De Sisto_Una sfida a pallone

Lelio De Sisto

UNA SFIDA A PALLONE

(in Narrazioni vol. II, n. 1, marzo 2000, pp. 39-41)

Ben preso il “nostro” esercito, stanco di subire cocenti ed umilianti sconfitte da un nemico che gli era largamente superiore per uomini e mezzi, fu costretto a chiedere la resa. Una decisione drastica, maturata tra l’altro con notevole sofferenza, ma resasi inevitabile dopo la rinuncia di mio cugino Alfonso a farci da capo e a rifornirci di armi. Infatti, era lui che si preoccupava di fabbricarle per tutti nel piccolo laboratorio, che aveva impiantato sotto casa, e il suo abbandono ci procurò un dolore enorme.

Profondamente feriti nell’orgoglio, ma soprattutto perché consapevoli che questo nostro comportamento poteva essere interpretato come un atto di totale sottomissione, per molto tempo non osammo più fare accenni sulle sfide tra il Trone e il resto del paese, tanto che molti di noi evitavano addirittura di uscire pur di risparmiarsi ulteriori mortificazioni.

Mai nessuno, però, abbandonò la speranza di prendersi al più presto una rivincita; naturalmente, con gli interessi.

Intanto, con il passare dei giorni, diminuiva anche la nostalgia per quegli stupidi ed inutili giochi di guerra, mentre una nuova passione, lentamente, incominciava a catturare l’entusiasmo di tutti. Avvenne così, quasi per caso, che ci innamorammo di una palla di cuoio, suscitando persino l’approvazione delle nostre mamme, ormai stufe di vederci tornare a casa sempre malconci.

Il rifugio segreto, che tempo addietro avevamo scoperto poco lontano dal centro abitato, in località “I Santi”, una vecchia casa con ancora visibili sui muri esterni i segni sbiaditi di alcune immagini sacre, da cui probabilmente aveva preso il nome il luogo che la ospitava, continuò ad essere la sede abituale delle nostre riunioni, ma non la usammo più per discutervi di piani militari, bensì per studiarvi strategie e tattiche calcistiche. Per nostra fortuna, lo spazio antistante quel rudere, di dimensioni abbastanza contenute rispetto a quelle di un campo di calcio vero e proprio, per di più in leggera pendenza, si adattava benissimo allo scopo, anche se del piccolo ulivo, che la signora Esterina aveva voluto piantarvi proprio al centro qualche anno prima, ne avremmo fatto volentieri a meno.

Individuato il terreno di gioco, incominciammo a frequentarlo tutti con una certa assiduità. Purtroppo, il contatto giornaliero col pallone non riuscì mai a fare di me un campione; infatti, sprovvisto come ero delle qualità necessarie per diventare un calciatore capii quasi subito che sul campo non sarei stato di grande aiuto alla squadra. Allora decisi di occuparmi della panchina, in poche parole, passai a fare il “mister”.

La rosa dei giocatori che avevo a disposizione, era molto ampia, addirittura potevo contare sullo straniero, Alessandro De Cristofano, un’ala destra dallo scatto bruciante e assai dotata tecnicamente. Nonostante fosse del rione Largo S. Vincenzo, a confine con il Trone, anziché rinforzare la rappresentativa del resto del paese, Alessandro preferì giocare con quella allenata da me. A parte questa eccezione, l’unica e sola in tanti anni di attività agonistica, il resto della squadra era prettamente indigeno.

La prima partitella in famiglia, giocata forse troppo presto, dopo appena un paio di allenamenti, vista la riluttanza che i miei ragazzi nutrivano nei confronti di questi ultimi, si risolse in un fiasco completo. In seguito a quel disastro fummo costretti a rivedere completamente i nostri piani, non potevamo mica continuare così; senza una preparazione adeguata saremmo caduti come degli sprovveduti nella trappola dei nostri avversari; loro, d’altronde, non si aspettavano altro.

Da quel momento in poi, messo da parte il desiderio, diventato per noi una rincorsa sin troppo frenetica, di porre un riparo immediato alle sconfitte patite in passato, dopo che ognuno aveva fatto proprio il divieto tassativo di parlare di rivincite, venne più naturale dar libero sfogo a quel nostro talento calcistico, tenuto conto che la foga di prima ce lo avrebbe lasciato per chissà quanto altro tempo ancora represso dentro.

L’estate del ’66 finì, ma non eravamo pronti per la grande sfida, dovevamo lavorare ancora di più sul campo per riuscire nell’intento di impadronirci definitivamente dei segreti del calcio; di sicuro, visto che eravamo attesi da inevitabili quanto imminenti incombenze scolastiche, avremmo dovuto attendere l’anno successivo per affrontarla. Purtroppo, questi erano i patti.

La riapertura delle scuole inasprì notevolmente lo stato di tensione, peraltro già critico, con i ragazzi del resto del paese; il continuo sfottò, cui eravamo sottoposti quotidianamente, diventava sempre più feroce e ci mandava letteralmente in bestia, ma non ci fu verso che reagissimo una sola volta a quelle provocazioni.

La risposta dovevamo darla solo sul campo.

L’arrivo della primavera, dopo una stagione invernale quanto mai dura – difficilmente potrò cancellare dalla mia mente il ricordo dell’alluvione che colpì all’epoca Raviscanina, in quella occasione assai fortunata perché riuscì a cavarsela con meno danni rispetto ad altri comuni d’Italia – coincise con la ripresa dei nostri allenamenti ai “Santi”.

Il campo, però, a causa della enorme massa d’acqua, che vi si era riversata per tutti quei mesi, era ridotto piuttosto male. Lavorammo sodo per cercare di riportarlo allo stato di prima, ma, nonostante profondessimo il massimo impegno, non ci fu possibile ripristinarlo perché, avendo le continue piogge torrenziali trascinato via enormi quantità di terra, il tratto in pendenza si era inclinato ulteriormente.

Di fronte a tali difficoltà chiunque si sarebbe lasciato vincere dallo sconforto, invece per noi era diverso. Non potevamo arrenderci, altrimenti avremmo corso il rischio di buttare al vento la possibilità di riconquistare l’orgoglio perduto tempo addietro.

Non appena terminò l’anno scolastico mi incontrai con Peppe Rao, un mio compagno di classe che, purtroppo, era anche l’allenatore della squadra avversaria; trovammo subito l’accordo sulla data della grande sfida.

La partita tra Trone e Resto del Paese si sarebbe giocata di mercoledì pomeriggio, ma in una sede diversa da quella dei “Santi”, infatti venne scelta la palestra adiacente l’edificio scolastico, assai familiare a noi studenti, visto che la usavamo per svolgervi le lezioni di educazione fisica. Quella inattesa inversione di campo venne accettata, ma non piacque molto ai miei ragazzi, che la giudicarono particolarmente favorevole agli avversari, perché consentiva loro non solo la possibilità di giocare in casa, ma soprattutto di essere incitati da un pubblico amico.

Ma, a giochi fatti, era del tutto inutile che avessimo più dei ripensamenti, dovevamo solo giocare. Sapevo già che la mia squadra non avrebbe perso quel giorno e me ne convinsi ancora di più non appena scendemmo in campo.

Sul volto di ognuno dei miei giocatori lessi una determinazione mai notata prima, che durò per tutta la gara, un vero e proprio atto di sfida contro quel clima di ostilità con il quale i nostri avversari ci avevano accolto sin dall’inizio.

Tralascio la cronaca di quella che fu solo una delle tante vittorie ottenute contro la squadra di Peppe Rao – che riuscì anche a batterci una volta, ma solo molto tempo dopo – per evitare di cadere in troppe lodi verso i singoli giocatori, quando il merito di quelle importante affermazione fu di tutto il gruppo, un manipolo di ragazzi molto coraggiosi.

I nomi dei calciatori, che allora contribuirono al riscatto del Trone, tanto che molti di loro costituiranno in seguito l’ossatura della squadra ufficiale del paese, la gloriosa S.S. Raviscanina, meritano di essere ricordati almeno su queste pagine. Eccoli: Angelo Masiello; Mario, Eliseo ed Aldo Nassa; Antonio e Lino Palumbo; Giovanni e Giuseppe Raniero; Francesco Cocozza; Gigino Giuliano; Giovanbattista De Sisto; Giovanni De Simone, Alessandro De Cristofano; Antonio Palumbo.