Deo Patri sit gloria

Deo Patri sit gloria,

et Filio qui a mortuis

surrexit, ac Paraclito,

in saeculorum saecula. Amen.

Continua il mare ad esser calmo e pur oggi qui, sulla spiaggia, i colori sono da tavolozza, brillati dal sole che batte forte anche di prima mattina. Però, il mare ha un azzurro più profondo nel pomeriggio, quando lo traguardo tra i verdi pini dalla finestra della mia casa. È la contemplazione del dolce far niente. L'espressione, il dolce far niente, la cui validità ho scoperto in vecchiaia, che uso e che pare abbia usato anche prima in queste pagine, non è mia, mi viene in mente dai ricordi della giovinezza, la buona scuola di allora. Solo di recente ne ho ritrovato l'autore, che è Rousseau. Le motivazioni che dà il filosofo letterato alla qualificazione di dolcezza del modo dire da me sono condivise, tranne che per una parte. Certamente non è inazione, questo dolce far niente, ma posizione quasi estatica, di ritorno appagato a sé, di salutare solitudine. In tale situazione si gode di nulla di esterno a sé, di nulla se non di se stesso e della propria esistenza. Il Rousseau dice che fin quando questo stato dura, si basta a se stessi. E aggiunge: come un dio. In questo non sono d'accordo, perché di Dio si sente il bisogno. Può essere vero che il sentimento dell'esistenza, spogliato di ogni altro fenomeno affettivo, sia di per sé un sentimento prezioso di appagamento e di pace. Ma in questo modo, alla maniera per così dire laica, il discorso resta incompiuto: il circolo non si chiude.

Chi sono, ma da dove vengo, dove vado? L'uomo ha bisogno di Dio per trovarvi l'aggancio risolutore alla sua solitudine esistenziale. Il dolce far niente è, allora, contemplazione di sé per essere contemplazione di Dio, nel suo dinamismo trinitario e nella sua propensione all'uomo che gli dà gloria attraverso se stesso, gli uomini che gli stanno attorno e la natura. Il dolce far niente è, insomma, la contemplazione della propria condizione umana, scaricata dalla pesantezza della terrestrità e liberata dalle cose che non contano. È uno strumento per vivere meglio ogni giorno la propria spiritualità tra le cose visibili, appunto quelle che non contano, per ritrovarsi solo, in pace, con se stesso e con le cose invisibili, quelle che contano sul serio.

In fondo, la positività della meditazione nella vita cristiana, peraltro più evidenziata nel regime monastico e conventuale, ma indispensabile in ogni stato di vita dell'uomo che crede, è data appunto da questo ritrovarsi con se stesso, libero, proiettato su se stesso e sulle proprie urgenze interiori, aperto a Dio e al suo Spirito, pronto a riempire i vuoti che creano in se stesso la scienza e la conoscenza della propria finitezza. Così si spiega ora la fissità dello sguardo e del corpo dei monaci nel coro durante i tempi dell'orazione mentale, elemento base dell'ascetica e primo passo verso la mistica, quando diventa contemplazione. È l'adorazione, il senso dell'adorazione, silenziosa, al Padre, con la fronte rivolta al tabernacolo, anche i preti quando celebrano l'eucaristia. non può rendersi visibile, comunitario per non dire spettacolare, il momento del contatto diretto con Dio, personale, segreto, misterioso. Fa bene papa Ratzinger, quando può, a voltare le spalle al popolo quando celebra, quando rinnova il sacrificio del Figlio di Dio fatto uomo e lo offre per la redenzione dell'umanità.

Nel Catechismo, che è fonte fondamentale di cultura religiosa cristiana, l'adorazione è definita in termini inequivocabili. Della virtù della religione, l'adorazione è l'atto principale. Adorare Dio è riconoscerlo come Dio, come creatore e salvatore, signore e padrone di tutto ciò che esiste, amore infinito e misericordioso. «Solo al Signore tu ti prostrerai, lui solo adorerai», dice Gesù, citando il Deuteronomio. Adorare Dio è riconoscere, nel rispetto e nella sottomissione assoluta, il «nulla della creatura», la quale non esiste che da Dio. Adorare Dio come Maria nel Magnificat è lodarlo, esaltarlo e umiliare se stesso, confessando con gratitudine che egli ha fatto grandi cose e che santo è il suo nome. L'adorazione del Dio unico libera l'uomo dal ripiegamento su se stesso, dalla schiavitù del peccato e dall'idolatria del mondo.

È adorazione, Dio mio Signore, questo mio dolce far niente, è darti gloria, è contemplazione di te, la massima poesia della vita. Tutto quel che mi resta dell'esistere quaggiù è preghiera a te, anche i momenti della mia terrestrità voglio che siano mezzi per glorificarti. Scrivilo nei tuoi rotoli questo mio proposito come un fatto di sempre, non dolo d'oggi, che è la festa dell'assunzione della Vergine Maria al cielo. Diceva mia madre che anche i turchi la festeggiano l'Assunta ed io l'ho ricordato ieri sera con l'anguria tradizionale della vigilia antica, quella della mia giovinezza. rivivo la festa della proclamazione del dogma a metà secolo scorso, Pio XII consumato dalle ansie apostoliche del suo pontificato, il viso quasi di cartapecora con i segni a rilievo delle vene e dei nervi, io giovane pieno di speranze, aperto alle tue benedizioni. Ad Deum per Mariam.

Anche oggi il mare è quieto nell'afoso umidore che appiattisce e appanna i pini del monte e l'antico convento alcantarino è una macchia di bianco sporco appena godibile. A te va la mia preghiera di lode, o Dio, e le pagine che scrivo questo vogliono essere, anche quelle dei tempi passati, in cui l'amore per te si impastava con l'amore del mondo. Son qui, creta sfatta dal tempo, di fronte a te invisibile ma vivo, con me misericordioso senza limiti. Sono il vecchio servo accasciato che professa non esser nulla, nella sua miseria, nelle sue paure. Ti sento signore e padrone e son lieto perché sento di essere al tuo servizio, di appartenerti, di non poter fare a meno di te, ultimo fra tutti, e tu sai quanto mi piace farlo, e mi aggrego a quanti, una moltitudine, nei secoli hanno cantato la tua gloria con la strofe di chiusura dell'inno che mi sta nel cuore.

È di una bellezza lirica fascinosa, i contenuti fondamentali della fede condensati nel ritmo quasi sincopato della sinteticità dell'espressione poetica, la forma magistralmente plasmata e risolta nella semplicità del discorso. La canto ancora in gregoriano, la strofe, con tutti i santi dei secoli, con tutti gli angeli del cielo, a darti lode, Dio uno e trino, creatore e padrone dei tempi e degli spazi, signore mio amabilissimo e pieno di misericordia. Sit gloria. Sì, vorrei avere tutte le forze della natura per gridarlo a tutti i cieli dell'universo: sia gloria a Dio nella sua unità e nella trinità delle sue persone.

Qual è la gloria di Dio? Mosè chiede di vedere questa gloria dopo l'adorazione di Israele del vitello d'oro e dopo di avere acconsentito alla preghiera del profeta di camminare in mezzo ad un popolo infedele, manifestando in tale maniera il suo amore. Dio gli risponde «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore [YHWE], davanti a te». e il Signore passa davanti a Mosè e proclama «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione». È il Dio che ama e con le sue minacce vuole incutere il suo santo timore, che è pur esso un dono dello Spirito Santo.

La gloria di Dio è la salvezza dell'uomo e per la salvezza dell'uomo egli s'incarna nel ventre di Maria. Gloria sia al Figlio di Dio fatto uomo, si canta nell'epilogo trinitario dell'inno, voto, preghiera e osanna a Dio uno e trino. Et filio qui a mortuis surrexit. L'autore coglie della seconda persona della Trinità l'aspetto più misterioso e nello stesso tempo più ricco di speranza per l'uomo: la risurrezione. Per risorgere è nato ed è morto. La scelta dell'estensore del testo nel qualificare il valore della redenzione non è, però, solo dettato da un ragionamento per così dire cronologico, ma è soprattutto fatta per introdurre a buona ragione la prospettiva del futuro. Dove va l'uomo? Bastava l'incarnazione per la redenzione dell'umanità e il martirio con la morte in croce è certamente un atto d'amore infinito del creatore per la sua creatura; la risurrezione, però, il mistero risolve nella speranza di vedere Dio faccia a faccia per tutta l'eternità, di risorgere pure noi con tutto il corpo ristabilendo l'unità anima-corpo della creazione, vincendo cioè la morte, punizione durissima della colpa della disubbidienza.

Sia gloria al Figlio qui a mortuis surrexit. La morte. L'ho detta tante volte bella, bionda, bendata, sottomessa s Dio; ma è un momento triste dell'esilio dell'uomo, quello del distacco definitivo. È l'incontro personale del giuidizio. In die illa tremendae: è un verso di un altro inno che nell'attuale liturgia, non so con quanta saggezza, si mette in disuso; si riferisce al giorno del giudizio universale, ma è ben riferibile anche a quello particolare. Tremenda. La morte sorella, per forza sorella, ma come sarebbe bello tenerla lontana. È un episodio della vita, l'ultimo del nostro passaggio sulla terra, questa valle di lacrime.

San Paolo con la sua fede, usando la sua prosa prorompente d'efficacia, in questa meditazione sul primo dei novissimi ci apre la mente ad avere più fiducia e il cuore a sentire con più forza la signoria di Dio per giungere al traguardo pronti. Estote parati. Il messaggio paolino potrebbe apparire retorico, ma non lo è perché s'intesse in una brama di provvidenziale robustezza teologica. «Fratelli, quando questo corpo mortale si sarà vestito d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo».

E, sempre nella prima lettera ai Corinzi, Paolo di Tarso assicura che, se Adamo ci ha procurato la morte, il terribile castigo della separazione dell'anima dal corpo, Cristo Gesù ci fa risorgere. Siamo nell'anno paolino ed è bene che ciascuno se ne ricordi. Anche per questo, è con piacere che riprendiamo utili citazioni dalle lettere dell'apostolo delle genti. «Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti, perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia, poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi».

La risurrezione di Gesù è, secondo la dottrina della Chiesa espressa nel Catechismo, la verità culminante della nostre fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce. L'autore coglie in pieno questi valori e li immette nella conclusione dell'inno, ma pure nella sua sintesi teologica finale attraverso la risurrezione dà gloria alla santissima Trinità, perché di questa è opera la risurrezione.

Lo si chiarisce in maniera inequivocabile nel Catechismo. La risurrezione di Cristo è oggetto di fede in quanto è un intervento trascendente di dio stesso nella creazione e nella storia. In essa le tre persone divine agiscono insieme e al tempo stesso manifestano la loro propria originalità. Essa si è compiuta per la potenza del Padre che ha risuscitato Cristo, suo Figlio, e in questo modo ha introdotto in maniera perfetta la sua umanità con il suo corpo nella Trinità. Gesù viene definitivamente costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti. San Paolo insiste sulla manifestazione della potenza di Dio per opera dello Spirito che ha vivificato l'umanità morta di Cristo e l'ha chiamata allo stato glorioso di Signore.

Quindi, al Paraclito, Spirito di Dio e Spirito di Gesù Cristo, utriusque, sia gloria con il Padre e con il Figlio nei secoli dei secoli, in saecula saeculorm, fino alla fine dei tempi. Il voto si fa preghiera: tuo è il regno, tua è la potenza, tua è la gloria. La preghiera si alza tranquilla dal profondo delle viscere e la rivolgo a te per me, per la Chiesa, per il mondo intero. Io ho bisogno di pace, la pace che mi consente di tuffarmi interamente in te per partecipare del tuo amore trinitario, per essere compiutamente libero, della libertà dei figli di Dio, per vivere il mio getsemani nella volontà del Padre, in pieno, con la speranza viva, assai viva, della risurrezione. Cos'altro posso volere io, se non sentire e vivere il più intensamente possibile la mia appartenenza a te? Avvertire la tua signoria dentro la pelle, nei nervi, nel sangue, fino in fondo? Prego per la Chiesa. La Chiesa ha bisogno di pace, la pace indispensabile per essere efficace dispensatrice di grazia. Prego per il mondo. Il mondo ha bisogno di pace, la pace che elimini la guerra di ogni tipo e in ogni suo punto, che tolga la fame tra i patimenti dell'uomo, che abolisca ogni miseria.

La preghiera è supplica sofferta. La faccio ancora con san Paolo, che scrive ai Romani. «O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio? Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen».