose in pretto napoletano: « Chiàmmala comme c... vuo’ tu »! Frase, questa rimasta famosa negli annali piedimontese e che i nostri vecchi ci hanno tramandata. Il nome di « Porta Ferdinandea » venne però soppresso con la caduta del regime borbonico.

LA GUARDIA D’ONORE DEL RE – In esecuzione di un Decreto di Ferdinando II del 30 maggio 1833 si formarono nelle Provincie del Regno speciali squadroni di Guardie d’onore del Re, adibite alla vigilanza del sovrano quelle volte che si recava in determinati paesi. La scelta veniva fatta tra le persone più devote alla Corona, di età non inferiore agli anni diciassette né superiore ai quaranta, munite però di proprio cavallo da sella.

Le Guardie d’onore venivano dispensate dalla leva militare. Tra esse figurarono i seguenti cittadini nell’anno 1835: Torti Pasquale, Costantini Pietro Filippo, Coppola Vincenzo, Costantini Pasquale, Coppola Nicola, Poggi Giovanni, Messere Pietrantonio, Pascale Domenicantonio, Guglietti Pasquale, Merolla Gennaro, Mattei Antonio, d’Agnese Sebastiano, Pertusio Luigi, Imperadore Arcangelo, d’Amore Giovan Giuseppe, d’Amore Gabriele, Iannitelli Pasquale, Onoratelli Antonio e Gismondi Raffaele.

Nel 1843 venne nominato, motu proprio del Re, Torti Giuseppe di anni 13, con obbligo del servizio entrando nel 17° anno d’età.

Nel 1845 figurarono i seguenti: Pascale Francesco, Golini Marcellino, e Ventriglia Francesco. Il Sig. Luigi Pertusio, sergente, venne congedato con Rescritto del 9 gennaio 1850, e Pascale Francesco promosso a caposala dello Squadrone nel 1851.

Dopo tale epoca non rintracciamo più notizie di altri cittadini che avessero fatto parte delle Guardie del Re.

LA GUARDIA NAZIONALE – Si costituì in Piedimonte, come in altri capoluoghi, una prima volta nel 1848, e fu preposta al servizio di sicurezza.

Dopo i rivolgimenti politici del ’60 venne riformata e riordinata su nuove basi e con elementi che avevano propugnata la caduta dei Borboni.

Nel 1861 si formò un battaglione composto di quattro compagnie. I componenti prestavano servizio dopo avere accudito alle ordinarie occupazioni, e si raccoglievano in determinati orari e a seconda gli ordini emanati dal Comando.

Dal 1861 al 1866 il battaglione contò 123 militi nella 1° Compagnia, 131 nella 2°, 128 nella 3°, e 127 nella 4°.

Tutti i militi erano armati di fucili a ripercussione. Nel 1876, quando questa milizia cittadina era divenuta un ricordo storico, vennero ritirate le armi e trasmesse al deposito governativo di Capua.

Quei militi, invero, avevano molto sperato in un eterno carnevale politico e nella gratitudine del Governo, ma grande fu la loro delusione quando – dopo un’elargizione di onorificenze ai capi – furono premiati con un platonico ben servito.

Tra essi, meno rare eccezioni, vi furono molti che commisero non pochi abusi, violenze e vendette, per nulla rispettando età, condizioni sociali e libertà di pensiero.

L’INQUISIZIONE IN PIEDIMONTE – LA SCOMUNICA CONTRO ALFONSO II GAETANI E NUMEROSI CITTADINI – Funzionava in Piedimonte la Corte Vescovile o Tribunale del Sant’Uffizio per giudicare le cause riflettenti questioni ecclesiastiche, e non poche furono le scomuniche emanate, le condanne di eresia e le carcerazioni eseguite; come non pochi furono i conflitti per questioni di competenza tra la stessa Corte e quella secolare o civile.

Un documento del Sec. XVII – che comprova l’esistenza dell’Inquisizione in Piedimonte – ci parla appunto di un conflitto, per questioni di giurisdizione, tra le stesse Corti, e la condanna alla scomunica di Alfonso II Gaetani Duca di Laurenzana e di numerosi nostri concittadini.

Vale la pena conoscere questo interessante documento, che è, poi, un atto di accusa contro il Vescovo del tempo, Girolamo Zambeccari, che governò la Diocesi dal 1625 al 1633. Sembra, azi, che i seguito a tal atto, Urbano VIII trasferisse il Vescovo a Minervino (Bari), anche per mitigare gli animi esasperati dei Piedimontesi.

« 1°. L’anno passato » (1632) – dice il documento – il Vescovo Girolamo Zambeccari « scomunicò in pubblica piazza (Piazza del Mercato), vestito Ponteficalm.te, con far sonare le campane all’armi, il S.r Duca di Laurenzana, perché fece carcerare il suo mastro d’atti Laico, et accosato, che haveva fatto molti delitti, et anchorché. La Vic.a fece causa remaneat, lo tenne sei mesi scomunicato, mai lo volle assolvere sin a tanto che se li restituì il carcerato come costa, et uno sbirro che carcerò il suo sudetto Mastro d’atti che morì mentre durava detta controversia lo fece seppellire in campagna come costa.

2. Non vuole che li Preiti delinquenti si possano carcerare dalla Corte secolare, anchorché li portino directo tramite alle carcere sue come costa dal suo editto, e perciò tutti vanno armati e quasi tutti li delitti si commettono dalli Preiti, e di notte.

3. Have ordinato tanti Clerici che giò sono nella terra di Piedimonte ducentotrentanove Preiti come costa, et have haugumentato, in poco tempo cinquantotto clerici più di quelli che erano sotto il Vescovo passato come costa, et ogni dì ne va ordinando et in una casa la più ricca di Piedimonte dove erano tre soli fratelli de quali due n’erano Preiti, esso have ordinato il terzo fratello et ha fatto tutta quella casa esente dalli pagamenti con gran danno dell’Università come costa.

4. Travaglia continuam.te i Gabellotti con ingiuriarli, scomunicarli e forzarli a dar ai Preiti tutta la franchitia che vogliono e tutto lo fa perché voleva che l’Università affittasse ad esso le gabelle a prezzo molto basso come costa dall’offerta che lui fece di dette gabelle la quale sì bene stà fatta in nome di M.ro Berardino Ferruccio il Vec.o li pose per pleggio. M.ro Ber.no dichiara che il Vescovo era quello che voleva affittare dette gabelle e che lui non ne sapeva cosa alcuna.

5. Per sollevare il popolo contro i padroni (feudatari) ha fatto un’editto nel q.le comanda che ogni dì i Preiti si ragunino à recitare le letanie, et altre orationi per l’oppressione de Preiti e de poveri, che si fanno in Piedimonte come costa, prohibendo che di lunedì giorno di festa non si faccia mercato.

6. Per affamare la terra di Piedimonte have ordinat’ un Editto come costa, che le Molina ad acqua non possono macinare le feste contro il costume di tutta Italia.

7. L’anno passato fece ordinare alli gabelloti della farina che non pagassero senz’ordine suo trecento ducati a Giulio Barone et... Maresca che lor dovevano dare assignatarij de fiscali come costa.

8. Fece ordine l’anno passato ai gabelloti della farina che pagassero al clero trecento ducati come costa dal suo editto perché essendosi l’Università accordata con il clero per le franchitie pretendeva che il clero in detto accordo havesse donato all’Uni. e lui vuole che detto accordo non sia valido.

9. Essendosi l’anno passato mutato modo di vivere in Piedimonte è come vivevano p. gabelle si cominciò a vivere p. Collette havendosi p.ma impetrato l’assenso Regio, dichiarò scomunicati tutti quelli che sin aquel tempo havevano esatto le Collette et l’hor proibì sotto pena di scomunica, che per l’havenire non l’essigessero come costa dal suo editto, di più citò sotto pena di scomunica che comparissero avanti di lui q.elli che erano stati deputati dal Sig. Re.te Coppio, a far la tassa delle Collette, non havendo l’Università catasto formato perché pretendeva esso far detta tassa come costa, e finalmente scomunicò tutti i Deputati ché havevano fatto detta tassa che erano tredici i migliori Cittadini di Piedimonte, come costa, et essendo questi andati a ritrovare il Vicario per appellare il vescovo li viddi dalla finestra sua, et li cominciò ad ingiuriare et si fece vedere alla finestra con due pistole, un’Archibuggio et un’archibugietto dicendo che l’or voleva tirar archibugiate, chiamandoli heretici, come costa, né mai volle assolvere detti scomunicat se non li pagava l’Università D. 300 cioè D. 200 per donativo e D. 108 come lui diceva per impronto, mai gli ha restituiti, come costa dall’editto dell’Università dell’anno passato.

10. Non vuole che si faccia esecutione in casa de seculari dove vi e Prete, ne vuole che la corte vi vada a far le deligentie per cose criminali, et ultimam.te havendo, mandato il S.r Duca di Laurenzana, a far esecutione in casa di un laico dov’era un Prete il vescovo citò il Duca, è tutti quei che andarono a far detta esecutione come costa, et anchorche fossero state restituite dette robbe essecute dechiarò scomunicati di scomunica Papale gli sbirri che fecero detta esecutione come costa, et anchor stanno scomunicati.

11. Non contento di tanti Preiti che sono in Piedim.te have incominciato a fare clerici coniugati, cosa che mai si è usato in Piedim.te è già ne ha fatti dui come costa dove si porta la Bulla d’una, la Bulla dell’altro Prete non si è potuta havere, et uno di q.sti era inquisito di molti delitti nella corte secolare, et have fatto ordine sotto pena di scomunica che scarceri la moglie è figlia d’un coniugato.

12. Cita tutti i governadori che non stanno bene con lui per cose di q.to officio, così fece col gov.e passato quando venne in Napoli a dar Carte al Collaterale delle cose pregiudiziali alla giurisdizione che faceva il Vescovo come costa, et cossì anchora ha fatto con il presente Gov.e che essendo ultimamente venuto a Napoli a lamentarsi del Vescovo in Collaterale lui lo citò a 23 di Ottobre per cose di S.to Officio come costa, per listessa causa lo citò di nuovo a 23 di 9bre, a 24 di 9bre lo citò di nuovo un’altra volta, a 26 9bre citò a dire perché non doveva esser dechiarato ribelle de S.to Officio. Il Gov.re comparve et perché il suo Vicario gli ordinò che andasse carcerato, e lui rispose che non poteva andar carcerato senz’ordine del Viceré e Collaterale, a 26 di 9bre lo dichiarò scomunicato è ribelle di S.to Officio con dichiara nel cedulone che lo scomunicava perche haveva detto voler venire al Viceré e... a 30 9bre suspendé la scomunica.

Per impiastrare q.llo che malam.te haveva fatto, listesso fece con Not.re Antonio Cuerdica che haveva fatto alcune scritture in difesa del Gov.re, di più ai 25 di 9bre citò il Coadiutore della Corte per cose spettanti a S.to Officio, a 26 di 9bre citò uno sbirro della Corte per cose pertinenti al S.to Officio, a 24 9bre citò il carceriere p. cose pertinenti al S.to Officio, et insomma perche Mons.re stava male con la Corte di Piedim.te ha posto al Santo Officio tutti gli huomini della Corte.

13. Vuole giudicare i casi misti come costa, anzi essendo stato inquisito Gio. Silvestro Cammaretta d’usura, et assoluto dalla Corte secolare, doppò tale assolutizone fù citato da Ves.o è volse lui riconoscerlo.

14. Perche ricoglie molto grano dal Vescovado, vuole che il Gabelloto della farina, sel compri a tre carlini più il tomolo di q.llo vale, altrim.te dà libertà ai Preti che si piglino quanta franchitia vogliono.

Ultimam.te il Vicario p. occasione che una famiglia della Corte haveva carcerato Batta patierno il quale poi se ne fuggì, detto vicario fece uscire suoi preiti scapetelli a carcerare la famiglia, et la fece carcerare con effetto nelle carcere vescovale per essere lo patierno Cognagno del Fiscale di detta Corte Vescovale ».

Il conflitto ebbe finalmente termine col trasferimento del Vescovo alla sede di Minervino nell’anno 1633, come abbiamo già detto.

INONDAZIONE DEL 1581 – Riferisce il Summonte che Piedimonte e paesi limitrofi soggiacquero il 1° ottobre dell’anno 1581 ad una violentissima inondazione. Dice, poi, che in quella luttuosa circostanza « morirono da 400 persone e quelli che restarono vivi, stavano tanto spaventati, che quasi erano mezzi morti, facendo ogni giorno processioni, prediche, orazioni e digiuni, acciò non succedesse peggio...».

La notizia non ci è riuscito controllarla per non aver rinvenuto scritture del tempo. Dessa però ci sembra esagerata nel numero delle vittime riportato.

L’inondazione si verificò perché in quei tempi, come in epoche successive, le gole dei nostri monti non avevano briglie di riparo atte a diminuire la violenza delle piogge torrenziali.

INONDAZIONE DEL 1728 – Da una ottava rima composta dal Not. Alessandro di Franza di Dragoni, rileviamo la notizia di un’altra inondazione avvenuta nel settembre dell’anno 1728. Niccolò Giovo, napoletano, in una sua egloga pubblicata nell’Accademia del Caprario descrive anch’egli questa inondazione.

Da entrambe le pubblicazioni e da altre notizie rinvenute negli archivi locali rileviamo che alle ore 22 del 26 settembre 1728, in giorno di domenica, il torrente Valpaterno straripò, e le acque, trascinando macigni e tronchi d’alberi, raggiunsero l’altezza di palmi quattordici. Il Torano, anch’esso straripando, rovinò la Ramiera di via Sorgente e danneggiò l’Ospizio dei PP. AA. e la Chiesa del Carmine, nella piazza omonima.

INONDAZIONE DEL 1778 – Il 20 novembre 1778, alle ore 11, si verificò una terza inondazione che apportò gravissimi danni al quartiere Vallata, dove le acque, trascinando pietrame e tronchi d’alberi, penetrarono nelle case. La Chiesa del Carmine subì i maggiori danni vendo le acque sorpassata l’altezza degli altari. Anche il torrente Rivo straripò contemporaneamente, aumentando la generale desolazione. Si ebbero non poche vittime. La violenza delle acque, anzi fu tale che il cadavere di certa Ramira Iaculio fu rinvenuto nella località Pezzalonga, in tenimento alifano.

INONDAZIONE DEL 1841 – Una quarta inondazione si scatenò su Piedimonte il 23 settembre 1841. Strariparono il Torano, e i torrenti Rivo e Valpaterno contemporanemente, dopo un violentissimo temporale notturno. Le acque salirono all’altezza di 18 palmi, per cui gli abitanti ripararono sui tetti. Le acque avevano rotti gli argini attorno alla città, ed il materiale veniva trascinato nelle vie con fragore assordante. Tutti gli opifici subirono danni notevoli, e molte case precipitarono. Le vittime furono diciassette. I vigneti e le coltivazioni andarono distrutti. Le acque, penetrando nelle Chiese, asportarono gran parte degli arredi sacri, compresa la statua della Madonna del Carmelo. Per la rottura degli acquedotti la popolazione rimase assetata, e per attingere l’acqua, si portava in Via Petrara, ad un pozzo della casa Ciminelli.

I fondi della Cassa Distrettuale furono, d’ordine superiore, posti a disposizione delle autorità locali per i più urgenti bisogni della popolazione. Per le opere di bonifica si ebbe il Rescritto del 28 giugno 1842 che approvava le spese nella somma di D. 55700, di cui metà a carico della Tesoreria Generale a titolo di sovvenzione. Con successivo Rescritto, reso per voti del Consiglio Distrettuale emessi nel 1844, fu stabilito che della residuale metà della spesa di bonifica, due terzi sarebbero gravati sui fondi provinciali ed un terzo ratizzato a fine dei lavori tra i proprietari degli stabilimenti, lavori già iniziati nel 1843.

INONDAZIONE DEL 1857 – L’ultima inondazione di Piedimonte si ebbe il 13 settembre del 1857, apportando lutto e miseria. Le gole delle nostre montagne prive di opere di difesa atte ad arginare le acque torrenziali nella loro precipitosa violenza, resero assai disastrosa questa inondazione, anche perché i grossi macigni precipitati a valle e trasportati dalla corrente sin dentro l’abitato, unitamente a terriccio e tronchi d’alberi, ostruirono non solo i canali e i pubblici recessi, ma finanche i ponti di Via Sorgente, San Rocco, Rivo, Carmine e Cavallerizzo. Il Torano ed il Maretto, straripando a loro volta, completarono l’opera distruggitrice. « Le acque raggiunsero un’altezza di 18 palmi » - dice una deliberazione decurionale del tempo – facendo crollare alcune abitazioni, asportando nella corsa masserizie e provviste depositate nelle cantine. Basti dire che nella luttuosa circostanza perirono 43 cittadini, in maggior parte vecchi e fanciulli. I danni furono valutati da una Commissione governativa in Duc. 200,000, pari a L. 854,250,00.

Le opere di salvataggio furono di un’abnegazione senza pari e durarono parecchi giorni. Si distinsero, in verità, nella circostanza, i signori: Luigi Pertusio, Raffaele Buiani, Giuseppe Caso, Giacomo Torti, Francesco Caso, Damiano Torti, Luigi Pitò, Nicola Torti, Pietro Romagnoli, Nicola Coppola, Giuseppe Cassella, Vincenzo del Vecchio, Vincenzo Pitò, Vincenzo Amodio, Francesco Cassella, Pietro Buontempo, Gennaro Gismondi, il Sindaco Raffaele Ciminelli, Marcellino Gagliani, Giov. Giuseppe d’Amore, Marcellino Porcelli, Angelo Vastano, Pietrantonio Borghi, Luigi Cassella, Giov. Battista Scorciarini, Angelo Di Renzo, Gioacchino Falciani e il Vescovo Gennaro Di Giacomo.

La lavorazione negli opifici si arrestò per parecchio e così quella di ogni industria. La popolazione rimase affamata, per cui giunsero opportuni i fondi di una sottoscrizione in Duc. 609, e quelli delle autorità governative. L’amministrazione comunale esplicò tutta la sua efficace attività per lenire, in parte, la miseria cittadina, e il Re Ferdinando elargì Duc. 2000, dei quali 1200 andarono a beneficio dei danneggiati dei Comuni di S. Angelo e Raviscanina, ov’era anche avvenuta una violenta inondazione contemporaneamente a Piedimonte.

In questa circostanza si destò, finalmente, il Governo, sull’interessamento personale del Re, facendo progettare ed eseguire la costruzione di opere difensive dall’Amministrazione delle Bonifiche. Il preventivo dei lavori ascese a duc. 33,000,00 pari a L. 140,250,00 rimborsati per L. 59,248,86 con una tassa netta pagata dal 1859 al 1864 dai Comuni di Piedimonte, Alife e Dragoni.

COLERA DEL 1837 – Dal 30 luglio sino a tutto il mese di agosto del 1837 in Piedimonte infierì il colera importato da Napoli.

I casi, constatati dalla Commissione Sanitaria del tempo, furono 91, con 20 sospetti. Morirono 43 individui e ne guarirono 48.

In tale circostanza il Vescovo Puoti ordinò l’esposizione in pubblico delle statue di S. Marcellino e S. Rocco per quattro mesi consecutivi, e così « Piedimonte – dice una cronaca manoscritta dell’Archivio di S. Maria Maggiore – fu preservata dal terribile morbo ».

COLERA DEL 1854 – In quest’anno Piedimonte soggiacque ad una seconda epidemia colerica, che si sviluppò il 3 agosto e durò fino al 17 novembre. Morirono 9 individui e ne guarirono 8, sopra diciassette casi accertati.

COLERA DEL 1866 – Una terza epidemia colerica si verificò nell’anno 1866. Si ebbero in tutto 15 casi accertati. Morirono 9 individui.

COLERA DEL 1867 – In quest’anno comparve nuovamente il morbo in Piedimonte, ma fortunatamente dei 7 casi accertati nessuno venne seguito da morte.

COLERA DEL 1884 – Malgrado che il morbo infierisse terribilmente in Napoli e venne qui importato da profughi, pochi casi soltanto si verificarono ma nessuno letale.

COLERA DEL 1911 – Un’altra epidemia colerica si ebbe nell’anno 1911. Si accertarono 13 casi di cui 5 seguiti da morte.

VAIUOLO DEL 1918 – Importato da profughi provenienti dai luoghi occupati dall’invasione austriaca, si sviluppò in Piedimonte nell’anno 1918, e propriamente una prima volta dall’8 gennaio al 12 febbraio, ed una seconda dal 23 ottobre al 31 dicembre. Notevoli furono le cure profilattiche per combattere il flagello e notevoli le spese sostenute dal Comune. Durante il primo morbo vi furono 23 casi con 3 decessi; durante il secondo 30 casi con 19 decessi.

EPIDEMIA INFLUENZALE DEL 1918 – Come in tutti i paesi d’Italia anche in Piedimonte infierì l’epidemia influenzale. Dal 27 settembre al 30 novembre 1918 si verificarono 407 casi e morirono 43 persone. Altri casi sporadici si verificarono negli altri mesi dell’anno con pochi decessi.

IL GHETTO EBRAICO – Era situato in una località del rione San Giovanni, tra il « Migliarulo » – dietro la Chiesa di S. Maria Maggiore – e il « Vico Fasocchi » (4° Vico S. Giovanni), e confinava con l’antico quartiere del « Pizzone » che terminava alle « Gradelle » di Via Sorgente. Che il Ghetto fosse ubicato nella cenata località, ce lo confermano alcune notizie lasciate dal Trutta, conservate nell’Archivio della Parrocchia di S. Maria Maggiore. In esse è detto, fra l’altro, che « le mura di Piedimonte camminavano sino alla Porta del Ghetto degli Ebrei, che è un arco molto basso » situato dopo « l’antica Porta del Migliarulo ». Il Ghetto aveva una sola entrata ed una sola uscita, provvedute di due porte, custodite da altrettanti cristiani, chiuse al tramonto e riaperte al levar del sole. Dal tramonto all’alba gli Ebrei non potevano entrare né uscire dal Ghetto. Nella « Settimana Santa », e propriamente negli ultimi giorni di essa, erano obbligati a rimanervi anche nelle ore diurne, tenendo chiusi gli usci e le finestre, e astenendosi da suoni e balli.

Ai Cristiani era proibito di vestire come gli Ebrei, di praticare le loro cerimonie, e di mangiar carni da essi macellate e vendute. Infatti, nei Capitoli e Statuti della Terra, leggiamo in proposito: « Item, che le carni dell’animali che ammazzaranno li giudei (Ebrei), né bucceri né altra persona le possa vendere a Christiani, et alli Christiani sono prohibite le ceremonie et vestigi de li giudei, et chi controfarrà, sia tenuto alla pena de due tarì ».

Sappiamo, poi, che non poche conversioni al cristianesimo si ebbero in Piedimonte. L’ultima si verificò ai tempi del Vescovo Gennaro Di Giacomo.

Tra le famiglie piedimontesi, di origine ebraica – ora estinte – figuravano le seguenti: de Angelillis, de Antonellis, de Benedictis, de Domitiis, de Baronibus, de Filippis, Hellus, de Horatiis, Jacobutiis, de Magistris, de Martinis, de Parrillis, de Santis, ecc.

UN MERAVIGLIOSO SPETTACOLO CELESTE – Tra le meteore enfatiche, che la scienza ricorda, vi sono delle false lune, spesso codate ed iridate, che costeggiano la vera. Esse si distinguono col nome di paraseleni o soli notturni, come le chiamò, per la prima volta, Plinio. Di queste meteore, non facili a riprodursi pel difficile concorso di particolari circostanze, ne apparve una in Piedimonte – ove soltanto venne osservata – la sera del 1° maggio 1817. Ne lasciò ricordo Giovangiacomo Egg, proprietario della Filanda omonima, per averla riprodotta in pittura, la quale, unitamente alla descrizione, fu da lui inviata alla Reale Accademia delle Scienze in Napoli. Il Segretario di questa, prof. Monticelli, corredò la descrizione, presentata poi all’Accademia, adorna di dotte riflessioni, da cui togliamo queste notizie: « Alle 11 della sera la luna apparve adorna di quattro pennelli lucidissimi e disposti a forma di croce. Coronava ad un tempo la luna un cerchio, di color bianco nell’esterno, che insensibilmente perdevasi nell’aria, e di un cupo azzurro nell’interno che man mano si distruggeva nell’oscurità de’ nuvoli posti fra la luna e l’alone. Nello stesso piano orizzontale alla distanza di 30 gradi dalla parte orientale ed occidentale della vera luna apparvero due false lune, imitandola sì bene, che non solo gareggiavano con essa nella vivacità e nello splendore, ma giungevano ancora a far discernere ad occhio nudo le principali macchie del disco lunare. Al vertice infine dell’alone che circondava la luna reale, ne sovrastava un’altro, di cui non poté osservarsi che un piccolo segmento, essendo immerso il resto nelle nubi che ingombravano l’alto cielo. Questo grazioso e raro spettacolo si vide nel suo pieno bello per 35 minuti; indi seguendo il cammino lunare, dopo un’ora ed un quarto scomparve affatto. In quella notte la temperatura dell’atmosfera era piuttosto calda che fredda, e spirava un vento sud-est. L’orizzonte era saturo di vapori trasparenti e nell’alto del cielo la densità delle nubi non rendea visibili che quattro dei nostri pianeti ».

Il prof. Monticelli, dopo questa descrizione, dice di aver notate tre circostanze che singolarizzarono il paraselene in questione, e cioè: 1) l’essere le due corone eguali e non eccentriche, ma l’una perpendicolare all’altra; 2) il non esser disposte in cerchio ed obbliquamente alla vera luna, come sogliono mostrarsi, ma nella stesa linea parallela all’orizzonte; 3) la rara e graziosa disposizione dei quattro belli pennelli luminosi, che dividevano in quattro parti la luna, l’alone ad essa concentrico e lo spazio celeste.

Doppio Paraselene

La sede di questo singolare fenomeno era riposta nella bassa atmosfera, benché scorgevasi proiettato in alto del cielo; altrimenti, non si sarebbe spiegato che osservato in Piedimonte si rese invisibile in altri paesi. Secondo il Fraunhofer, poi, trovandosi nell’atmosfera molti strati di densi vapori vescicolari, separati tra loro da eguali intervalli, non maggiori di un 0,0022 di pollice, i raggi di luce riflessi dalla luna, nel passare per questi intervalli, riflettendosi sui bordi dei globoli vaporosi, ossia infrangendosi, diedero luogo alla genesi del meraviglioso spettacolo. In conformità di ciò il Monticelli dedusse essere coesistenti in quella sera tutte le richieste condizioni che produssero il fenomeno, cioè l’abbondanza di vapori acquosi ed una conveniente temperatura, la quale benché raddolcita nella bassa regione dal tepore del vento sud-est, pure nell’alta atmosfera era tale da condensare ed avvicinare nel modo richiesto i globoli vescicolari. Le nevi, infatti, che allora coprivano tutto il Matese, ne diedero una prova irrefragabile.

MANIFESTAZIONI DI ARTE – GIOACCHINO TOMA – Rievocare, brevemente in queste pagine la figura e l’opera di Gioacchino Toma, non è fuor di proposito se si pensi che l’illustre artista e patriotta fece parte non solo della nostra “Legione del Matese”, ma svolse qui, copiosamente, tuta la sua giovanile attività artistica.

GIOACCHINO TOMA

Il Petella ci narra che il Toma « capitò a Piedimonte a 19 anni, in uno degli ultimi mesi del ’57, con passaporto del Prefetto di polizia; dopo che aveva incominciato a lavorare in Napoli alla parte decorativa negli appartamenti di Corte per le nozze del principe ereditario, e vi rimase confinato a domicilio coatto, come vagabondo e cospiratore per diciotto mesi, ossia fino all’avvicinarsi dell’Esposizione artistica del ’59, che fu aperta in estate. Vi arrivò senza un soldo in tasca e digiuno, ma ne ripartì sotto la garenzia del Duca di Laurenzana, che lo ricondusse con sé in Napoli perché gli facesse il ritratto. Egli era divenuto così familiare anche col conte Gaetani, divertendosi aristocraticamente, grazie alla protezione di Beniamino Caso, il gentiluomo dalla faccia aperta, come lo dipinse nei suoi ricordi, il primo signore del paese da lui incontrato nel caffè in piazza del Mercato, e che lo trasse subito d’impaccio facendogli guadagnare i primi nove ducati con la lotteria di due quadri di santi, San Pietro e San Paolo, i più grossi del Paradiso, dipinti lì per lì per pagar lo scotto al locandiere. Così cominciò la sua fortuna, nella nostra città, e d’allora restò avvinto d’amicizia e di gratitudine a Caso, che lo ebbe poi carissimo.

Il suo primo arrivo a quel modo in Piedimonte; l’idillio innocente con l’Anna Maria, giovinetta figlia del locandiere; le commissioni che gli provenivano di far ritratti, fra’ quali uno del fratello del suo benefattore; il ritorno a Napoli e l’esposizione di un quadro (l’Erminia del Tasso, che a suo dire era robaccia) alla Mostra del ’59, comprato da Casa Reale per cento ducati; l’uso che fece di questo denaro il 26 giugno ’60, l’indomani della Costituzione, per acquistare popolarità in un assalto da lui capitanato contro la polizia borbonica che venne respinta,

costituiscono i tratti più salienti della sua vita giovanile, ma ben altri furono i titoli che ne rendono a noi cara la memoria, come legionario del Matese...».

Nicola Borrelli, poi, in un suoi articolo pubblicato nella « Rivista Campana » del marzo 1924, dice: « I due anni – dal ’57 al ’59 – che il Toma trascorse in Piedimonte d’Alife tra le amarezze della relegazione, le ansie della cospirazione, i cimenti della insurrezione, non furono peraltro sottratti all’arte, giacché i duri bisogni della via mettevano l’artista nella necessità di lavorare e produrre... fino alla magnifica tela

GIOACCHINO TOMA: La Messa in casa

La Messa in casa, la quale, insieme alla Ruota dell’Annunziat, Luisa Sanfelice in carcere, L’ultima comunione e La pioggia di cenere, sintetizza l’arte insuperabile – arte soggestiva, profonda, dolorante – di Gioacchino Toma. L’autore trasfonde in questo quadro tutta la piena del sentimento di cui il suo animo ribocca, tanto che l’onda di commozione investe l’osservatore; emerge da questa tela tutto l’intimo raccoglimento delle figure, che culmina in quella della giovane donna del centro, « tutta compenetrata della preghiera e della maternità »; ed è così che il pittore diviene artista, artista insuperabile e poeta: poeta che la mistica pace di quella scena colpì, che santi affetti domestici, inconosciuti e sospirati, riempivano di tenerezza e di nostalgia... E forse, nel dipingere questa tela, nell’umile e squallida stanzuccia d’albergo, assillava l’anima dell’artista esiliato il bisogno d’un dolce nido di pace...; tanto più urgente tal bisogno in quanto gli occhi di Anna Maria – la giovinetta figlia del locandiere di Piedimonte – schiudevano al pittore innamorato i cieli misteriosi del sogno e della felicità... ».

TEATRI – Malgrado il suo viver lontano, nei tempi passati, dalla vita dei grandi centri per mancanza principalmente di celeri mezzi di comunicazioni, la nostra popolazione ha avuto sempre una particolare tendenza per l’arte drammatica, tanto vero che Nicolò Gaetani la volle coltivare costruendo un teatro verso la fine del primo trentennio del Sec. XVIII, attiguo al suo palazzo, laddove, come in altra parte abbiamo scritto, esisteva l’antica Chiesa di S. Maria Maggiore.

Questo teatro, conservato sino a quasi trent’anni or sono, aveva due file di palchi, oltre cento posti di platea, ed un gran palco frontale per uso della famiglia Gaetani. Era decorato artisticamente. L’Abate Belvedere di Napoli vi rappresentò, in detto secolo, non pochi suoi lavori, e vi agirono rinomati attori e cantori del tempo.

Un teatro mancato

Nel 1860 vi fu anche il tentativo per la costruzione di un teatro comunale. L’iniziativa partì dal Sotto Intendente (Sottoprefetto) dell’epoca e da un gruppo di cospicui cittadini, che fecero redigere anche un progetto dall’Ing. Giacomo Torti. La spesa preventiva fu di Duc. 2300 (L. 9775,00) dei quali 1709 sarebbero stati versati da quel gruppo e da altri cittadini, e la somma rimanente dal Municipio. Fecero delle offerte per 868 ducati i signori: Gaspare Egg (100); Nicola Coppola (100); Francesco Caso (100); Giov. Giuseppe d’Amore (12); Giov. Giuseppe d’Agnese (50); Francesco Pallotta e famiglia Coppola (50); Vincenzo Pitò e fratello (30); Ercole d’Agnese (24); Eduardo Capassino (24); Raffaele Ciminelli (12); Pasquale Torti (40); Beniamino Caso (36); Enrico Sanillo (240), e Luigi Greco (50).

Il 29 marzo 1860 il Decurionato, dichiarando esecutive le offerte, determinò intitolare il teatro al nome di Francesco II, e di chiedere il relativo Regio Assenso. Senonché, sopraggiunti i moti politici, la costruzione, prima rinviata, finì per essere abbandonata. Il teatro doveva sorgere nell’atrio dell’attuale Sottoprefettura.

DEPUTAZIONE POLITICA – Il nostro antico Distretto elettorale comprendeva oltre gli attuali mandamenti di Piedimonte, Caiazzo e Capriati al Volturno, anche quelli di Cerreto, Guardia Sanframondi, Venafro e Castellone, con un insieme di 46 Comuni. Durante il periodo del 1848 a tutto il 1913, la cui legislatura si protrasse sino a tutto il 1918, il Distretto prima ed il Circondario dopo, furono rappresentati al Parlamento dai seguenti Deputati: Caso Beniamino, Ciaburri Pasquale, Coppola Vincenzo, D’Amore Francesco, Del Giudice Achille, Del Giudice Gaetano, Gaetani Roberto, Gaetani Antonio, Gaetani Luigi, Garofano Francesco, Morisani Teodoro, Pacelli Salvatore, Scorciarini Coppola Angelo ed Ungaro Michele.

Piedimonte vantò anche tre Senatori, e cioè Onorato Gaetani, Principe di Piedimonte, Mons. Gennaro di Giacomo Vescovo di Alife, ed Achille Del Giudice.

STAMPA PERIODICA – Il giornalismo ha qui avuto largo svolgimento.

Il Matese fu il primo periodico locale. Lo pubblicò nel 1882 Marcellino Perrotti. Era quindicinale, letterario, amministrativo e politico. Durò una sola annata.

Il Risveglio Operaio venne fondato da Guglielmo Marrocco nel 1887, e ne fu Direttore Marcellino De Biase. D’indole popolare e di difesa proletaria, cambiò rotta dopo alcuni numeri, per cui il Marrocco uscì dalla redazione. Il periodico ebbe la vita di un anno.

Il Paupertas, d’indole socialista, fu diretto dallo stesso Marrocco, e vi collaboravano Filippo Turati, Francesco Saverio Merlino, Osvaldo Gnocchi Viani, ecc. Si mantenne in vita negli anni 1887-88.

La Violetta, era un periodico letterario quindicinale che si stampò nel solo anno 1905. La diresse Giovanni Carullo, prima, e Giovanni Tramontano di Napoli, poi.

Il Corriere del Matese, fondato nel 1899, fu diretto dall’autore di queste « Memorie ». Era letterario-politico-amministrativo, ed usciva due volte al mese. Cessò le pubblicazioni nel 1901.

Il Veritiero, diretto da Giuseppe di Lorenzo, uscì nel settembre 1900. Ebbe dapprima programma liberale, poi socialista, e durò una sola annata.

Il Bollettino dei Consorzi Agrari uscì nel 1901 sotto la direzione del Cav. Dott. Angelo Scorciarini-Coppola. Trattò questioni esclusivamente agricole, e durò parecchi anni. Si distribuiva gratuitamente a cura della Federazione dei Consorzi del Circondario.

Il Volturno, diretto dall’On. Luigi Gaetani, uscì nel 1903 con programma liberale. Durò soltanto pochi mesi.

La Calzoleria Moderna, fondata nel 1905, si stampò sino al 1915, epoca in cui cessò le pubblicazioni causa la guerra. Era l’unica rivista del genere in Italia e si affermò nei principali paesi del mondo.

Campania Felix, comparve nel gennaio 1909 sotto la direzione di Anna Carullo-Marrocco. Trattò soltanto questioni letterarie. Durò una sola annata.

Archivio Storico del Sannio Alifano, è stato fondato nel 1916. È organo dell’Associazione Storica di Piedimonte. Tratta di archeologia, arte e storia regionale, ed è diretta dall’autore di queste « Memorie». Da poco tempo ha sospeso le pubblicazioni.

Altri periodici, infine, si sono avuti sino al 1924, ma vissero brevemente. Tra essi ricordiamo: ‘O Rusecatore e ‘O Scucciatore, umoristici; la Zanzara, letterario-satirico; l’Eco del Matese filofascista; il Combattente e l’Elmetto, il quale ultimo, al presente (1924), si pubblica come organo della Federazione dei Combattenti circondariali, ed infine il periodico Libertas organo del P.P.I. diretto dal Conte Guglielmo Gaetani.

ASSOCIAZIONI E CIRCOLI – Si contano in Piedimonte Associazioni e Circoli in numero sproporzionato alla popolazione. Ciò è dipeso dal dividersi di questa in vari gruppi o partiti politici, i quali, da alcuni anni, hanno finito per rompere l’armonica comunanza di un tempo. Abbiamo quindi: Società Operaia, Associazione Storica, Società Magistrale, Associazione Reduci di guerra, Associazione Combattenti, Sezione del P.N.F., Sindacato Agricolo, Sezione Partito Massimalista, Circolo Matese, Consorzio Agrario, Circolo Secolo XX, Circolo Dio e Patria, Lega Cacciatori, Circolo E. De Amicis, e Sezione Partito Comunista. Esistevano fino a pochi anni or sono: Lega Minatori, Lega Contadini, Società Agricoltori, Società Operaia Cooperativa, Federazione dei Consorzi Agrari, Società Cooperativa di Consumo, Circolo Ercole d’Agnese, Università Popolare, Sezione della Croce Rossa, Sezione della Dante Alighieri, Sezione del Partito Socialista Italiano, Sezione del Partito Popolare Italiano, Sezione del Partito Democratico Liberale, e le Logge massoniche « Ercole D’Agnese » ed « I Figli del Matese ».

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