De Sisto_Tommaso Di Mundo brigante raviscaninese

Antonio De Sisto

TOMMASO DI MUNDO, BRIGANTE RAVISCANINESE

(in Annuario ASMV 1983, pp. 79 e ss.)

Introduzione: il brigantaggio a Raviscanina

Dopo il 1860, avvenuta l'unificazione della Penisola, come tutti i paesi e le città del Sud povero e interno, anche Raviscanina, piccolo e tranquillo centro di poco più di mille anime allora, alle falde sud occidentali del Matese, fu coinvolta nel fenomeno del Brigantaggio.

Non é intendimento di questo lavoro indagare sulle cause che ingenerarono il moto di rivolta: moltissimo é gia stato scritto a riguardo. Ognuno ha detto la sua sul Brigantaggio.

Qui ci si limita a sentire, a respirare, quasi si direbbe, e quindi, a riprodurre nel testo, possibilmente, l'atmosfera di tristezza nella quale é avvolta la sollevazione di una cosi vasta schiera di militari e contadini; atmosfera certamente dovuta alle speranze dei miseri tutte tradite, ai soprusi rimasti immutati, alle ingiustizie constatate ineliminabili, eterne, dei ricchi sui poveri, dei potenti sugli umili, dei furbi sugli uomini semplici e schietti. La quale, poi, quando dall'uomo, al limite della sofferenza, riaffiora la belva primeva, si colora di rosso e s'impregna dell'acre odore del sangue.

A Raviscanina, dunque, operò il Brigantaggio. Anzi il comune fu uno dei luoghi maggiormente colpiti da quella specie di rivoluzione popolare, piccola e limitata, apparentemente; in effetti sentita, auspicata e secondata da vasti strati delle popolazioni contadine del Sud d'Italia.

L'intero paese, nel caso di Raviscanina, visse quella tragica vicenda della storia meridionale. Una parte di esso, con in testa la quasi totalità dei «galantuomini» e dei «liberali», si schierò nel campo del nuovo potere, costituitosi dopo la conquista garibaldina e piemontese. Essa si mobilitò nella Guardia Nazionale, si arruolò nel Regio Esercito, si mantenne nelle cariche comunali e nei servizi già prima ricoperte ed espletati. Un'altra parte sposò la causa dei Briganti. Essa, all'ombra della vecchia bandiera borbonica, si raccolse in bande, che risultarono formate da questi elementi: nostalgici della passata dinastia, ex soldati dei discioltieserciti borbonico e garibaldino, disertori del nuovo esercito italiano, renitenti alla leva, fuorilegge, diseredati. Nell'esercito garibaldino, infatti, erano confluiti anche malfattori usciti di galera al momento del cambiamento di potere. Uno di questi, il raviscaninese Costantino Sarcione, aveva anzi guidato e, addirittura, capeggiato le colonne garibaldine nei loro movimenti tra la Campania, il Lazio e il Molise (1). Questi elementi, è evidente, al ritorno della normalità, temettero un loro reinserimento nelle patrie galere, e, perciò, con un brusco cambiamento di fronte, si aggregarono ai Briganti.

Accanto alle bande battenti per lo più le impervie montagne e il territorio extraurbano del comune, con qualche puntata nello stesso centro abitato, c'era la schiera (più folta) dei «manutengoli», che viveva normalmente nell'abitato, in un'apparente legalità, ma, in effetti, a disposizione dei componenti delle bande, in ogni momento e per ogni esigenza.

Qualche caso di osmosi dall'uno all'altro campo, come in varie altre località, si verificò anche a Raviscanina. Uno riguardò proprio il personaggio oggetto di questo studio. II fenomeno, come il caso ricordato, avveniva, di preferenza, dal campo della «legalità» a quello della «illegalità».

Per il Brigantaggio a Raviscanina non si possono fare delle cifre esatte e nell'uno e nell'altro campo: si può indicare in qualche centinaio di persone il numero dei militi della locale Guardia Nazionale e in qualche decina di persone quello dei paesani aggregatisi alle bande operanti nella zona e in quelle limitrofe. Al quale ultimo va aggiunto il numero molto impreciso dei «manutengoli».

II Brigantaggio incominciò ad operare a Raviscanina appena al suo manifestarsi nella zona matesina, agli inizi cioè del 1861, e, come in quella, cessò di operare nel 1880, considerando anche il rapimento da parte dei briganti Cosimo Giordano e Libero Albanese del possidente Libero Della Penna, che comportò la segnalazione della possibile presenza della loro banda anche sulle mon-tagne raviscaninesi, coi relativi adempimenti di sorveglianza e di perlustrazione da parte degli organi di polizia locale e l'invio di truppe nelle zone precedentemente teatro della attività brigantesca (2). Questo avvenimento, che rimane isolato nella generale pace e quiete regnanti da un decennio nella zona del Matese, fu proprio l'ultimo guizzo, ritardato, dell'incendio li appiccato dal Brigantaggio tanti anni prima.

La maggiore attività del fenomeno rivoltoso fu registrata, pero, nel territorio raviscaninese, nel biennio 1866-1868. In seguito si darà spiegazione di ciò.

Le imprese compiute dai briganti nell'intero arco di tempo della loro attività in questo territorio furono numerose e varie; alcune comportarono fatti di sangue e prelevamenti di persone molto gravi e impressionanti. Fra le altre vi furono quattro uccisioni di persone e diversi prelevamenti di individui a scopo di finanziamento e sostentamento delle bande in montagna o alla macchia.

Non pochi i raviscaninesi che scelsero la via del Brigantaggio. Fra essi spicca la personalità di Tommaso Di Mundo. Poiché questi é il principale oggetto del presente studio, si tratterà di lui e delle sue imprese nei capitoli seguenti.

In questo, dopo aver offerto le precedenti notizie di ordine generale, verranno brevemente ricordati e esaminati soltanto i fatti di brigantaggio verificatisi nel territorio di Raviscanina antecedentemente all'entrata m scena nello stesso del Di Mundo.

Eccoli in succinto:

24 gennaio 1861 - Alcuni componenti della banda di Pietro Trifilio, detto «il Calabrese» (3), assaltano la masseria del pos-sidente raviscaninese Agostino Masiello, in località «Casarena» (oggi «Casarine»: identificazione dell'Autore; d'ora in avanti: i.d.a.), malmenano la sua famiglia e s'impossessano di 82 ducati e altri oggetti (4).

12 luglio 1861 - Molti elementi del paese già aiutano i briganti alla macchia. In una sua nota l'Intendenza del Circondario di Piedimonte invita perciò il sindaco a formare un elenco di tutti gli individui che lavorano fuori paese, da chiamare periodicamente in Municipio, si da accertarsi sui veri «manutengoli», o somministratori di viveri e vettovaglie, dei briganti (5).

8 settembre 1861 - La Guardia Nazionale insegue i briganti della banda Trifilio fuori del paese, dopo averli allontanati dall'abitato nel quale «insolentivano». L'intendente di Piedimonte, Francesco de Feo, ringrazia il capitano della compagnia, notaio G. Battista De Sisto, e i militi, ma fa osservare che la Guardia non puó essere «mobilizzata» quando é in servizio «stanziale» e «obbligatorio», «qual'é (sic) appunto quello che si rende nel guardare il proprio paese e il proprio tenimento» (6).

2 ottobre 1861 - Sulla strada di Raviscanina (la S. Angelo-Prata) (7) due briganti di Trifilio alleggeriscono della questua giornaliera consistente in 20 ducati Fra' Michele da Lucito del Convento dei Minori Osservanti di Prata (8).

27 dicembre 1861 - La G. N. arresta Luisa Rao «manutengola» dei briganti (9).

6 settembre 1862 - Viene accusato di connivenza coi briganti in due ricorsi alla Prefettura di Caserta, uno recante le firme false di D. Flammio Casi (sic) e D. Achille Del Giudice e l'altro anonimo, un certo Fra'Giuseppe di Caiazzo del Convento di S Antonio di Teano, di stanza nell’ospizio di S. Angelo a Raviscanina. Il religioso e accusato di fornir viveri ai briganti e «di essere completamente conscio delle loro imprese» (10). É un esempio questo che, anche a Raviscanina come in tutte le zone interessate dal fenomeno del Brigantaggio dell'Italia Meridionale qualche elemento del clero regolare e secolare appoggiava i briganti.

13 marzo 1863 – È la data di una duplice uccisione commessa dal Brigantaggio in paese: in una località montana denominata «Ciammarrucone», su di una breve altura, che da allora si chiamò “Il Colle di Gennarone”, a 700 metri di quota circa, in direzione Nord-Est dall’abitato, vengono rinvenuti i cadaveri di due guardaboschi: sono Gennaro Leone, guardaboschi del Comune di Raviscanina, e Gabriele Pugliese, guardaboschi del Comune di Ailano

Le due morti, subito attribuite ai briganti, destano enorme impressione nel piccolo centro. É la prima volta che esso viene ad essere macchiato di sangue dal Brigantaggio, ed anche di sangue paesano. Viene pertanto esagerato il numero, accresciuta la ferocia, ingigantita l'impresa dei briganti.

La sottoprefettura di Piedimonte, informata del fatto dal sindaco, partecipa «con dolorosa impressione» al lutto del paese assicura il proprio intervento, consistente nell'interessare del fatto l’Autorità Militare e i Carabinieri, esorta la G. N. a vigilare pensa al modo come aiutare la vedova del Leone (11)

E appena del giorno dopo una nota della stessa sottoprefettura al Comune, con la quale, mentre si esorta sempre la G. N. «a stare all’erta», la si invita però «a far animo alla popolazione» ritenendo essa che «il numero dei briganti sia esagerato e che le loro millanterie sieno al solito un mezzo per tener agitate le menti e per estorcere più facilmente l'altrui» (12)

II guardaboschi Gennaro Leone era fratello di Antimo Leone, che sarà anche lui guardaboschi e sarà anche lui ucciso da briganti, ma da briganti raviscaninesi, capeggiati, forse, da Tommaso Di Mundo.

Ma il povero Gennaro da chi fu ucciso in effetti? Non lo si saprà mai con certezza: probabilmente da elementi della banda di Domenico Fuoco, che nell’anno 1863, come fará pure nel 1864, operava anche nel territorio nord-occidentale del Matese, oltre che nelle zone di Mignano, Cassino e Venafro. La grossa banda che era comparsa sulle montagne di Raviscanina e che aveva determinato la spedizione di un rinforzo di truppe in paese da parte della sottoprefettura qualche giorno prima del rinvenimento dei due cadaveri, non poteva essere che quella del Fuoco (13).

E perché fu ucciso? Neanche a questa domanda si può rispondere esattamente. Forse, col suo collega Pugliese, intralciava, quand'era in servizio nei boschi, i movimenti, e quindi le azioni dei briganti; forse aveva fatto una spiata ai Carabinieri sulla pre-senza dei briganti in montagna: si vuol credere perché aveva compiuto il suo dovere.

Alla sua vedova, Teresa De Cristofano, vennero elargite «offerte» periodiche dalla Commissione Provinciale creata al fine di aiutare i danneggiati dal Brigantaggio. Queste offerte o sussidi erano sempre condizionate al fatto che essa si conservasse «nello stato di vedovanza» (14).

41uglio 1863-Accade nella locale G. N., l'antagonista del Brigantaggio. E un fatto insignificante. Lo si riferisce perché fatti del genere erano la regola più che l'eccezione nella vita della G. N. Essi danno quindi la ragione del cattivo funzionamento di quella istituzione. Ciò comportò il quasi isolamento dello Stato di fronte al Brigantaggio. Per venirne a capo, quello dovette affrontare gravissime difficoltà e compiere grandissimi sforzi, anche di natura economica.

Si riporta, poi, integralmente la comunicazione che lo illustra, per un certo «humour», anche se grossolano e contadinesco, che aleggia in esso e tutto lo pervade.

Ecco la comunicazione: «Al Signor Capitano della G. N. di Raviscanina

Signore La sera dei quattro corrente luglio non si sono presentati li quattro indovidui (sic) Ippolito Juppa, Francesco Masiello, Eliseo de Mundo, e Giovanni Antonelli dei quali induviduvi (sic) mandai a prendere Ippolito Juppa e quello rispose che doveva dormire.

li cinque Luglio 1863

II Sergente

Vincenzo Rao» (15)

19 maggio 1865 - In una comunicazione al Sindaco si fa cenno alla cattura di due «manutengoli» raviscaninesi, certi Di Mundo e Izzo, nella localitá montana denominata «Cursi» (oggi «Curzio» o «Curcio»: i.d.a.). 1 due, già rimessi in libertà, devono essere interrogati dal sindaco sulla posizione nei confronti del Brigantaggio di un certo Pasquale Pezza di Valle Agricola, che é sospettato di essere stato «coautore» della loro cattura (16).

Si cerca, forse, con l'insinuazione, di spezzare il fronte del «Banditismo» o quello dell'omertà, che si era stabilito in quel periodo, nelle zone del Brigantaggio, tra le popolazioni stesse e i briganti? O é un tentativo ante litteram di procurarsi dei «pentiti», utili per debellare il fenomeno?

E chi era questo Di Mundo? Non si é proprio in grado di rispondere all'ultima domanda. Di sicuro si sa che nei futuri processi a carico del brigante Tommaso Di Mundo questo fatto non viene preso in esame. Ma ora é tempo di passare a trattare proprio di lui.

Fanciullezza e prima gioventù di Tommaso Di Mundo

Tommaso di Mundo nacque a Raviscanina il 9 ottobre 1838 da Giovanni e Vittoria Mastrati, piccoli «possidenti», come si diceva allora, o «coltivatori diretti», come si dice oggi, del tranquillo comune aggrappato alle falde sud-occidentali del Matese (21).

La famiglia, perciò, doveva avere del «suo»; ed egli vide la luce in una modesta casa, probabilmente di proprietà dei suoi, della Contrada Casa Mantella (sic), oggi Via Claudio Caninio(22).

Rimase orfano di padre a tredici anni (23), e di madre a diciassette (24): la sua fanciullezza e la sua adolescenza, quindi, non furono facili e felici.

Ebbe come tutore il sacerdote raviscaninese Don Michele Rao (25). Forse fu questi che ne completò l'istruzione elementare, che egli aveva dovuto già in parte ricevere, per interessamento del genitore, nella sua fanciullezza. Indubbiamente ricevette un'istruzione poco comune per i suoi tempi. Fu anche, se non soprattutto questa, che gli valse in seguito promozioni e posti di responsabilità e di comando.

Da adolescente, e ancor più da giovane, fu bello e forte, libero, fiero e ribelle, pronto e capace, sempre, per prestanza fisica, intelligenza e istruzione, a capeggiare squadre di coetanei in imprese rischiose, lecite e illecite, proprie di quelle età della vita. Fu poco incline, invece, al duro lavoro dei campi e al paziente impegno di bottega. Certamente avevano influito sulla formazione del suo carattere indipendente e spregiudicato la mancanza, troppo presto avvertita, dell'autorevole guida paterna, e quella, anche presto subita, dell'amorevole comprensione materna.

I primi frutti di questa sua formazione non si fecero attendere a lungo. Aveva appena diciannove anni, ed era ancora sotto tutela legale, quando rapi, a scopo di matrimonio, Donna Marianna Jannace, figlia di Don Paolo e sorella del Dottore Fisico (Dottore in Medicina) Don Gian Giuseppe, appartenente pertanto ad una delle principali famiglie di «galantuomini» del luogo (26). Ciò avveniva il 7 marzo del 1858 (27).

La giovane aveva allora ventitre anni e doveva essere anche molto bella, se aveva spinto l'ancora acerbo, ma ben determinato giovanetto ad affrontare le ire della potente e ricca famiglia raviscaninese, e quindi i rigori della Legge, pur di farla sua.

II Di Mundo, dunque, rapita l'amata, se la portò in montagna e li cominciò a convivere con lei «more uxorio».

A questo punto si é propensi a ritenere, per i fatti che seguirono: principalmente la nascita della figlia Vittoria, che la fuga dovette essere preventivamente concertata tra i due giovani. Essi dovevano amarsi in segreto da molto tempo; la giovane si era dovuta concedere al fidanzato, completamento, in uno dei loro incontri furtivi; forse si erano entrambi accorti, in seguito, di qualche conseguenza di quell'atto difficilmente occultabile e, allora, ancor più difficilmente eliminabile: si erano perciò risoluti a «fuggire», per dare uno sbocco alla loro situazione, oramai tanto difficile, e al loro tenace sentimento, altrimenti senza via d'uscita e senza completo appagamento.

L'espediente della fuga degli innamorati con le relative conseguenze, per costringere le famiglie riluttanti a consentire alle nozze, era allora a Raviscanina e in tutta l'Italia meridionale molto in voga. Oggi l'usanza non é del tutto scomparsa, anche se i casi che ad essa si riferiscono vanno, progressivamente, sempre più diminuendo di numero.

In un primo tempo, infatti, Ia famiglia Jannace denunziò il Di Mundo alla Gran Corte «per ratto con violenza», in persona di Donna Marianna Jannace, fatto avvenuto nel mese di marzo 1858. E fu questa la prima di una lunga serie di imputazioni colle quali Tommaso Di Mundo vedrà, nel tempo, appesantirsi la sua fedina penale.

Ma il Di Mundo non si fece prendere dalla «forza»: continuò a starsi con la sua donna in montagna o, comunque, in latitanza, m attesa del processo, fissato per il 1° maggio. In questo frattempo un fatto nuovo si manifestò e diventò « éclatant »: l'avanzato stato di gravidanza della giovane Jannace. II processo allora si concluse con un nulla di fatto (fu archiviato) e, immediatamente dopo, il 4 maggio 1858, i due giovani si sposarono, con una sola pubblicazione, invece delle tre rituali, per l'urgenza che il caso richiedeva (28). Testimoni di queste nozze o compari, come si dice ancor oggi a Raviscanina, furono un «galantuomo», il far-macista Don Costantino Mancini, e una «Donna», donna Raffaela La Ricca, moglie del notaio Don G. Battista De Sisto, membri di altre due importanti famiglie raviscaninesi, i quali, forse, avevano prestato i loro buoni uffici, affinché la famiglia Jannace della quale ambedue erano intimi, uscisse dall'«impasse» in cui s'era cacciata.

Alla giovane famiglia, il 15 settembre 1858, nacque la primogenita, alla quale fu imposto il nome dell'ava paterna, Vittoria.

Del Di Mundo non si hanno poi notizie di rilievo per gli anni 1859 e 1860, pur essendo l'ultimo un anno fondamentale per Raviscanina e l'Italia Meridionale, le quali videro, allora, la caduta della Casa regnante, i Borboni di Napoli, e l'unificazione della Penisola, sotto i Savoia. Si stenta a capire come un giovane intraprendente e impetuoso qual era il Di Mundo abbia potuto star fermo in quel po' po' di sommovimento, e non si sia, invece, gettato nella mischia, dall'una o dall’altra parte, come pure fece il suo paesano, Costantino Sarcione, scegliendo la parte garibaldina (29). Forse cercava di comportarsi bene, per essere degno della famiglia della moglie, ingraziarsela e ottenere, quindi, qualche impiego fisso, alle dipendenze comunali.

Nel 1861 lo troviamo, infatti, iscritto nella lista della C.N. del suo Comune, al numero 78 (30). Reiscritto nell'anno seguente al numero 47 della medesima lista (31), per la sua condotta e la sua_ istruzione fu promosso «sergente foriere» (sic) di quel Corpo militarizzato e nominato Segretario della Commissione di Disci-plina preposta allo stesso (32).

Intanto, nello stesso anno 1862, suo cognato, il Dottore Fisico Don Gian Giuseppe Jannace, era diventato sindaco di Raviscanina.

Certamente il giovane dovette allora vieppiù impegnarsi per ottenere un'occupazione stabile e dignitosa; e, per questo dovette continuamente pressare il fratello di sua moglie.

Questi, per tenerselo buono, in attesa di poter far di meglio, gli affidò diversi incarichi provvisori di scritturale sul Comune; ma non riusciva a reperirgli un posto duraturo, in pianta statile.

Passavano cosi gli anni 1862 e 1863.

Nel 1864, invece, si presentò al Di Mundo l'opportunità di realizzare le sue aspirazioni: il guardaboschi comunale Biagio Di Mundo, sottoposto a giudizio m un processo penale, venne sospeso dal servizio e al suo posto fu nominato provvisoriamente proprio lui. Pensò allora di avercela fatta; e stava sempre appresso al cognato e agli altri amministratori, per farsi prolungare la nomina, anzi per farsela cambiare in nomina definitiva. Per propiziarsi la quale tentò anche di spingere il cognato e qualche amico influente di quello ad aggravare nel processo la posizione del guardaboschi che sostituiva.

Ma si era giunti al 1865 e la nomina definitiva non veniva. Cominciò allora a perdere la pazienza. Indirizzò prima il 30 marzo, violente ingiurie contro Paolo De Sisto, un amico del cognato, che, torse, non era favorevole al suo disegno; e se ne ebbe una querela-denunzia, con conseguente processo, che si risolse in una condanna all’ammenda di L. 3 e alle spese del processo (33).

Fu denunziato poi, nel mese di luglio, per «incendio volontario col danno maggiore di L. 500 in pregiudizio della proprietà di Angelo Masiello», non si sa bene, perché suo nemico. Da questo secondo processo se ne usci per insufficienza di prove (34).

Verisimilmente per questi processi, si allontanò sempre di più la sua nomina definitiva a guardaboschi comunale; forse gli venne minacciata la revoca della stessa nomina di guardaboschi provvisorio. Egli allora si scagliò con veemenza contro la sua famiglia, contro gli amici di quella e i suoi amici stessi, contro la società tutta. Fu certamente questo il momento della sua vita in cui scopri il Brigantaggio.

Cap. 2° - Tommaso Di Mundo, capobrigante

Si é visto nell'introduzione come il fenomeno del Brigantaggio avesse interessato e colpito anche il piccolo centro di Raviscanina giá dal suo primo apparire nelle zone interne dell'Italia…