Hostem repellas longius

Hostem repellas longius

pacemque dones protinus,

ductore sic te praevio

vitemus omne noxium.


Hostem: la mente va subito al nemico della guerra guerreggiata, a quello della tradizione ebraica del Dio degli eserciti, a quello che poi è il nemico di sempre, da quando l'uomo è uomo, e per il quale si è fatta e si fa la storia. Il senso può essere anche quello vero, quello che gli dà l'autore, al tempo suo impastato certamente di conflitti combattuti anche per motivazioni religiose. Il nemico è nemico e per me è sempre il diavolo, che esiste e che è il fautore del male: il male non è un'astrazione, è il segno di Satana, il maligno, l'angelo che si oppone a Dio. la guerra esterna, quella dei fronti contrapposti, e le altre di tipo diverso, come le attuali, per bande armate o per impreviste ed imprevedibili incursioni omicide, le auto dei kamikaze o gli aerei oggi sulla Georgia, la guerriglia insidiosa o gli attentati proditori, sono sempre opera del diavolo.

Ma del diavolo è innanzi tutto la guerra interna, eterna, quella che combatte dentro l'uomo per togliergli la salvezza, per sottrarlo alla signoria soave di Dio, per possederlo nelle sue fauci rosso fuoco, come l'uomo dell'animale sfinge delle impressionanti sculture medioevali sulle facciate delle nostre cattedrali più antiche. Lo so, è così, l'autore dell'inno nel realismo della concretezza che imprime al discorso si riferisce alla guerra vera, come del resto si evince nei termini usati in tutta la quartina, ma di certo non è lontana dai suoi intenti la sempiterna lotta tra il bene e il male, avviata dalla ribellione di Lucifero e continuata dai suoi seguaci fino alla fine dei secoli perché il regno di Dio non s'instauri e perché ogni uomo perda la sua anima e precipiti nell'abisso dell'inferno.

La guerra che io chiedo di vincere allo Spirito Santo è quella personale, mia, intima: non che non m'interessino le tante guerre aperte in tante parti del mondo e non desideri la pace, anzi questa chiedo al Signore per tutti gli uomini. Son convinto dell'ineluttabilità della guerra per lo svolgimento della storia dell'uomo, ma son pur convinto che la causa di tutte le guerre è quella che si combatte nel cuore dell'uomo fra il bene e il male per l'affermazione dei propri interessi di qualsiasi tipo e per la conquista del potere, pur esso di ogni tipo, compreso quello religioso.

Hostem repellas longius, respingi il nemico più lontano. Non chiede l'autore di annientarlo, perché conosce bene la natura del diavolo, puro spirito che non muore, e sa del suo accanimento ad essere padrone dell'uomo e della storia, ma solo di rigettarlo il più lontano possibile, fuori dalla sua orbita d'azione. Che il diavolo sia, come dice la stessa origine greca del termine, dià-bolos, colui che si getta di traverso al disegno di Dio e alla sua opera di salvezza compiuta in Cristo, lo si chiarisce bene nel Catechismo: è a causa di Satana, che seduce tutta la terra, omicida fin dal principio, menzognero e padre di menzogne, che il peccato e la morte sono entrati nel mondo, ed è in virtù della sua sconfitta definitiva che tutta la creazione sarà liberata dalla corruzione del peccato e della morte. Ci rassicura sant'Ambrogio, ben citato in proposito: Il Signore, che ha cancellato il nostro peccato e ha perdonato le nostre colpe, è in grado di proteggerci e custodirci contro le insidie del diavolo che è il nostro avversario, perché il nemico, che vuole generare la colpa, non ci sorprenda. Ma chi si affida a Dio non teme il diavolo. Se infatti Dio è dalla nostra parte, chi sarà contro di noi?

Manda il nemico lontano, Paraclito, pacemque dones protinus. La pace è un dono d'inestimabile valore, la porta lo Spirito di Dio, la colombella bianca che esce in esplorazione dall'arca di Noè e che torna con un ramoscello di ulivo nel becco: la colomba, innocua, che rincorrono i bimbi sotto i platani, dove già le foglie secche cominciano a cadere, e l'ulivo, che si contorce, si spacca, ma dura cent'anni, sono il simbolo della pace, iconograficamente usciti dal racconto del diluvio biblico, ma pure dai sensi che si danno ad essi dalla simbologia cristiana. Li amo tutti e due: la colomba che mi sta sempre davanti, mi stampa le sue orme sulla sabbia di prima mattina, mi tuba l'amore suo tutto il giorno, mi segmenta la solitudine squadrata del cortile della casa del paese natio dove vivo per tre stagioni l'anno; l'ulivo con il fruscio delle sue foglie, cupe di verde liscio sopra, di camoscio argenteo vellutato sotto, ai monti della giovinezza attorno alla cattedrale romanica, nelle emozioni tardive della maturità, quando si attorciglia stretto dove non passa più il treno o mette in mostra la sua vita secolare dietro la mia scuola, allora che percorro le sue vie nelle ore di spacco. Ma amo soprattutto l'ulivo del Getsemani, quello vero, dove Cristo Gesù suda sangue, e gli altri di Casale Corte Cerro e i Paestum, che mi rammentano i rosari fervidi e commoventi della spiritualità giovanile.

L'autore invoca lo Spirito Santo per ricacciare il nemico ed avere la pace, perché lo Spirito nella dinamica trinitaria è l'amore personificato del Padre e del Figlio, utriusque, come ribadisce appresso nella composizione, e l'amore è il contrario della guerra, porta la pace, è la vita stessa di Dio che ci crea e ci mantiene in vita. La pace è tutto, specie quella che sta nelle viscere dell'uomo. Ma anche quella esterna: il rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace. Lo si sottolinea nel Catechismo. La pace non è la semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l'equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l'assidua pratica della fratellanza. È la tranquillità dell'ordine. È frutto della giustizia ed effetto della carità.

Che tu, la pace, ce la dia, Spirito di Dio, protinus, cioè subito, immediatamente, ma pure oltre, in avanti, per sempre, continuamente. La richiesta è pressante, perché l'urgenza della pace è sentita da sempre da ogni uomo da che mondo è mondo, pur se mai si riesce ad averla, perché il diavolo, nemico di Dio, semina la guerra spingendo l'essere umano sulle leve della cupidigia, del potere, dell'affermazione di sé senza limiti, del godimento ad ogni costo fino in fondo. Tutti i significati che ho elencati vanno bene, anzi insieme si cumulano bene per dare il senso più autentico e forte della preghiera. Ci uniamo al cantore dell'inno e con fervore gridiamo pur noi l'invocazione, insistendo sull'avverbio: che l'uomo, ogni uomo, abbia la pace nel cuore, che nel mondo cessino le guerre, tutte le guerre, le guerre di ogni tipo protinus, protinus. A te si leva la nostra supplica, Trinità beata, a te, o Padre della pace, a te, o Cristo, principio della pace messianica, nostra pace, a te, Spirito Paraclito portatore di pace.

Tu, terza persona della Trinità, sei ductor, non dux, nell'inno: stai sul campo e con l'uomo combatti la guerra della vita. Dico la guerra, non la battaglia, perché è lunga, inestinguibile, la contrapposizione del bene e del male dentro l'uomo e perché non ci sono pause e il diavolo te lo trovi sempre di fronte, sempre più spietato con i suoi occhi malefici di brace e le sue forche di fuoco puntute pronte ad infilarti. Ti ringrazio, Signore, perché sei tu sempre con me a dare forza e coraggio alla mia solitudine. Tornando una volta con il vescovo Nogaro da Roma, dove eravamo stati per sollecitare nella sede apposita l'esame della Positio super virtutibus di Giacomo Gaglione da parte dei nove cardinali della commissione preposta, mangiando di fretta ad un autogrill dell'autostrada, il discorso cadde appunto sulla solitudine dell'uomo, la sua e la mia in questo caso. Ad una mia precisa domanda, l'amico presule rispose: «Ma io non sto solo, con me sta sempre il Signore».

È proprio vero. Anche con l'angelo custode personale cui ci affidi, tu, Dio, stai sempre con ciascuno di noi nel tuo Spirito d'amore, a sostenerci, a illuminarci, a guidarci. Sì, ductor. Ma c'è di più, perché vai avanti, in esplorazione: praevius. Come Cesare e ogni buon generale dell'esercito romano, prima della battaglia personalmente vai in perlustrazione per renderti conto direttamente della natura del terreno e della situazione militare del nemico. Di buon mio gusto è la colorita immagine proposta nel canto e mi prende in pieno la sua concretezza lirica. Ductore sic te praevio. Con te così a guida, non solo tecnica ma d'amore, cioè di uno che mi vuol bene sul serio e che, seconda persona della santa Trinità, per me dà la vita facendosi addirittura crocifiggere, mi sento più sicuro, non mi fa fatica il percorso che devo ancora camminare, per se duro, non mi vacillano le gambe sulla sabbia smossa e l'onda del mare sempre amico non mi dà vertigine. Mi conduci quasi per mano così, Signore, alla lotta e accettare la volontà del Padre è giogo soave.

Tutto ciò che è nocivo e porta danno, omne noxium, lo scansiamo nel tuo amore. anche la natura, Spirito di Dio, porti a secondarmi passo passo nell'itinerario terreno, la natura madre provvida, non matrigna: quella che la dicono così sono pessimisti di maniera, insinceri, come Leopardi, perché essi hanno tutto, ma non lo accettano, non lo vogliono accettare così com'è. Anche la solitudine è un dono. Ieri Simona, la ragazza di casa, mi dice: «Lei campa cent'anni» e alla mia domanda sulla ragione di tale affermazione improvvisa quanto spontanea sicura risponde: «Perché è solo». Non è la solitudine a sé a far bene, ma l'accettazione della solitudine come volere di Dio. Sovente, anche nella stessa giornata, ripetevano i nostri padri: facciamo la volontà di Dio, come vuole Dio, lascia fare a Dio.

Tutto è ordinato dalla Spirito di Dio con amore e ogni cosa nociva, omne noxium, la natura, figlia meravigliosa del creatore, ci aiuta ad abbandonare nel cammino che ci resta. Il distacco dalle cose è una realtà che deve accettarsi per vivere bene, distacco che comincia da quando si nasce, da quando ci si taglia il cordone ombelicale, da quando ci si toglie il latte della mamma, ci si svezza, e vinisce con la morte, quando per l'ultimo viaggio si lascia la terra. Soli si nasce, soli si muore. Che la natura ci mandi ad essere madre provvida nel nostro pellegrinare verso il cielo, Spirito creatore e salvatore, fa parte del tuo essere ductor praevius, mio Dio uno e trino, che mi ami fino in fondo e ti doni in tutto per la mia salvezza.

Così, con la tua guida, Spirito del Padre e del Figlio, vitemus il male nella lotta cui ci sottopone la drammatica condizione del mondo, che asservisce tutto, come scrive Giovanni, sotto il potere del maligno. Nella Gaudium et spes si scrive che tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre: lotta incominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno. L'uomo, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà. Egli cedette alla tentazione e commise il male. Conserva il desiderio del bene, ma la sua natura porta la ferita del peccato originale. È diventato incline al male e soggetto all'errore. Per questo l'uomo si trova in se stesso diviso e tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre.

Al centro di questo conflitto continuo, l'uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di Dio. E sei tu, Spirito Santo, il dispensatore della grazia. La guerra è sempre in essere, ma si vince facendo la volontà del Padre. Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. La volontà del Padre, si precisa nel Compendio, è che tutti gli uomini siano salvati. Per questo Gesù è venuto: per compiere perfettamente la volontà salvifica del Padre. Noi preghiamo Dio Padre di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, sull'esempio della Vergine Maria e dei santi. Domandiamo che i suo disegno benevolo si realizzi pienamente sulla terra come già nel cielo. È mediante la preghiera che possiamo discernere la volontà di Dio e ottenere la costanza per compierla.

Certo, non è facile fare della terra il cielo. Torna il discorso al centro dell'esistere, all'essenza della vita dell'uomo. La quale è tragedia o è commedia? Il dilemma non si pone, perché l'esistenza umana è soprattutto milizia, prendendo la parola nel suo più stretto uso latino. E torna il ragionamento sul ductor, che l'autore ha scelto bene, preferendolo al dux. De resto, e non è inutile ripeterlo, è il senso di concretezza che caratterizza tutto il canto e che noi, specie in questa parte, condividiamo in pieno per il realismo con cui si esprime l'urgenza di essere aiutati in uno scontro, militia proprio nel senso latino di servizio militare in guerra, così continuo e macerante nell'uomo tra cielo e terra. Siici ductor, Spirito di Dio, in questo conflitto, vai per primo a vedere le cose come stanno sul campo e fa che tutto il noxium che continuamente frappone sul nostro difficile itinerario il nemico, hostis, il maligno, il diavolo, sia evitato. Così sale fervida, dalle viscere, la mia preghiera a te, Dio uno e trino, essere infinito ed infinitamente misericordioso.

Lo svolgimento dell'inno, studiato in ogni dettaglio ma di più profondamente sentito, fondato su una conoscenza straordinaria della lingua latina ma di più ricercato nell'uso dei termini più propri, efficacemente espressivo della sintesi maturata tra raffinato esercizio formale e robusta sostanza contenutistica, ha una sua logica architettura, che noi scandiamo in cinque parti. La prima è costituita dall'accorata preghiera a venire, a illuminare, a dare grazia. La parte successiva, la seconda e la terza strofe, è dedicata ad invocare lo Spirito Santo nella sua simbologia tradizionale. La terza sezione, la quarta e la quinta strofe, formano la vera e propria domanda supplichevole: accendi e infondi, caccia il diavolo, dacci la pace, facci da capo nella fatica e nella lotta del vivere. La quarta parte della composizione sublime, la sesta strofa, è insieme un'esortazione e un augurio per la nostra vita intellettuale: sappiamo, conosciamo, crediamo. L'innesto è fatto sul versante dottrinario e direttamente riguarda la crescita culturale della persona: conoscere è credere, credere è amare, amare è vivere. Il piano della cultura e il piano morale hanno lo stesso livello: le interferenze sono di natura. La quinta parte, costituita dalla settima strofe, è il finale maestoso della sinfonia: il gloria che si sparte nelle tre persone uguali e distinte dell'unità di Dio: al Padre che crea, al Figlio che risorge e al Paraclito, e si chiude con l'amen per i secoli dei secoli rullato dai timpani a ritmare la melodia della composizione e il coro degli angeli, dei monaci e dei fedeli che la cantano.

Il mare d'oggi, a due terzi d'agosto passati, è quasi calmo, il cielo sereno, l'umidore dell'afa denso, l'orizzonte ben nitido, lontano, infinito. Spirito di Dio, vieni ogni giorno, ogni ora, ogni momento ad abitare nella creta del mio essere e del mio esistere. Ogni istante che passa, sai, s'inaridisce e si sfarina sempre di più. Tienila viva a cantare la tua gloria per sempre in paradiso.