Piedimonte_06

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Cap. VI

GIUSTIZIA E CARCERE FEUDALE

(pp. 58-63)

LA CORTE DI GIUSTIZIA – Le Terre od i Castelli, come dir si voglia, ebbero il loro « bancum justiciæ » amministrato da funzionari regi, fino all’epoca in cui i sovrani aragonesi si spogliarono del diritto sul mero e misto imperio concedendolo ai baroni del regno. Fu così che Casa Gaetani aggiunse alle sue prerogative anche l’amministrazione della giustizia, meno però per le cause tra essa e l’Università, sulle quali il giudizio spettava alla Regia Camera, al Consiglio Collaterale ed agli altri Tribunali della Capitale (Napoli). Luigi XII, con suo Privilegio dell’aprile 1502, riconfermò ad Onorato Gaetani, Conte di Fondi, ed a Giacomo MariaGaetani, conte di Morcone, il banco della giustizia in Piedimonte, col mero e misto imperio, potestà del glaudio, cognizione di cause civili, criminali e miste, ed ogni altra giurisdizione.

Tale Privilegio venne riconfermato da Carlo V in data 3 gennaio 1517, ed il Collaterale, con sue Provisioni del 12 marzo 1618 proibì poi ai vassalli di Piedimonte d’appellare alla Vicaria o ad altro Tribunale nelle cause del feudatario.

Il Sacro Real Consiglio, infine, emise delle Provisioni in data 2 aprile 1631 con le quali concesse al Duca Alfonso Gaetani la facoltà di punire i ladri del feudo col castigo della berlina, che consisteva nell’esporre il reo sopra un palco e portante al collo un cartello su cui era indicata la colpa di cui s’era macchiato.

Ritornando alla Corte di Piedimonte, ricorderemo che la Casa Gaetani vi teneva a capo un « Capitanio », il quale era assistito da due « probi homini » della Terra, dal « mastrodatti » e da alcuni « Officiali ». È superfluo dire quali potessero essere, in quel tempo, i criteri ed i sistemi coi quali il « Capitanio », ligio ai voleri del padrone, giudicava le cause. E poiché l’amministrazione della giustizia rappresentava un cespite notevolissimo per la Camera baronale, s’immagini quale feroce strumento di repressione fosse quel funzionario e quale il suo rigore contro i vassalli. Tanto più che egli era delegato anche a gravare di tributi le terre e le industrie, a conferire cariche previa contribuzione in denaro, e, sempre con questo sistema, a concedere l’apertura di osterie, ad autorizzare la vendita delle derrate, ed a commutare le pene.

COMPETENZE DELLA CORTE – Il «Capitanio » - che si disse anche Governatore – aveva competenza di giudicare nelle cause riflettenti: bestemmia, porto di armi proibite, frodi in commercio, vendita di carni guaste, inosservanza ai capitoli municipali, taglio abusivo di piante, contravvenzione sul regime delle acque, danneggiamenti, debiti, furti, risse, ferimenti, ecc.; cause che venivano iniziate o in base a denuncia, o a mezzo di testimoni « fidedigni », oppure d’ufficio quando si trattava di delitti gravi.

QUALIFICA DEI REATI E DELLE PENE – È vero che le pene erano miti per i reati di polizia urbana e rurale, inquantoché la condanna si risolveva nel pagamento di grana, tornesi e tarì, e quando era più grave, nel pagamento di augustali e di onze, ma per altri reati esse erano così feroci che, per non subirle, si doveva per forza chiederne la commutazione in denaro, sempre che il condannato si trovasse in cospicue condizioni economiche.

Tra le ultime pene annoveriamo i « ferri stretti », la « vergogna », l’« amputazione » di qualche membro, la « morte naturale », e quella « capitale ».

I bestemmiatori del nome di Dio, della Vergine, dei Santi ecc. venivano puniti secondo i Capitoli del Regno. Ai tempi di Ferdinando I d’Aragona (1458-1494) si tagliava loro la lingua, - la pena però non veniva rigorosamente applicata – e sotto Carlo V (1519-1556) venivano condannati alla galera. A questo proposito è bene diradare un equivoco in cui incorre il popolo. Questo ritiene che l’antica condanna alla galera fosse stata qualcosa di simile all’attuale ergastolo. La galera consisteva, invece nel condannare i rei a remare, a vita o per un determinato periodo di anni, su grossi bastimenti che portavano ventisei remi per parte. Questi bastimenti si chiamavano appunto galere o galee, e servivano per guerreggiare o per trasportare grossi carichi. Il continuo remare rappresentava pel condannato una pena orribile data la fatica improba ed estenuante a cui veniva sottoposto.

I rissanti, poi – se la rissa si faceva « animosamente, voluntariamente et con animo deliberato con pugna, o vero per altro modo, senz’arme, senza peste o vero petre » venivano puniti ad arbitrio della Giustizia. Se i rissanti degeneravano lanciando « peste o petre », si punivano secondo le forme delle Costituzioni e Capitoli del Regno. Pure secondo tali Costituzioni venivano puniti coloro che ingiuriavano con le parole « cornuto, traditore et puttana », ed erano obbligati altresì a dare soddisfazione morale all’offeso.

Il debitore, se anche facoltoso, andava sì in carcere – salvo farsi commutare la pena – ma « senza ferri né con cippi »; se, poi, la proprietà risultava inferiore al debito, il condannato veniva segregato.

Accadendo il caso che il detenuto dicesse, al momento in cui veniva tratto in arresto: « Io non voglio obbedire », allora il modo di tenerlo ristretto rimaneva ad arbitrio dell’officiale incaricato.

Per le condanne derivanti da reati di crimine, vi era l’uso della « frusta, tortura, mercatura, mutilazione di membro, o ammission di vita », come già detto.

Tra i reati passibili di « vergogna » - che consisteva nel portare in giro, del tutto denudate, le adultere per le vie del paese – era contemplato quello riguardante i guasti alle paratoie nel Lago Matese, per cui anche gli uomini subivano la stessa sorte delle donne adultere.

Lo strano però è questo che negli Statuti di Piedimonte non troviamo tracce relative alle pene pei giuochi d’azzardo, mentre sono contemplate negli Statuti di Cerreto, Caiazzo, Gaeta, Atri, Benevento, ecc.

Il che lascerebbe dedurre che tali giuochi o erano poco diffusi, o addirittura sconosciuti in Piedimonte.

ARRESTO DI SINDACI – Abbiamo già detto che non soddisfacendo i debiti che si contraevano si era passibile di pene restrittive. A queste andavano soggetti anche i Sindaci per i debiti del Comune. Nel Sec. XVIII si verificarono due di questi arresti per mancato pagamento della bonatenenza. Questa consisteva in un contributo annuo che i nostri cittadini erano obbligati a pagare allo Stato, a mezzo dei Municipi, perché possessori di beni siti in altre Terre. Piedimonte però, vivendo a gabelle, non teneva adottato siffatto sistema, tanto vero che non troviamo tracce di proprietari forestieri, che pagassero qui la bonatenenza. Faceva eccezione – cosa strana – soltanto Casa Gaetani. Questa pagava alla nostra Università annui ducati 444,21 in compensazione però di somme maggiori di cui essa era creditrice per crediti istrumentari e fiscali. Piedimonte, adunque, pagava la bonatenenza alle Università di Alife e di Gioia (Gioia Sannitica) nei cui territori, i suoi cittadini, possedevano beni. Ad Alife corrispondeva, nel 1747, ducati 132,84¼, che, per una transazione stipulata due anni dopo, si ridussero a 91. Ma quell’Università ruppe il concordato e iniziò giudizio contro Piedimonte in Regia Camera, nell’anno 1762, pretendendo somma maggiore, per cui la nostra Università sospese il contributo, resistendo nella lite. E poiché veniva, così, a risultare debitrice, l’Università di Alife, avvalendosi appunto delle facoltà in uso, chiese ed ottenne l’arresto del Sindaco di Piedimonte, Vincenzo de Parrillis, nell’anno 1763, pel cui rilascio fu giocoforza pagare immediatamente la bonatenenza.

All’Università di Gioia, poi, Piedimonte doveva la bonatenenza pei territori che i nostri concittadini godevano nel feudo di Carattano, ma il pagamento non veniva eseguito perché la nostra Università se ne riteneva ingiustamente colpita. Nel 1756 il Pubblico Parlamento di Piedimonte pensò di definire tale vertenza inviando in Gioia il proprio Sindaco Francesco De Benedictis coll’incarico di risolvere bonariamente la vertenza. Senonché l’attuario Perillo, di quel Comune, senza nemmeno prendere in esame le proposte del Sindaco di Piedimonte, pensò di farlo arrestare, traducendolo nelle carceri di Faicchio.

Diffusasi la triste nuova in Piedimonte, fu subito convocato il Parlamento e si deliberò di mandare in Napoli uno zio del Sindaco per trattare con quelle autorità l’escarcerazione, che non sappiamo quando e sotto quale condizione ebbe luogo.

UN SINDACO PER SFUGGIRE L’ARRESTO ALLOGGIA IN UNA CHIESA – In altra parte di questo lavoro abbiamo scritto che i Giudici rivedevano i conti dei Sindaci perché l’Università non rimanesse lesa nei suoi interessi. Questo procedimento, rimontante al Sec. XV – soltanto negli Statuti di quest’epoca ne troviamo traccia – è perdurato ininterrottamente nei secoli successivi. Esso era così rigorosamente applicato che non si aveva nessun riguardo alla condizione sociale del primo cittadino.

Durante il sindacato di Don Nicola Paparo Filomarino, si verificò, appunto, una malversazione, che, scopertasi molti anni dopo, costrinse il Paparo, per sfuggire l’arresto, a prendere alloggio in una chiesa di Piedimonte, dimorandovi alcuni mesi. Il clamoroso episodio è riportato negli atti del Pubblico Parlamento. Questo viene informato dal Sindaco in carica (seduta del 6 settembre 1767) che « avendo esercitata la carica di Giud.e e Sind.o di questa Univ. il Sig. D. Nicola Paparo Filomarino l’anno 1758 e 1759, quale nella visura poi del conto della sua amministraz.e da Raz.li venne significato nella somma di doc. due cento venti. Se bene asseriscasi dal med.o che forse per abbaglio di d.i Raz.li sia stato gravato nella significatoria speditali da quelli, nella somma di doc. sette p. diete pagate, in difetto suo, da suoi successori Amm.ri, ad un tal Commiss.o, ma ciò per essere d’altra ispezione, si rimette al giudizio, à cui de jure spettasi; e dicono soltanto come il d.o Sig. Paparo, p. il cennato suo debito, sia stato fatto convenire da passati amministratori di essa prefata Univ., così presso la Corte ord. di questa Città, come, nel Trib.le della R.a Cam.a dallo quale finalmente fu spedito l’ordine della sua carcerazione, p. isfuggir la quale, mancandoli il modo da poter prontem.tesodisfare, è stato nicissitato rifuggiarsi in Chiesa, ove hà dimorato sino al p.te, di modo che persistendo a stare in essa Chiesa, vieppiù viene a rendersi innabile a poter pagare d.o debito; Che perciò gli è parso espediente porger replica a questo Publ.o ed à chi ha la cura di governarlo, quale p. titolo di equità, si volesse compiacere d’abilitarlo graziosam.te a pagare d.a summa nella maniera che siegue, cioè Docati venti si esibisce pagarli manualm.te nell’atto che sarà p. stipularsi l’istrom.to di convenz.e che dovrà passarsi, se gli viene concesso, tra esso e l’Uni., altri doc. venti da pagarli nella fine del prossimo mese di xbre del cor.te anno 1767, e gli rimanenti ripartitam.te fra lo spazio d’anni tre, numerandi dal dì della stipula di d.o istrom.to. Per sicurezza di d.e paghe darebbe p. pleggio, anzi si obbligherebbe in nomine proprio Gio. Lorenzo Macaro suo Suocero, da cui deve conseguire docati 200 p. le doti promesse, in virtù d’istrom.to stipulato p. il Mag.co Not. Francesco d’Orsi a D. Cassandra Macaro sua figlia, moglie di esso Paparo, che già dalla med.a si è ottenuto dalla Real Camera di S. Chiara il R. Assenso, di valersi di doc. cento p. evitare la carceraz.e del suo Marito; che ciò lo prevengono ad essi cittadini Parlamen.ri p. pigliare su ciò il loro parere e sentimento».

I cittadini convocati, così garentiti, accettarono la proposta e l’ex Sindaco Nicola Paparo Filomarino sloggiò dalla Chiesa che lo aveva ospitato per vari mesi.

SEDE DELLA CORTE – La sede della Corte era, negli antichi tempi, presso il castello baronale. Soltanto verso i primi anni del Sec. XVIII la ritroviamo nel palazzo dell’Episcopio, e poi nella Piazza del Mercato (Municipio).

IL CARCERE FEUDALE – Mentre prima della promulgazione degli Statuti gli stessi vassalli erano obbligati a montar la guardia alle carceri, ne furono, poi, dispensati dal feudatario a tenore delle « grazie » concesse nel 1539.

Queste carceri erano presso il castello, e consistevano in segrete sotterranee, umide e fredde, munite di feritoie per la circolazione dell’aria, nonché di cippi, catene ed altri ordigni di pene. Durante il Sec. XVIII passarono in Piazza Mercato (Municipio) in un fabbricato di proprietà Gaetani (ora pianterreni Gaetani – Banca Matese), composto di tre vani, oltre la stanza per il custode. Costui, nei primi tempi del secolo indicato, percepiva il salario di 12 ducati l’anno, che vennero poscia portati a 24, pagati dal Comune. Nella seduta del 19 dicembre 1744, il Parlamento volle sistemare una buona volta la posizione del custode con analoga conclusione. L’atto ha un certo interesse perché ci dà contezza di alcune usanze di quei tempi. Vale perciò la pena di conoscerlo:

« ... Di più propongono (cioè i Sindaci ed i Giudici), come nel soprad.o Nuovo Stato di questa Uni. stà ordinato che l’esito di duc.ti ventiquattro che si portava in d.o Stato, per annua prov.e del Carceriere delle Carceri di q.sta Città, fusse remasto, puiché vi fusse pubblica Conclus.ne per d.o Esito roborata stabilire la prov.ne a d.o Carceriere, acciò non estorgua dalle persone che vanno carcerate in d.e Carceri, perché d.a Conclus.e, ed Assenso non vi è, lo propongono perciò ad essi Mag.ci del Regimento, acciò li diano sù di ciò il loro parere. Qual proposta, essendosi intesa, e consideratisi li motivi esposti da d.i Mag.ci Giud.ci e Sind.ci si è da tutti determinato e concluso, che si stabilisca da oggi avanti la prov.ne a d.o Carceriere, ma però per solo ducati dodici l’anno, come era anticam.te, qual Carceriere debbia eliggersi e destinarsi dalli Mag.ci Giud.ci e Sind.ci pro tempore di d.a Uni., e debbano essere amovibili ad..... delli medesimi con espressa cond.ne che dalli Carcerati per cause civili non possa esiggere che grana sei, e dalli Carcerati per cause criminali non più che grana tredici ed un terzo per ciascheduno, compreso in d. diritti l’oglio per le lampadi di d. Carceri e da coloro che per qualsivoglia causa si mandano carcerati dalli Mag.ci Giud.ci e Sind.ci in esse Carceri, non possa né debba in conto alcuno esiggere deritto di sorte alcuna, e che sù questa Conclus.ne si debba impetrare il Regio Assenso ».

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