Qui diceris Paraclitus

Qui diceris Paraclitus

altissimi donum Dei,

fons vivus, ignis, caritas,

et spiritalis unctio.


Il latino, pur quello non classico, cioè pur quello non di Virgilio, di Orazio o il ciceroniano, quello erudito del medioevo per intenderci, è d'incomparabile bellezza, sintetico, come abbiamo detto, capace di trasmettere emozioni nella calibratura della parola acconcia e nella costruzione giusta della frase. Non avevano errato gli operatori ai vertici della Chiesa nei secoli ad assumerlo come lingua ufficiale unica del mondo cattolico: oltre tutto il latino impone una disciplina di studio e di comunicazione giovevole anche al mantenimento dell'unità e ad evitare qualsiasi sforamento dalle parole severe della dottrina e dagli schemi rigorosi della liturgia. Ora che si è introdotto nelle ufficiature e nella ufficialità della Chiesa l'uso delle lingue locali, ogni libertà è possibile, difficile è il controllo dell'uso corretto dei modi di dire nei riti, l'indulgenza verso le forme anche deleterie del localismo è di prassi. Ovviamente, anche se scapitano in complesso la tenuta della dottrina, la sua applicazione unitaria e unificante nella formulazione delle prescrizioni della liturgia e soprattutto la pratica cristiana nella quotidianità dell'esistenza. tutto, diventando più accessibile e più esteso, perde d'intensità e di valore.

Anche nel Veni, creator Spiritus, che stiamo leggendo, la bellezza, la scultoreità, della struttura letteraria latina è dilettevole, densa com'è, nella semplicità dei termini usati, della sostanza dei contenuti e ricca di eleganza formale. Se ne tenta una versione italiana ufficiale, che si pubblica nel Compendio del Catechismo, nell'appendice delle preghiere comuni; ebbene, rimbalzano subito l'inadeguatezza dello sforzo fatto, la difficoltà della sintesi, l'impossibilità di trasporre compiutamente i concetti del testo originale nell'italiano, pur ricercato, della tradizione. Certo non è facile tradurre: mi viene in mente il tempo della prima giovinezza speso con Ciccio Valentino a tradurre in versi italiani le Odi oraziane ed altro e ancor mi dà contentezza l'elogio in classe, al liceo, che l'ottimo professore Eugenio Ruggiero ebbe la benevolenza di fare degli esiti avuti per la trasposizione del Carmen saeculare in italiano, mantenendo il metro latino e la struttura delle strofe anacreontiche.

A parte le difficoltà della versione, la lettura nell'originale è del tutto appagante soprattutto perché consente il rapporto diretto con l'autore e la vivezza della comunicazione fa cogliere ogni passaggio in maniera totale, così che dalla sintesi dell'espressione esca fuori di nuovo il contenuto, il tanto contenuto che l'ha generata. In tale ragionamento aiuta l'indeterminatezza della comunicazione d'arte, specie quella poetica, e la parola non solo mantiene il valore originario del suo uso, ma si slarga su orizzonti inesplorati, quelli che il fruitore profila nell'emozione della lettura accorta.

Che chiedersi della musicalità del verso originario? Qui diceris Paraclitus, per stare al punto in cui siamo arrivati, lo canti tu, nella mente e nel cuore, con la tua melodia, prima che ti salga su dalle viscere il gregoriano mirabile che gli hanno costruito attorno i monaci antichi negli scanni consumati dei cori delle loro abbazie. Tu che sei detto il Paraclito: è Gesù stesso che, quando annunzia e promette la venuta dello Spirito Santo, lo chiama Paracletos, letteralmente «colui che è chiamato vicino a», ad-vocatus. La parola greca viene abitualmente tradotta «consolatore», essendo Gesù il primo consolatore, come si sottolinea nel Catechismo: il Signore stesso chiama lo Spirito Santo «Spirito di verità».

Tu che sei detto il Paraclito sei il dono dell'altissimo Dio: nei primi sei versi della composizione si apre e si chiude il discorso trinitario, che è l'intelaiatura principale su cui si tesse tutto il canto. prima creatore con il Padre invocato a riempire l'anima dell'uomo con la grazia che porta nel mondo la redenzione, qui da Cristo Gesù ad-vocatus come dono del Padre, Altissimi donum Dei: dà qualche attimo di suspence il termine donum. Donum di che, di chi? Di se stesso, la dedizione completa ed eterna. Dio crea tutte le cose visibili ed invisibili e prima di tutti i secoli genera Gesù Cristo, unigenito suo Figlio, della sua stessa sostanza, per il quale tutte le cose sono state create. Il Padre ama il Figlio ab aeterno e se ne compiace. Questo amore che procede ab aeterno dal Padre e dal Figlio è lo Spirito Santo, l'amore di Dio personificato, la terza persona di Dio uno e trino.

Dono di sé? Totale, ab aeterno: divino. Nel Cristo, che per l'uomo e per la sua salvezza discende dal cielo e per opera dello stesso Spirito Santo si incarna nel ventre della Vergine Maria, il Padre ama l'uomo ab aeterno e si dona: dedizione di sé totale, d'amore infinito ed eterno. Dio ha bisogno dell'uomo, di amarlo. Chi è Dio senza l'uomo? Il paradosso, che prescinde ovviamente dall'essenza e dalla consistenza oggettive del Padre di tutte le cose, dà sollecitazioni contemplative, mistiche, di adorazione. Il donum dell'altissimo Dio è in questo intreccio caritativo, nel quale solo può risolversi bene il mistero della vita dell'uomo. L'altissimo, il perfettissimo, il creatore, il signore del cielo e della terra ama l'uomo e gli dona da sempre, ab aeterno, il suo amore, lo Spirito Santo, altissimi donum Dei.

A due metri davanti mi passa la colombella, grigio biancastra, le piume riflessi perlacei, e stampa sulla sabbia le sue impronte inconsapevoli. Altre volte ho detto che opera incomparabili installazioni d'arte. Con il segmentato movimento del collo, seconda l'istinto che porta i suoi occhi a cercare ciò che deve imbeccare, mi guarda per nulla spaurita, contenta di condividere la mia solitudine. È quella, o è una tortora, la tortora che si fa sentire da mane a sera a tubare in cerca di amore? O quella della villa, dove mi scontro con il venticello fresco che tra mare e monte arriva a smuovere i verdi stupendi e i loro mille toni degli alberi e dove culla di nostalgia i ricordi l'oscillare lento delle sempre più grandi e lussuose barche all'ormeggio? Ma può essere pure quella che vola nel cielo ormai ristretto del mio cortile, alla casa d'inverno, e si ferma sui tetti, proprio a perpendicolo della finestra del mio studio ad imbrattare il marmo del davanzale? La colomba, ma bianca, candida come la neve, splendente, è la raffigurazione dello Spirito Santo, come si scrive nel Vangelo; appena battezzato Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. È, questa, come la rappresentano gli artisti, i pittori e gli scultori, nelle loro opere.

Sono diversi i simboli con cui si presenta la terza persona della Trinità, tutti più o meno attagliati all'azione che produce o ai momenti più significativi in cui si manifesta: all'annunciazione le sue lunghe ali che avvolgono Maria in un amplesso divino di carità; nel cielo dove il Battista battezza Gesù a segnare l'inizio della sua predicazione, nel «columbarium», messo in alcune chiese sopra l'altare maggiore. Nell'iconografia cristiana è tradizionale indicare lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Ma di simboli ve ne sono altri, che si elencano nel Catechismo: l'acqua, l'unzione, il fuoco, la nube, la luce, il sigillo, la mano, il dito di Dio, ed ivi se ne illustrano i sensi e le ragioni con buona documentazione. Anche in queste annotazioni particolari è utile seguire nella stesura originale, intera appunto il Catechismo, che, lo ripetiamo pure qui, è un testo di cultura di fondamentale valore anche per i laici.

In questa strofe dell'inno l'autore definisce lo Spirito con quattro immagini di sostanza: fons vivus, ignis, caritas, et spiritalis unctio. Sorgente, originale, punto fondamentale, fons. Fons et caput. Viene subito davanti alla mente Mosè, il vegliardo, che all'Oreb tocca la roccia con la verga con cui ha percosso il Nilo: lì, proprio a quel punto, Massa e Meriba, a quel tocco scaturiscono zampilli d'acqua fresca per il popolo ebreo assetato. Ma mi vien fatto pure di ricordare il brillio dell'acqua del ruscelletto deve il pastore della malga Plaghera, su in Valfurfa, oltre Santa Caterina, trasforma agitandolo nel secchio il suo latte in panna freschissima per noi. Fons vivus: fonte viva della grazia, di quella battesimale, dove l'acqua è visivamente presente, di tutta la grazia, di ogni specie di grazia. Si scrive nel Catechismo che lo Spirito è anche personalmente l'acqua viva che scaturisce da Cristo crocifisso come dalla sua sorgente e che in noi zampilla per la vita eterna.

Ignis. Il fuoco. Eraclito mi si presenta nel cervello con il suo fuoco principio delle cose. Giovanni Battista annuncia che verrà chi battezzerà con lo Spirito Santo e il fuoco. E Gesù nella sua predicazione non ha dubbi: sono venuto a mettere il fuoco tra di voi, a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso. La pentecoste è la manifestazione storica principale dello Spirito Santo di Dio. Possiamo ben dire che essa sia l'epifania dello Spirito. E lì, nel cenacolo, c'è pure Maria, la madre di Gesù Cristo, la madre del dolore, la madre della Chiesa universale. Un grande rumore, un tuono, un fitto rullare di tamburi e timpani, e sulla testa di ciascuno degli apostoli congregati si posa una fiammella: è lo Spirito che entra nella loro vita e la trasforma. Leggiamo gli Atti. E come si fu al giorno della Pentecoste, eran tutti insieme nel medesimo luogo; e, di subito, si udì dal cielo un tuono, come di vento impetuoso che soffia, e riempì tutta la casa, dov'essi si trovavano. E apparvero, distinte l'una dalle altre, delle lingue che parevano di fuoco, e se ne posò una su ciascuno di loro; e tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare in varie lingue, secondo che lo Spirito dava loro di esprimersi... Noi, Parti, Medi, Elamiti, della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia Cirenaica, pellegrini Romani, sia Giudei che proseliti, Cretesi e Arabi, noi tutti li udiamo parlare nei nostri linguaggi delle grandezze di Dio.

Il fuoco è amore, la creatività, lo spirito vitale, l'origine di ogni emozione. Come e quanto questi simboli confluiscano a definire gli attributi dello Spirito di Dio è facile rilevare: basta la riflessione su un segmento della nostra quotidianità per aver chiaro l'influsso che ha lo Spirito sull'esistenza di ciascuno. Per stare al fuoco, dalle nostre parti si dice: chi ebbe il pane morì, chi ebbe il fuoco campò, per rimarcare la rilevanza che il fuoco ha nell'esistere di ciascuno e quanto sia fondamentale prendere da esso le spinte a vivere, la luce giusta, il calore necessario. Ma il fuoco è l'amore che si accende nell'uomo, l'amore di ogni genere; e, se si pensa che per la creature urge così tanto dentro che ti fa soffrire enormemente la sua mancanza, quanto più è irresistibile quello divino, che porta all'estasi dei santi, al misticismo, alla totale identificazione con il Padre nel silenzio dell'adorazione.

Caritas. L'amore è la conoscenza, è il sapere insieme, la comprensione, cum prehensio, cioè il desiderio del possesso totale; con il possesso totale, è il principio di tutte le cose. Dio Padre genera ab aeterno il Figlio e lo ama, e ne è ricambiato, e l'amore si fa persona, la terza del Dio uno e trino. Per amore nella prospettiva della redenzione tutte le cose sono fatte dal nulla, e tutte sono belle e buone, ed amate. Poi viene l'uomo e il Figlio dell'uomo lo redime per amore. E il compimento della vita dell'uomo è la gloria di Dio, l'atto d'amore più completo che possa fare la creatura al suo creatore. Lo Spirito Santo, che è l'amore di Dio, è la carità stessa. La carità non gli è attribuita, ma ne è la sostanza nella sua essenza e nella sua esistenza.

Il ragionamento non è staccato dalla corporeità della vita. La considerazione mi viene leggendo il verso che viene dopo: et spiritalis unctio. Di primo acchito definirei in contrasto l'aggettivo con il sostantivo, in quanto l'unctio implica il concetto di corporalità, di carnalità, anzi di carne malata, bisognevole di cure. Mi piace, mi dà intima gioia questa riflessione in quanto la carnalità è componente essenziale dell'uomo, insieme corpo e anima fusi, inscindibili, solo dalla morte per punizione di Dio temporaneamente separati per la disubbidienza di Adamo: la carnalità della preghiera, di cui altre volte ho detto, la carnalità dell'adorazione. Ebbene il concetto e il significato di unctio sono legati dalla carne, e quando e se li associano allo spirito, non prescindono dall'unità dell'uomo e quindi dal suo senso dell'esilio, dalla intima condivisione tra anima e corpo dell'amore e del dolore che vi si raccorda.

Spiritalis è un qualificativo, dunque, in senso per così dire riduttivo, perché l'unzione dello spirito è unzione del corpo. Sosteniamo da sempre, non il mens sana in corpore sano, proprio di una visione della vita in cui abbia preminenza la salute fisica, ma l'interdipendenza che è necessaria tra corporalità e spiritualità nell'uomo per raggiungere l'equilibrio postulato dall'impostazione che si è data al proprio esistere e dagli obiettivi che si vogliono raggiungere. Le scienze laiche d'oggi danno un valore terapeutico alla preghiera, anche a quella ripetitiva monotematica, e la pratica della vita, finalmente, comincia a considerare anche la soddisfazione dei bisogni dello sviluppo dell'uomo dando attenzione ai tempi e ai luoghi della riflessione. Mentre scrivo questo, come in sottofondo, nel cervello mi riecheggiano i temi ripetuti, la preghiera insistita come lo stupendo rosario mariano, della musica di Philip Glass, specialmente Facades, un pezzo che dura meno di tre minuti e che vorrei fosse ascoltato in silenzio ai miei funerali, dopo la benedizione finale del cadavere in chiesa. Ma pure un altro pensiero mi viene forte nell'animo, e diventa speranza, e diventa preghiera: che siano abbattute definitivamente tutte le voglie e le teorie malsane del pensiero «corto» e veloce.