Consolator optime

Consolator optime,

dulcis hospes animae,

dulce refrigerium.


Paracletos, colui che è chiamato vicino, che assiste: così definisce Gesù lo Spirito Santo. Sono tre i passi di Giovanni in cui il Figlio dell'uomo viene indicato con questo appellativo da Cristo. «Io pregherò il Padre ed egli i darà un altro Paraclito perché rimanga in eterno con voi, lo Spirito cioè di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscerete perché dimorerà in voi e sarà in voi. Vi ho detto queste cose mentre mi trovavo ancora in mezzo a voi; ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto».«Quando poi sarà venuto il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, egli renderà testimonianza di me, e voi pure mi renderete testimonianza, perché siete con me fin dal principio». «È utile per voi che me ne vada, perché, se io non vado, il Paraclito non verrà a voi; ma se io me ne andrò, ve lo manderò. E, quando sarà venuto, accuserà il mondo di peccato, di giustizia e di giudizio: di peccato, perché non hanno creduto in me; di giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; di giudizio, perché il principe di questo mondo è già giudicato. Ho ancora molte cose da dirvi, ma per ora non potete sostenerle. Quando sarà venuto lo Spirito di verità, egli vi insegnerà tutta la verità, giacché non parlerà da se stesso, ma vi dirà quanto udrà, e vi annunzierà le cose che dovranno succedere. Egli mi glorificherà, perché prenderà dal mio e ve lo annunzierà. tutto ciò che ha il Padre è mio, perciò ho detto che prenderà dal mio e ve lo annunzierà».

Consolator optime. Sei il Paraclito per eccellenza, l'ad-vocatus risolutore di tutte le cure, gli affanni, le angosce dell'uomo. Sei il non plus ultra. Sei Dio. Optimus. Questo superlativo è la parola più adatta che trova l'autore per esprimere la bontà dei tuoi interventi: l'ottimo è il più buono di tutto e di tutti in senso assoluto. Cosa non si può dare di positivo all'aggettivo buono? Il suo superlativo è messo a significare il massimo della bontà, l'amore infinito che sei tu nel dinamismo trinitario e nel coinvolgimento in esso dell'uomo, creatura principale dell'universo, fatta ad immagine e somiglianza del Padre per rendergli gloria.

Eppure, Signore, il livello della qualificazione della parola optime dipende dall'uomo, in quanto più pieno è il coinvolgimento nella vita trinitaria divina, più sale di grado il senso del superlativo. Sono la forza del mio sentire l'appartenenza al regno del Padre dei cieli, il desiderio e il valore del mio conformarmi al Cristo, l'urgenza mia di rispondere in toto alla chiamata dello Spirito a dare la misura della qualità che assume la parola usata.

Tutta la terra si risolve in una successione di invocazioni gratulatorie, cantate a voce alta, gridate magari correndo con i piedi nell'acqua sulla linea che disegna il mare quando bacia la sabbia della spiaggia di Serapo. Te lo dico pur io, e con fervore: dolce ospite dell'anima, perché ti sento in me battere le ali, spirare forte, vorticare libero. Scava, sì, scava dentro quello che io non ho potuto scavare, l'inconscio che non governo bene, i residui dei richiami della carne e del mondo e tutto riempimi del tuo amore. Consolatore è lo Spirito perché dà amore, ma pure dà speranza. Questa non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori appunto per mezzo del Paraclito che ci è stato dato. E l'amore è la sorgente della preghiera; chi vi attinge tocca il culmine della preghiera. la contemplazione è il massimo che dà la piacevolezza del colloquio con Dio, dell'incontro cuore a cuore con lo Spirito Santo. L'intimità con Dio dà gioia infinita, è la terra che si fa cielo, è caparra della felicità eterna. quando Dio si sente dentro, nelle viscere, che si trasumana in un amplesso di delizie spirituali, nel misticismo dei santi, nell'estasi che, secondo me, non è un fatto eccezionale della vita dell'uomo, ma è il punto massimo del contatto che stabilisce l'amore con la persona amata. Amo Dio, immenso, e il valore della mia piccola estasi cresce asintoticamente verso l'infinito. Ma quanto dura? Anche un attimo. È una scintilla, quella del tocco. Qualcuno mi ha toccato. Sono io, signore, ti ho toccato perché voglio sentire dentro di me la tua energia.

È questo il senso dell'ospitalità che do a Dio nella mia anima. Voglio che ci sia sempre, perché la dolcezza che mi dà la sua presenza in me è inenarrabile. Non può essere diversamente, perché il tutto viene a riempire la mia miseria. La misura del suo starci dipende ovviamente dal grado di ospitalità che offro, cioè da come e di quanto io ho abbandonato il mondo, le sue concupiscenze, le sue cupidità. Più vuoto faccio in me con il distacco dalle cose del mondo, più spazio do a Dio di colmarmi con la sua misericordia, con la sua grazia, con il suo amore.

Del senso di hospes, mi piace, Spirito di Dio, quello particolare di amico di tavola. Penso a Gesù che a tavola celebra la prima eucaristia, il suo testamento d'amore che si rinnova ogni giorno nella messa e nella conservazione delle sacre specie, dove egli, dono misterioso di valore divino, vive vero in corpo, sangue, anima e divinità. Penso a tavola con i miei, ogni giorno, con i miei genitori prima, con i miei figli oggi. Vorrei tenerti a mensa con me a parlarti delle cose mie, delle cose del mondo, ma pure delle cose tue, quelle invisibili, per subirne il fascino mistico, per inebriarmi di te, per cantare le glorie al Padre.

Il dulcis dell'ospitalità ha il senso di traente, dilettevole, piacevole, gradito; ma è soave, quando si accosta a refrigeriuim. È strano che l'aggettivo sia usato due volte e con ripetizione in due versi successivi: assolutamente non crediamo che l'autore dell'inno non conosca altri sinonimi, perché ce ne sono, e anche metricamente usabili nel caso. È rafforzativo di una emozione forte da comunicare? Certo è che si prova sollievo consistente, quando si riesce ad eliminare un dolore, veemente, quando si riesce a rinfrescarsi, liberandosi di un'arsura insopportabile.

Il sostantivo refrigerium pensiamo che non esista nel mondo latino classico: esiste certamente il verbo, raffreddare e rinfrescarsi. Nell'uso il termine è venuto fuori nell'alto medioevo e nella tradizione della Chiesa lo troviamo sovente usato quando si parla delle anime sante del purgatorio, le quali nella figurazione popolare comune nel fuoco devono penare per purificarsi dalle colpe commesse in vita prima di entrare pulite in paradiso. In questo caso ci troviamo veramente di fronte all'urgenza del refrigerio e il raffronto ci dà l'idea di ciò che intende dire chi scrive.

Tutta la terzina è dedicata alla consolazione dello spirito e l'arsura del terzo verso, dalla quale bisogna liberarsi, è proprio quella del peccato e delle pene interiori che porta. Non c'è dubbio che fare il male dà angoscia interiore, inquietudine nell'animo, ansia febbrile di liberazione: l'urgenza del riscatto è bruciante. In questo stato di peccato, la grazia è certamente ristoratrice. Sei tu, Spirito Santo, che me la doni: è la pace che ogni uomo cerca dappertutto e che tu, colomba bianca come la neve, porti col battito delle tue ali nel cuore malato dell'uomo. Statti con me, abita da me, occupami tutto, perché con te ci sto veramente bene. È proprio soave il tuo giogo.