Epigrafia alifana

Dante Marrocco

BREVE STORIA DELLA EPIGRAFIA ALIFANA

(in SAMNIUM 1959 pp. 48-59)

Sono portato già da precedenti studi a interessarmi di quella Città del Sannio che, pur nella sua limitatezza, svolse nell'Impero la vitale funzione che ogni cellula ha nell'organismo. E proprio riflettendo su Alife, ho constatato che, se non si vogliono far voli di fantasia e neanche filosofia della storia, inquadrandola col buono o colla forza in certi schemi, occorre essere schiavo dei fatti piuttosto che delle idee.

E i fatti nella storia sono documenti ed epigrafi, opportunamente vagliati. Essi sono il fondamento di ogni sintesi, tanto che, si può dire, che la vera storia delle antiche epoche è cominciata quando, coll'Umanesimo, è nata la passione a quei lineari e scheletrici segni che una pietra può contenere, e dai quali soltanto, può uscire una provata, obiettiva, sicura visione del passato.

Così, nel caso che intraprendo a esaminare, balza fuori non solo un'arida notizia ma la vita vissuta, proprio come la lettura d'una carta topografica offre allo sguardo dell'esperto non più curve e tratteggi e simboli, ma declivi, rupi, campi e abitati.

La piccola città sannitica e romana rivive perciò sia attraverso la testimonianza a grandi linee di Diodoro, Strabone, Tolomeo, Livio, Plinio, dai quali è mostrata nella sua ubicazione e per le gesta del console Marcio Rutilo, che per le iscrizioni costituenti la prova del suo stadio di civiltà.

Con qualche eccezione, non troveremo nella epigrafia alifana cenni a personaggi di primo piano o a fatti grandiosi, ma ne avremo tanto da rilevarne la posizione giuridica e la vita vissuta.

Posizione giuridica. Dopo la seconda guerra punica la piccola città è ridotta a praefectura sine suffragio. Alcuni casi uguali bastano a far cadere certa storia nazionalista e panegiristica. Nei manuali di storia per le scuole è infatti scritto che, dopo Canne l'Italia rimase compatta con Roma. E invece è falso. Molte città — dove prevalse il partito democratico — si schierarono coll'invasore contro Roma che appoggiava i gruppi terrieri e conservatori. Fece così [49] anche Alife, e da ciò la punizione, sine suffragio, senza voto, senza diritto a parlare. Il suo territorio era ager publicus, dello Stato, e ogni anno il praetor urbanus vi mandava con pieni poteri, un praefectus jure dicundo. Di autonomia neanche l'ombra.

Passarono i tempi, e la popolosa e grassa cittadina ebbe anche l'onore (!) di una colonia di plebei romani. Chi ha soltanto aperto una storia romana dove si parla dei Gracchi, sa di che categoria di gente, i due onesti, per quanto non furbi fratelli, volessero liberare Roma.

E l'attento studioso immaginerà facilmente lo stato d'animo della popolazione sannitica del luogo, che vede il rifiuto di Roma smargiassare innanzi ad essa, e detenere da solo tutti i diritti di cittadinanza, mentre a loro, saldi e ruvidi contadini, il possesso « municipale » del territorio è negato, lege triumvirali est adsignatus, iter populo non debetur! Né le cose mutarono colla venuta di un bel gruppetto di veterani di Silla, tanti « Cornelii », non troppo nobili in verità, e per i quali i proprietari dovettero cedere un pezzo di terra.

Quale conseguenza, ecco la guerra sociale. E in questa occasione venne la cittadinanza e l'iscrizione alla tribus Teretina alle famiglie abbienti alifane, i « campieri » di allora.

Coll'agonia della repubblica patrizia sorge l'Impero, che è più largo verso i popoli soggetti. Sotto Augusto, i cittadini romani in Alife potevano essere circa il trenta per cento della popolazione. Abbastanza numerosi dunque, ma soprattutto forti socialmente, e tutto era pacifico.

In questo Municipio i cittadini « ingenui », liberi, eleggevano le cariche.

Un defensor rei publicae o patronus era a Roma l'avvocato della Città (anche di una corporazione), un praefectus jure dicundo amministrava la giustizia, i duoviri quinquennales, e i duoviri jure dicundo presiedevano i comizi, il decurionato, il tribunale e controllavano le finanze.

L'ordo decurionum, piccolo senato cittadino, elettivo, vitalizio amministrava Alife. Nominava questi funzionari: i quaestores per il censimento, i quaestores pecuniae publicae per amministrare il tesoro pubblico, i quaestores sacrae pecuniae alimentariae per soccorrere i poveri da parte dell'Imperatore, perciò Ufficio di assistenza, i duoviri aediles per i lavori pubblici, la polizia, i mercati, un curator aquae ducendae per il grandioso acquedotto del Torano [50] e altri minori, un curator viarum sternendarum per la manutenzione delle vie, un praepositus pecuniae frumentariae preposto all'annona.

Naturalmente in un piccolo borgo, una persona riuniva più uffici.

Uno sguardo ora alla vita vissuta.

Tra le feste religiose, lasciate alla tradizione locale, aveva pi­gliato la preminenza il culto imperiale. Un collegium Augustalium che sceglieva nel suo seno un quaestor Augustalium, interamente for­mato di liberti, onorava l'Imperatore pensando a far feste. Oltre a questi festaioli, precursori delle « commissioni » di oggi, vi erano (sempre dalle lapidi) i magistri sacrorum Junonis. Questa era la dea più venerata e, pare, la tutelare di Alife per avere un collegium. Vi erano pure sacerdoti di Venere, un contubernium, di Diana, e della Gran Madre, e di questa si faceva la processione, portando in giro il simbolico pino.

I lavoratori — più che altro datori di lavoro — erano organiz­zati in corporazioni. Alcune soltanto hanno lasciato traccia.

I boschi del Matese, statali, venivano fittati e sfruttati, e c'era il collegium dendroforum di affittuari di boschi e negozianti di legna­me. Falegnami ecc. componevano il collegium fabrum tignariorum e i numerosi produttori di vino ed olio, il collegium capulatorum sacerdotum Dianae.

La vita di ogni giorno era calma anzi un po' monotona, se l'ar­rivo di leoni e di trenta coppie di gladiatori e le conseguenti lotte feroci nel locale anfiteatro (in via SS. Sette Fratelli), doveva destare tale entusiasmo da far dettare una lapide a L. Fadio Piero che per due volte li aveva fatti venire.

Un anfiteatro dunque c'era, vi dovevano essere perciò palestre e atleti. E proprio come avviene oggi per la partita domenicale a pal­lone, così avveniva allora per l'attività sportiva che era un eccitante diversivo. Se si pensa alla strage di nocerini nell'anfiteatro di Pom­pei, nessuna meraviglia che atleti e tifosi alifani menassero botte a Sessa Aurunca, tanto da essere immortalati dal graffito: alifanis amaris feliciter.

Quanto alla finanza locale, un capitale proveniente da agricol­tura e commercio, la zecca alifana — da Augusto a Gallieno — coniando solo il bronzo, dava la più corrente manifestazione.

Insomma lavoro e feste, ecco la vita della cittadina meridionale. Una storia senza date che ci dice: fatica di plebei e capitali di commercianti; e quali diversivi: bramosia incivile di guardare due che si ammazzano, pantagruelici lectisternia, pranzi esagerati, fatti [51] nelle feste per il proprio stomaco non certo per onorare gli Dei. Unico svago più elevalo, i ludi scaenici, al teatro (al largo Cattedrale), sola religiosità più sentita, quella delle tombe.

Questo regime di vita spingeva pure verso l'alto gli equites, gli abbienti, e qualche alifano arrivò effettivamente in alto. Curioso il fatto che dei due più illustri alifani durante l'Impero si sia per­duto il nome. Uno di essi — il nome termina in ...ricianus — di­venne Legato proconsolare nella Spagna Ulteriore (l'attuale Porto­gallo e Andalusia) dove andò a governare. L'altro arrivò a Console sotto Tiberio, e deve essere stato C. Petronius Pontius Nigrinus l'anno 37. Ma a questa alta carica, sebbene destinati a senatu, anche due Cluvii arrivarono, che se non proprio cittadini, erano certo della zona. Anche altri Ponzii salirono molto a Roma, Sesto Minio Silvano fu un giurista di valore, e Marco Granio divenne tribuno mi­litare, e cioè comandò una Legione.

Quando son venute fuori? e chi ne ha parlato?

S'è cominciato nel '400, e tuttora ne vengono alla luce[1].

Tutti i più noti epigrafisti del '500 ne hanno dato notizia, gli eruditi del '700 hanno aggiunto la loro parte, e nell'800 il Mommsen le ha sistemate nel suo Corpus Inscriptionum Latinarum (Libro IX Samnium).

Di essi alcuni erano piedimontesi, altri hanno dimorato nella zona o più semplicemente la percorsero, ma la più parte, no. Hanno ricevuto e tramandato. Gli studiosi che, lontano, ricevevano qualche iscrizione che sembrava frammentaria o imperfetta, la correggevano e la completavano. Si son formate così derivazioni, vere « famiglie » di epigrafisti di Alife.

Ricordiamo prima brevemente questi studiosi.

Il primo umanista che riporti un'iscrizione alifana fu Giovanni da Bologna (Bononius) che nel 1498 pubblicò un Liber autographus. È funeraria e, direi, singolare:

C. PURELLIUS. PAPIA. AUG. ET. QUAESTOR. AUG. ALLIFIS. SIBI

ET. C. ATILIO. NATALI. AUG. ET. Q. AUG [52]

ALLIFIS. ET. ATILIAE. IARINAE. CONCUBINAE

ET. C. ATILIO. QUARTIONI. AMICO

H. M. H. N. S.

Una lapide in mano ad uno studioso lontano non era certo la prima tornata alla luce, e del resto già nella cronaca di Petro de Sisto, vissuto fra i sec. XII-XIII, v'è un cenno ad antichi

« petaffi ». Ma chi per ampiezza di raccolta pose le basi dell'epigrafia alifana e attirò ad essa l'attenzione generale, fu un ignorato umanista del luogo: Francesco Filippo di Piedimonte. Questo letterato, autore di un Ecphrasis in Horatii Flacci poëticam e maestro del petrarchi­sta Ludovico Paterno, visse modestamente, nel primo '500 nel suo paesello, poi, conosciuto alquanto a Napoli, andò presso il Conte di Conza, quale Segretario. Verso la metà del '500 aveva già raccolto molte iscrizioni dell’Italia meridionale e ne preparò l'edizione. Per l'esattezza con cui tratta dei luoghi, dovette girare attentamente intorno al Matese e nella zona di Còmpsa. Pietro Vettori di Firenze deriva dal piedimontese per le iscrizioni meridionali, e molte lapidi del codice 743, f. 86-109 della Bibl. di Monaco sono pigliate da lui. Il Filippo gli aveva inviato

« ...inscriptiones ...ex vetustissimis lapidibus a me accurate et laboriose descriptae, quibus observationes varias et adnotationes adiunxi ».

Al Vettori si ispirò Vincenzo Borghini † 1580 che nel suo co­dice miniato « Raccolta di iscrizioni ed epigrafi latine » oggi alla Magliabechiana N 10.109, trascrive le iscrizioni di Francesco Fi­lippo. Anche Aldo Manuzio, tramite il Vettori, deriva dal Pede­montano alcune epigrafi del codice Vaticano 5237, f. 133-38. E finisce qui il primo ramo di derivazione dell'epigrafia alifana. Franc. Fi­lippo è rimasto uno sconosciuto, ma meritava un'altra sorte.

Mariangelo Accursio, più noto del Filippo, fece più conoscere l'epigrafia alifana. Le sue sono ricerche fondate e autorevoli. Egli il­lustrò, fra le altre, la lapide delle terme, trovata in Alife e ora al Museo di Piedimonte.

Tutte le raccolte che ora seguono, hanno più o meno un'origine comune, perciò gli errori del capostipite si ripetono in chi ne deriva. Da un sacerdote di Anagni ricavò le lapidi alifane il fiammingo Martino Smet (Smetius). Non nomina il prete epigrafista, né venne mai ad Alife. La sua raccolta fu pubblicata in due edizioni, la prima del 1551, autografa con 14 iscrizioni alifane, l'altra del 1565. Le sue iscrizioni passarono, fra gli altri, a Metello e Fighi.

Giovanni Matalius (Metellus) pubblicò la sua raccolta quando [53] tornò da Roma in Francia. In essa le lapidi alifane gli vengono un po' da tutti. Gli errori perciò, più che suoi, sono di quelli che gliele hanno date. Ne ricavò da Smetius, dall'Agustin, tramite Fra Giocondo, dal Torelli di Fano, da un codice in cui erano le raccolte di P. Sabino ed altri. Gliene dettero A. Morillon, Fighi e Wallambert, quelle campane il parigino Abel Port e il Nicot, quelle di Rieti il Ligorio e quelle della Marsica il Mancini.

Anche Stefano Vinandio Pigghe (Pighius) † 1604, un belga, venne due volte in Italia fino a Napoli, visitando città e forse fu ad Alife, ma le iscrizioni locali le ebbe da Smet quando insieme stavano malati a Roma. Entrambi corressero la commovente iscrizione trovata nel ‘500, poi perduta, ritrovata nel 1955, ed ora nel giardino pubblico di Alife:

L. FADIO. L. F. / CAEDIANO. EQUIT / ROMAN. PIETATIS / RARISSIMAE. FILIO / CAEDIA. FESTA. MATER / INFELICISSIMA / ARCUM. ET. ARAM. FECIT / VIXIT. ANNIS XXV / MENS. V. DIES. IIII

L'opera epigrafica di Metello è vasta sia per la diligenza e intelligenza sua che per le numerose fonti cui attinse. Ma chi lo superò per ampiezza di raccolta e per diffusione fu Antonio Agustin (Augustinus).

L'Agustin, nato a Saragozza nel 1516, si dette alla carriera ecclesiastica, studiò a Salamanca, Padova e Bologna, e divenne insigne giurista. Nel 1544 fu Uditore di Rota, nel '54 Nunzio in Inghilterra, dal 1557 al '61 fu Vescovo di Alife, ma, chiamato al concilio di Trento, non assisté alla distruzione della Città nel 1561. In questo anno fu trasferito a Lérida, e nel '76 promosso Arcivescovo di Tarragona ove morì nel 1587. Mente poderosa, ha lasciato tracce in Diritto, Teologia, Filologia, Araldica, Archeologia e Numismatica. Versatissimo poi nel Diritto canonico, applicò ad esso il metodo storico, come facevano gli interpreti del Diritto romano. Scrisse ventisette opere, e fra esse c'interessa qui: « Inscripciones i otras antiguedades ». Insomma, fu una delle figure più notevoli del secolo di Filippo II.

Il prelato giurista era anche un epigrafista appassionato. Quando era malato a Roma, quand'era Vescovo nel Regno di Napoli l'accoglieva assiduamente e partecipava ad altri. Ecco la sua lettera al Panvinio del 6 gen. 1559: « ...di iscrittioni vi potrò servire con parecchie di Napoli e d'Allife, delle quali sono alcune stampate per se, altre si stamperanno ad istanza di un certo M. Francesco di Pedemonte, che sta col Conte di Consa... ». E il 26 dic. 1559: « ...mando [54] una inscritione, dove è menzione di tre consoli, avo padre e nipote... Trovansi molte altre in questa mia diocesi, le quali sono stampate scorrettamente: io le farò correger, perché le possiate goder ancor voi »[2].

I suoi codici epigrafici si trovano ora a Madrid nella Bibl. nazionale. Di lapidi alifane molte sono in Q. 87, poche in B b 187.

L'Agustin cercò di persona, ma più ancora ricevé. Dato il gran nome, tutti ormai ne lessero l'opera, e così le lapidi di Alife e dell'Italia Meridionale furono conosciute da tutti i dotti d'Europa.

II P. Ottavio Pantagato † 1567, segretario del card. Salviati, ricevé tutto dall'Agustin e, tramite lui, le raccolte del Vescovo di Alife furono sfruttate dal P. Onofrio Panvinio, veronese † 1568, autore fra l'altro di una Syllogen inscriptionum (circa 3000). Ma egli andò in fretta per stampare, credette facilmente, e oggi la sua raccolta è di scarsa utilità, anche se originale. Influì comunque su Fra Giocondo, Metello, Manuzio, Grutero, e infine sul De Rossi per la epigrafia cristiana.

Dal Panvinio, e dunque dall'Agustin, deriva Giovanni Gruytère (Gruterus) † 1627, autore di Inscriptiones antiquae, e da lui il Gutenstein.

Dimenticavo l'illustre Pontano. Anch'egli riportò qualche lapide alifana.

Un ultimo ramo di epigrafisti viene dalla raccolta Spatafora, ad opera di Fra Giocondo che, tramite Wallambert d'Avalon. influì anche su Metello. E da lui derivò il barone Konrad von Peutinger † 1547.

Ecco mostrato in poche parole quasi tutto l'imponente movimento archeologico del '500, visto logicamente dalla limitata visuale della piccola città sannita.

Il lavoro massiccio di ricerca e sistemazione era stato fatto. Gli epigrafisti dei secoli seguenti non fecero che aggiungere. Mancano grandi nomi — fatta qualche eccezione — e le ricerche epigrafiche assumono un colore locale, non quello di opera generale.

Dopo il Filippo, nessun piedimontese era più emerso, e finalmente ecco Francesco Maria Pertusio, professore a Napoli, che comunica le sue scoperte a Lud. Ant. Muratori e al canonico Simmaco [55] Mazzocchi † 1771, nella cui raccolta appare citato presso le lapidi da lui esibite. E anche quelle di Scipione De Cristofori derivano dal Pertusio.

Segue un altro piedimontese, nostra simpatica guida nella storia e archeologia locale, l'arciprete Gian Francesco Trutta † 1799, autore delle tanto criticate ma sempre attinte Dissertazioni istoriche sulle antichità alifane, pubblicate quando aveva settantasette anni. In esse, insieme alle patrie lapidi alifane non dimenticò quelle di Compulteria, Saepinum e Thelesia. Cade in errori è vero, ma, come dicevo, è sempre una miniera di notizie. Il barone Giuseppe Antonini ne ricava molto..

Un altro canonico piedimontese, Nicola Occhibove ha il merito di aver fornito al Pratilli di Capua, specializzato nell'Archeologia delle vie antiche, lapidi e lapidi, ...anche se alcune inesatte.

L'Ottocento ci mostra in ristagno le piccole attività locali, ma in compenso attira ad Alife la colossale figura di Teodoro Mommsen, la cui posizione nel campo epigrafico è fondamentale e insostituibile. Nel 1845 e '46 visitò due volte Piedimonte e Alife. Mattiangelo Visco ispettore alle antichità e Giacomo Egg archeologo dilettante, lo accompagnarono con disinteresse e fervore, e così egli poté fermare prima nelle Inscriptiones regni neapolitani, poi nell'immenso Corpus Inscriptionum Latinarum tutte le lapidi scoperte fra noi.

Dopo di lui non vi furono altre Syllogae. e non ve n'era più bisogno. Continuarono però le scoperte occasionali, e furono raccolte presso il Museo di Piedimonte.

Dimenticavo il De Rossi, principe dell'archeologia cristiana, collaboratore del Mommsen nel C.I.L. In una delle sue grandi opere Inscriptiones christianae urbis Romae VII saec. antiquiores, v'è un cenno ad una lapide alifana, l'unica cristiana. Fu trovata a S. Gregorio sul Matese e l'analizzeremo. Con essa l'epigrafia alifana, svoltasi interamente nel Paganesimo durante la civile epoca imperiale, passa anche questo limite, e tocca con una iscrizione traboccante di sentimento, il Medio Evo cristiano.

Non ci fermeremo sulle centoventi iscrizioni funerarie, dove tutto può essere accettato per la tenuità stessa del contenuto. Sosteremo su qualche lapide importante, dove c'è discussione.

Cominciamo ad esaminare le iscrizioni onorarie in onore di Fabio Massimo. Questi, stando ai marmi, fu un vir clarissimus e un rector provinciae. Secondo i nostri storici (Trutta, Giorgio, etc.) visse fra [56] Adriano e Galerio, e due marmi alifani gli attribuiscono la ricostruzione delle mura e delle terme di Alife:

1a FABIUS. MAXIMUS. V. C. RECT. PROV / THERMAS. HERCULIS. VI. TERRAE. MOTUS / EVERSAS. RESTITUIT. A. FONDAMENTIS

2a FABIO. MAXIMO. V. C. / CONDITORI. MOE / NIUM. PUBLICO / RUM. VINDICI / OMNIUM. PECCA / TORUM. ORDO. ET / POPULUS. ALLIFA / NORUM. PATRONO.

Nella seconda appare anche come Patrono di Alife. Il Trutta arriva più in là: Le terme preesistenti furono costruite da M. Acilio Glabrione, il terremoto avvenne sotto Tiberio, e il rector le avrebbe ricostruite.

Alle lapidi alifane Se ne possono aggiungere una di Telese:

FABIUS. MAXIMUS. V. C. RECT PROV. THERMAS. SABINIANAS. RESTITUIT. CURANTE. ORDINE. SPLENDIDISSIMO. TELESINORUM

(è nel Museo di Piedimonte); e due di Sepino:

1a FABIUS. MAXIMUS. V. C. / TERMAS. SILVANI. VETUSTATE / CONLAPSAS. RESTITUIT / CURANTE. NERATIO. CONSTAnte / PATRONO. SUMPTU. PROPIO (sic!), e 2a: FABIO. Maximo / V. C / INSTAUratori.

Niente di straordinario che un rector provinciae curasse ricostruzioni di mura e terme, anche a sue spese.

Ma chi fu F. Massimo? Non si trova in nessun elenco. Fra i consoli, l'anno 744 di Roma, 10 a.C., c'è un Q. Fabius Maximus Africanus, nel 743 c'è un Paullus Fabius Maximus, ma non hanno a che fare con uno vissuto molto più tardi. Nel 207 e nel 232 vi sono nomi monchi di qualche console che si chiama Maximus, ma egli non è console. Dato il titolo V. C. potrebbe essere Senatore, ma questa qualifica non appare. E non si trova neanche fra i correctores. E allora? Queste lapidi furono pubblicate dall'Agustin. Si esclude una frode attiva del Vescovo, troppo serio e colto, per arrivare a tanto. Ma gliel'hanno potuta fare a lui. Si tenga presente questa lettera del Panvinio del 20 mag. 1559: « ...vi mando certe iscrittioni sue (dell'Agustin) con trei epistolette de negotii... ci sono degli errori perché Sua Signoria non ha visto gli originali ». Dunque, fidandosi sulla correttezza di altri, il Vescovo accettava pure senza toccare con mano. Ma c'è altro, già fatto notare in «L'antica Alife ». Nella lapide delle mura manca il prenome Q (uintius), c'è ALIFANORUM con una L. e non due, com'è sempre negli scrittori dell'Impero, e c'è l'U di alli- [57] fanorum curva e non ad angolo acuto, tutte cose del quinto secolo in poi e non di prima. Qui senz'altro c'è la frode, e intanto il sospetto cade su tutte le lapidi del F. Massimo.

Due iscrizioni poi parlano della gens Acilia, famiglia plebea romana trapiantata in Alife ed elevatasi molto. Una già l'ho data, e fu trovata in Piedimonte nel 1728 nella Chiesa di S. Nazario (presso il Seminario) e parla d'una signora, Acilia Manliola, l'altra pure di una matrona Acilia Prestana. L'albero genealogico delle due è di grande interesse. A Roma gli Acili avevano il loro peso. A M. Acilio Glabrione si deve la lex Acilia repetundarum, e tre consoli vi furono fra i soli Glabrioni, oltre ad altri tre Acili Faustini, Severi, Aviola. Ora, se il padre della signora, Acilio Faustino, fu console nel 210, il nonno per la seconda volta nel 186 e il bisavo nel 91 (condannato perché transierat ad mores Judaeorum, cioè si fece cristiano), la matrona visse nel terzo secolo. Ma perché i decurioni di Alife le dedicarono una lapide? È possibile che la gran dama sia stata in Alife, o che almeno vi avesse possessi (Trutta fa derivare il Monte Cila da Acilia), e che abbia a volte influito a Roma per pratiche di Alife. Ma nulla si può assicurare.

Quanto alla Acilia Prestana era nipote della Faustiua, figlia di un Acilio Cleobolo e nipote sia del Console Acilio Faustino che del senatore e console Tiberio Claudio Cleobolo. Per la sua epigrafe v'è disparità di trascrizione ed interpretazione; la lapide è certamente monca, manca il dedicante, e può essere onoraria o funeraria.

Due parole sul calendario alifano. Due frammenti di esso sono conservati nei Musei di Napoli e Capua. Il secondo, scoperto in Alife alla Cancelleria vecchia va dall’11 al 19 agosto, il primo nel 1750, presso l'antico monastero di S. Salvatore in Piedimonte (presso la Stazione), va dal 22 al 29 agosto, e si trova a Napoli perché messo nel giardino di Casa Trutta a Capodichino.

II calendario apparteneva al municipio alifano. Oltre al suo logico rifarsi alle feste di Roma c'è la parte locale data dall'huiusque, come oggi i calendari delle singole diocesi, e nel piccolo frammento indica le gare che si facevano nell'anfiteatro di Alife nei novendiali precedenti. Varia nel giorno 13 feriAE. IDus. NP. Vi è scritto: Feriae. IOVI. DIANAE. VORTUMNO. IN. AVENTINO. HERCuli. INVICTO. AD. PORTam. TRIGEMINAM. Castori. POLLUCI. IN. CIRCO. FLAM. FLORAE. AD. circum. MAXIMUM. Dei sacrifici a Diana e Vortumno sull'Aventino ne parlano anche i calendari Vallense e Amiternino, e così, sempre per il 13, l'Anziate e quello di [58] Filocalo. Ma non parlano della festa di Ercole alla porta Trigemina. Penso che la festa fu istituita tardi, e scolpita nei più tardi calendari, fra i quali quello alifano.

Ancora una variante nell'Alifano e Amiterno per il 18 ag., XVI Kl. Sept. Vi si legge: DIVO. JULIO. AD. FORUM, mentre l'Anziate ha AEDIS. DIVI. IULII. DED.

Passiamo alla lapide relativa alla zecca che prova l'esistenza in Alife d'una officina monetaria sussidiaria. Fu trovata mutila (scritto stampato) e reintegrata dal Mengarelli (corsivo): Lucio. PULLAieno. Lucii. Filio. VELina. GARgilio. ANTIQUO. XV. VIRO. Sacris. Faciundis. lecto. in. patRICIAS. FAMilias. a. divo. PRAETori. AEDili. Curali, quaestori. IIIviro. Auro. Argento. Aere. Flando. Feriundo. PRAEFecto. iuri. dicundo. CURATori. Rei. Publicae. PRAENestinorum. idem. rei. publicae. ALLIFANORum. DEcuriones. popuLUSQue. ALLIFANorum. AMANTISsimo.

Vi sono due punti da chiarire: 1) se poteva batter moneta in oro, argento e bronzo, è chiaro che esisteva prima del 15 a.C., perché in quell'anno Augusto avocò a sé la monetazione in oro e argento, lasciando l'altra al Senato che la concedeva ai ricchi Municipi. 2) II L. Pullaieno Gargilio Antiquo è del secondo secolo, dunque senz'altro non è il fondatore, e l'iscrizione onoraria dei Decurioni e del Popolo di Alife gli fu data solo per qualche fatto eccezionale da lui ottenuto graziosamente per la città. Fu forse qualche conio straordinario in oro e argento? Nulla può dirsi, che solo coll’Imperatore Gallieno, dal 257, si indicano le zecche sulle monete.

Una lapide: DEO. AETERNO / PRO. RESTITUTA. VALETUDINE / etc., riportata dal Fabrizi nel 1587, da cui l'ebbe il Grutero che non la ritenne vera, anche all'esame del Mommsen apparve sospetta.

Concludiamo ora colla lapide cristiana. Eccola anzitutto:

QUIS. NON. DOLEAT. AUT. QUIS. NON. LUGEAT. SUPER. VOS.

RERUM. HOC. TANTUM. SCELUS. N. LXCII. DIES. TRES. DUL.

CES. NOs. FILIOS. OBTULISSE. DO. VE. NOBIS FILII. OMNI

PIETATE. DOLCISSIMI. AMANTISSIMI. CARISSIMI. PIISSIMI

NUNC. QUID. FACIENTES. TANTORUM. DOLORUM. IGNO-

RAMUS. NISI. VESTRO. TUMULO. SATISFACTO. IDEO

QUAE. ROGANTES. ET. DICENTES. PER. DEUM. VIBUM. ET

ILLUM. DIEM. IUDICII. NI. QUIS. HOC. INFANTIUM. MOLESTET. IN.

TUS. MONUMENTUM. HIC. REQe. IN. P. INFORTUNA. QUAE [59]

VI. AN. VIII. MEN. VII. D. XV. DEP. IN. PAC. XV. KAL. SEPTEMB

DUODEC. PC. BASILI. V. C. INO. PRIMA. HONESTA

AN. VI. M. VII. DEP. ID. IVN. XII. P C. SS. IND

PRIMA. DECORATUS. VÌXIT. ANN. V. MEN. III † DI XI

DEP. ID. AUG. XII. PC. SS. IND. PRIMA SS. TRES

GERMANI. FF. QUI. HIC. REQUIESCUNT. CRISTIANI. EFFECT

L'Agustin la divulgò (è nel suo Cod. Matril. f. 72), dopo che la ebbe trovata « in Pedemonte al casal di S. Gregorio sopra il castello » e da lui la prese il Metello. Orazio Orsini (De Taffia, Cod. Vaticanus 6036, f. 33) l'ebbe dal Pantagato che, troppo in fretta la dichiarò omnium antiquissimam quam ipse vidisset christianam inscriptionem. Senonchè G. B. De Rossi ha presentati parecchi epitaffi anteriori (Inscript, christ. etc., vol. I).

Nella dolorante epigrafe dei tre fratellini, morti e sepolti insieme, tutto è preciso. Vi si continua la datazione consolare dal 542 in poi col postconsolato di Basilio DUODEC. PC. BASILI, ultimo Console privato di Oriente, il che ci porta all'anno 553. E tale data è assegnata per tutti i tre morticini. Si trova perfettamente l'anno I dell'Indizione (XVII) cesarea, greca o pontificale che sia. Vi si ammira il monogramma un po' originale. Ma, dov'è l'iscrizione? Sparita. Così bella, così rara, il vescovo Agustin l'ha vista di persona? o gli hanno detto che hanno trovato, ecc...? o ha visto, poi s'è trasferito, e il marmo è stato risotterrato, come per altre? Non posso, non so concludere niente.

Questa lapide fa arretrare nel tempo, di almeno tre, secoli l'abitato di S. Gregorio del Matese, dato che, per questo nome, noi del luogo abbiamo sempre pigliato quale punto di partenza la bolla di Papa Pasquale I dell'847.

Termino qui questo frettoloso lavoretto.

Ripiegando dunque sulle iscrizioni pagane dedicatorie, onorarie e funerarie, di cui in Alife soltanto cinque sono senza dubbio spurie, concludo che possiamo esser contenti. È una piccola Città che ha dato all'epigrafia buon contributo, e, come già ho detto, anche se non fa voli — e proprio per questo — offre materiale sicuro, interessante e anche piacevole.

[1] Nel 1955, nel fondo Di Cosmo al Quadrivio: 1955 presso Porta Fiume; 1957 nel fondo dell'Ungaro a Piedimonte.

[2] La lapide dei tre consoli dev'essere questa: ACILIAE. M. F. / MANLIOLAE. C. F. / M. ACILI GLABRION. SEN. COS. PRONEPTI / M. ACILI. GLABRIONIS. COS. II. NEPTI / M. ACILI. FAUSTINI. COS. FILIAE / ORO. DECURION.

Centocinquanta lapidi ci hanno permesso di lanciare uno sguardo fugace nella vita dell'Alife di allora.