Iscrizione numismatica

ISCRIZIONE NUMISMATICA

(in Annuario ASMV 1991, pp. 185-193)

di Mario Nassa

A Raviscanina, nella facciata della Chiesa del Sacro Cuore, fiancheggiante la strada provinciale, è murata una iscrizione che, pur riportata da vari autori i quali ne hanno evidenziato alcune caratteristiche di particolare importanza, continua, tuttavia, a destare curiosità e senso del mistero in color, me compreso, che non avendo dimestichezza con testi specialistici e di difficile reperibilità, si cimentano con poche cognizioni di latino nel tentativo di capirci qualcosa.

È a queste persone che è diretta gran parte di questo lavoro.

Scolpita su pietra calcarea convessa, è la sola delle epigrafi fino ad oggi catalogate sulla romana Alife (Allifae) in cui, oltre agli stereotipi, si dice esplicitamente la quantità di moneta adoperata per costruire qualcosa. Il titolo dato a questo scritto vuole significare quindi che, per una maggiore chiarezza del contenuto, si farà un piccolissimo accenno a materia riguardante la numismatica.

Essendo l’iscrizione, oggi, solo parzialmente visibile, per l’interpretazione, in mancanza di una lettura diretta ottenibile con l’attenta rimozione dell’intonaco ricoprente l’originale, dobbiamo ricorrere alle trascrizioni che durante i secoli ne hanno fatto, più o meno fedelmente, quelli che se ne sono occupati. Le principali fonti sono:

Antonius Augustinus (Vescovo spagnolo della diocesi alifana dal 1556 al 1561);

Gianfrancesco Trutta (Arciprete di Piedimonte e storico locale del secolo XVIII);

Theodor Mommsen (Grande storico tedesco del secolo XIX).

Dei tre solo Trutta l’ha vista di sicuro, Mommsen certamente no ed Augustinus, per alcune incertezze incompatibili con il valore del prelato, è mia opinione che l’avesse appresa da altri e senza tanto indagare, inviata a Panvinio dal quale fu, tramite stampa, divulgata[1].

La mancata consultazione dei manoscritti antichi non permette quel raffronto che mi auspicavo avesse portato ad una trascrizione univoca, al contrario nuove divergenze sorgono specialmente per il quarto rigo che appare uno dei più controversi di tutta l’epigrafia locale.

Al tempo di Trutta un “frammento d’iscrizione”, (il nostro) era “murato nel lato occidentale della chiesa dell’Annunciata di Ravecanina...” (Trutta, Dissertazioni... pag. 191) luogo in cui è tuttora, accertato che la chiesa e il paese citati, pur mutando nome sono sempre gli stessi. Mommsen, informato com’era, sa dirci che Augustinus la localizzò (v. CIL IX 2365) “extra oppidum S. Angeli Allifanae dioeceseos” (nella diocesi alifana fuori le mura del castello di S. Angelo).

La frase riportata è generica perciò non si sa dove fosse precisamente nel ‘500[2].

La provenienza ci è dunque ignota, le congetture le trarrò alla fine.

STUDIO COMPARATO DELLE TRASCRIZIONI

Il campo epigrafico, di cui per quanto già detto non è possibile misurare la lunghezza, è visibile solo per 76 cm, ha una larghezza di cm 4 ed è racchiuso da un largo listello di cm 5 sui lati lunghi, quasi il doppio su quello corto; l’impaginazione alquanto imperfetta; l’angolo in alto a destra è rotto e la cornice in varie parti danneggiata. La presenza della calce su alcune lettere non ne pregiudica la lettura.

1° rigo: Trutta ...S.SERVILIAE. EPYLAD..

Augustin ...S.SERVILIAE L. PYLAD..

Mommsen aediuS. SERVILIAE L. PYLADes

Grandezza delle lettere mm 80.

La lettera L è appena intuibile per il deterioramento della pietra; forse integra al tempo di Augustinus non lo era già più due secoli dopo per cui Trutta ha pensato trattarsi di una E.

La lunghezza teorica secondo la ricostruzione del Mommsen è di lettere 24 (per l’aggiunta ovviamente del prenome).

Ci viene presentato il defunto principale, uno schiavo affrancato dagli ex padroni o liberto (L.) dal cognomen “Pylades”.

Servilia è il nomen o gentilizio della donna romana a cui Pylades deve la libertà, le fortune e i conseguenti onori successivi alla propria emancipazione. Discendente di una gens di cavalieri (equites) i cui componenti durante la repubblica avevano ricoperto tutte le cariche, tra cui la magistratura monetaria e il consolato, ed anche legiferato (Lex Servilia), moglie di un Acilio console dell’impero, era ella in Alife proprietaria terriera?

Altra domanda: gli Acilii del 2° e 3° secolo delle lapidi CIL IX nn. 2333 e 2334 discendono da questo matrimonio?

Già immagino la villa di Servilia pullulante di servi che si recano a dissodare i campi, di liberti che amministrano e mostrano il rendiconto, agli ex padroni appena giunti da Roma per le vacanze, del loro operato. Immagino i piccoli Acilii che giocano alla guerra, destinati chissà dove da grandi a difendere e ad ampliare i confini dell’impero e, se fortunati, congedarsi, lottare ancora per qualche incarico di prestigio nella capitale e poi stanchi e attempati ritornare nelle tranquille proprietà alifane e ricevere il duovirato.

2° rigo Uguale in entrambi tranne la presenza o meno del punto finale.

Mommsen completa: mag. iun. sacR. Q. AVG. ALLIF. HONORAT. D. D.

La grandezza delle lettere è di mm 65. I longa non riportata.

La ricostruzione fatta da Mommsen con il confronto degli scritti dei predecessori e con l’ausilio di nuove iscrizioni (v. particolarmente la n. 2363 del CIL IX) va presa molto cautamente.

Il rigo potrebbe essere composto da un numero di lettere poco diverso dal precedente perché partendo da destra nella parte visibile se ne contano 14 in entrambi. Il totale delle lettere note (le maiuscole del primo e del secondo rigo rispettivamente 18 e 19) avvalora questa opinione. L’apice stesso della parte convessa conferma che i primi due righi non possono avere, se l’incisione riguarda una sola pietra, lunghezza molto maggiore di quella teorizzata[3].

I quaestores augustalium (Q. AVG.) erano a quanto pare i custodi della cassa da cui attingevano gli augustali per organizzare feste in onore di Augusto. Queste feste (augustalia) celebrate per la prima volta nel 19 a.C. per ordine del senato al ritorno trionfale dall’Armenia dell’imperatore, si tramutarono più tardi in manifestazioni di culto fatte da persone specificatamente consacrate. A tale carica o sacerdozio venivano eletti con decreto decurionale (D. D.) gli appartenenti alla plebe municipale e perciò anche i liberti.

I decurioni erano i membri che componevano l’ordo, una specie di consiglio comunale di allora.

3° rigo Trutta SIBI. ET

Augustin SIBI. ET ..ER..

Mommsen come Augustinus

Grandezza delle lettere mm. 60.

Oggi pur essendo visibile il lato destro a partire da ET non vi è alcuna traccia delle altre lettere. Che fossero all’inizio del 4° rigo e indicassero che anche l’altro augustale poi menzionato era un liberto della Servilia già detta mi sembra poco probabile.

Se non ci sono altre lettere dopo ET o se gli altri righi non hanno lunghezza maggiore di quella attribuita ad essi da Mommsen questo risulta non centrato rispetto all’intero testo.

4° rigo Trutta ...M. L. R. HODONII. AVG. ALLIFIS

Augustinus ...M. L. RHO. DONAT. AVG. ALLIFIS

Mommsen ...M. L. RHODONtI. AVG. ALLIFIS

La grandezza delle lettere è di mm 60. Ancora una volta I longa non riportata.

In questo rigo il punto diacritico viene usato in modo diverso dagli storici. Mommsen intuisce che manca qualcosa e aggiunge una t a trasformazione della prima I.

In realtà è la seconda I che è sospetta perché reca nel margine superiore un occhiello che la fa leggere abbastanza facilmente come una P.

Andrebbe perciò letto: ...M. L. RHODONI. P. AVG. ALLIFIS

Questa interpretazione, qualora fosse giusta, spiegherebbe il rapporto esistente tra i defunti. Il cognomen grecanico parrebbe alludere all’isola di Rodi di cui potrebbe essere originario l’augustale.

5° rigo Uguale in entrambi

Mommsen completa ex TESTAMENTO SVO HS ccIəə ccIəə

Le lettere misurano 50 mm

Per la comprensione di quanto sopra occorre sapere che dopo gli argenti per il commercio esterno fatti coniare a Capua o in altre città (dramma e didramma), noti con l’appellativo di monete “Romano-Campane”, a seguito della legge Fabia del 269 a.C., avvenne in Roma nell’anno 268 a.C. la coniazione ad uso interno del denario d’argento il cui valore veniva fissato pari a X assi[4].

Sottomultipli del denario erano il quinario, che valeva la metà, (V assi) e il sesterzio che valeva ¼ e quindi 2 assi e mezzo.

Il simbolo HS (II = 2 unità intere e S = semis cioè mezza) = ¼ di X venne ad indicare il sesterzio anche quando il suo valore, successivamente fu portato a IV assi[5] e poi durante l’impero, pur rimanendo moneta di conto per eccellenza, non venne più coniato in argento. Per quanto riguarda poi il segno ccIəə ccIəə esso è chiaramente un multiplo del numero mille che presso gli antichi romani veniva indicato o con la lettera M o con cIə o con altri segni.

Se volessimo moltiplicare per dieci e scrivere diecimila aggiungeremmo al segno basilare cIə una c a sinistra e una ə a destra (ccIəə) e dato che ripetere la cifra due volte è lo stesso che moltiplicarla per due, indicheremmo con HS ccIəə ccIəə la somma di sesterzi ventimila.

6° rigo Trutta FADIAE. IRENES. MATRIS. FIERI. IVSSIT.

Augustin AEDIAE. IRENES. MATRIS. FIERI. IVSSIT.

Mommsen arb. AEDIAE. IRENES. MATRIS. FIERI. IVSSIT.

Il rigo finale scritto con lettere molto piccole e ravvicinate dovrebbe comprenderne non meno di 36.

Grandezza lettere irregolare dai 40 ai 50 mm.

La discordanza iniziale del sesto rigo ha causato congetture diverse riguardo alla famiglia alifana cui attribuire il monumento funebre.

INTERPRETAZIONE COMPLESSIVA

1. ..aediuS SERVILIAE L(ibertus) PYLADes

2. ..R. Q(uaestor) AVG(ustalium) ALLIF(is) HONORAT(us) D(ecurionum) D(ecreto)

3. SIBI ET

4. ..M(arci) L(iberto) RHODONI P(atri) AVG(ustali) ALLIFIS

5. ex TESTAMENTO SUO SESTERTIVM VIGINTI MILIBUS

6. arbitratu AEDIAE IRENES MATRIS FIERI IVSSIT

Liberamente tradotto come segue :

Un certo Edio Pilade, liberto di Servilia, (di cui ignoriamo parte dell’onomastica e del cursus honorum), per decreto decurionale onorato (= dignitario), di questore degli augustali di Alife, secondo le proprie volontà testamentarie espresse in presenza della madre Edia Irene, ordinò di costruire con la somma di sesterzi ventimila (da stornare dal suo patrimonio), a se stesso ed al padre Rodonio, liberto di Marco... augustale di Alife (questo sepolcro).

Tutti i componenti della famiglia hanno cognomina attinenti alla cultura greca; lo stato della donna, liberta anch’ella non dichiarata, forse era già tale al momento di unirsi in contubernium con lo schiavo Rodonio, il figlio sarebbe perciò nato schiavo (verna) e solo successivamente così come il padre affrancato.

COSTO DELL’OPERA

I poveri, una volta morti, venivano sepolti in tombe di mattoni ed anonimi, con un piccolo corredo composto per la maggior parte da un asse consunto e da lucerna, scendevano tra di dèi sotterranei dell’Averno. Quelli che, invece, avevano maggiori disponibilità economiche si costruivano (o lasciavano disposizioni agli eredi in tal senso) monumenti funerari in pietra lavorata o in marmo corredati abbondantemente e con epigrafe.

Venivano spesi generalmente centinaia di sesterzi e, a volte, come nel nostro caso, anche parecchie migliaia.

A titolo puramente orientativo con i valori odierni della somma spesa possiamo dire che 20.000 HS secondo il seguente rapporto monetario al tempo di Augusto: 1 Au = 25 D = 50 Q = 100 HS corrispondevano a 200 Aurei[6] per cui moltiplicando 200 (numero degli aurei) per 7,8 otteniamo grammi 1.560 di grezzo (peso complessivo) di cui il 96%, quindi g 1.497,6 di fino (peso del metallo prezioso puro contenuto nelle monete 1.000/1.000 o 24 K.

Per il monumento di Pilade, che per caratteristiche paleografiche e di contesto risale al I secolo d. C. ci volle 1 Kg. E ½ di oro puro.

L’ultima emissione di moneta aurea dello stato italiano risale al 1937 (R.D. 23/9/37), le 100 lire avevano un peso di g. 5,19 titolo 900/1000 con una quantità di oro puro pari a g. 4,67. Volendo adoperare l’ideale lingotto di un chilo e mezzo ne ricaveremmo 321 pezzi e lire 42.100 che rivalutate all’anno 1990 danno un valore di acquisto di lire 32.321.700 (coefficiente ISTAT 1.006,9064).

Nel 1861 le lire oro sarebbero state 5.100 ed il moltiplicatore ISTAT 4957,1720.

Alla borsa di Milano il giorno 4/4/91 il prezzo dell’oro/grammo era di lire 14.480.

CONCLUSIONI

Riguardo alla provenienza della pietra bisogna premettere che per circa 14 secoli non se ne hanno notizie e che la spoliazione delle tombe è un fenomeno tutt’altro che moderno. Già gli imperatori Costante nel 340 e Valentiniano nel 447 emanarono due editti in tal senso dovendo ricorrere a severe punizioni per coloro che profanavano tombe e spogliavano i sepolcri di marmi decorati.

Due sono le ipotesi più attendibili:

1) Essa è sempre stata nel luogo attuale o comunque nelle vicinanze perché appartenente ad un monumento che sorgeva in sito ed andato in seguito distrutto o adattato ad esigenze diverse; questo anche perché non mancano nelle vicinanze del centro agglomerati di tombe venute alla luce durante gli impianti di uliveti o di bonifica del terreno. Rilevante e credo inedita perché poco conosciuta è la scoperta fatta dal signor Mancino agli inizi del secondo decennio di questo secolo, di alcuni sarcofagi in pietra, disadorni. Le testimonianze su questo fatto sono poche e i ricordi attenuati: nulla si sa sul corredo, le ossa furono portate al cimitero nel grande comune ossario sotto la cappella centrale, i sarcofagi furono adibiti ad abbeveratoi per il bestiame e potrebbero ancora trovarsi in loco presso qualche masseria.

2) Oppure proviene dal piano lungo la S.S. 158 ricco ancora oggi di resti di antichi sepolcri da dove i contadini l’avrebbero prelevata insieme a molti altri blocchi da adoperare come pietrame nelle costruzioni.

Non ritengo però che appartenesse al sepolcro noto come “Torrione di Alife”.

Lo stesso Trutta, che pure è stato l’artefice di tale attribuzione, alle pagine 199-200 delle sue dissertazioni descrive questo monumento dicendo che “era tutto di pietre, e marmi, incrostato” all’esterno e tutta lastricata di marmo la camera funeraria, “quattro colonne di granito di Egitto... colle lor basi e capitelli sostenevano il cornicione ed i freggi di esso” ...insomma talmente splendido da fargli supporre che fosse appartenuto a famiglia nobilissima, parenti addirittura dello stesso imperatore.

Credo che ventimila sesterzi, anche se somma ingente, sarebbero stati insufficienti alla realizzazione di tale opera pur privandola delle colonne che giudico comunque estranee e facenti parte di altro complesso edilizio.

Concludo segnalando agli epigrafisti il rinvenimento di una iscrizione inedita non attinente a quanto è stato trattato. In località San Michele (Alife) lungo la via provinciale Piedimonte-Sant’Angelo d’Alife sulla proprietà del signor Giovanni Valente, dietro segnalazione e guida del signor Pasquale Pinelli, il professor Mancini ed io abbiamo letto:

...rVFAE. SORORI

...ENE. VXSORI

...SATVRNINAE

L’intera pietra è alta cm 55 e lunga cm 100 ma il campo epigrafico, purtroppo mancante in parte, è situato in basso a sinistra e misura cm 25x55; le lettere hanno le dimensioni di mm 50, 40, 40.

Un volto maschile, la protome di un toro ed un fiore, decorano i tre quarti restanti dello spazio.

Ometto ulteriori commenti (illustri epigrafisti stanno da tempo curando l’aggiornamento al C.I.L. e certamente inseriranno nelle loro raccolte questa iscrizione che gli appassionati soci locali dell’associazione storica del Medio Volturno affidano loro).

Segnalo pure un mattone triangolare rotto in due pezzi perfettamente combacianti su cui compare il bollo CL rinvenuto dal p. i. A. Vendettuoli nel 1989 a Raviscanina in località “Bosco Cerrete” presso i ruderi ivi presenti e conservato nella canonica in via Fontana.

Di forma isoscele misura cm 26x18x18, le lettere hanno un’altezza di cm 7.

[1] Non deve sorprendere che insigni studiosi del passato abbiano accettato e pubblicato il contenuto delle lapidi senza verificare di persona perché tanto vasto era il materiale da trattare quanto difficili erano i mezzi, le vie di comunicazione ed i rapporti diplomatici tra i vari stati dell’Italia pre-unitaria. Per una panoramica sugli interscambi tra i cultori della materia dalla fine del ‘400 fino a Mommsen vedi D. B. Marrocco, Breve Storia della Epigrafia Alifana, in samnium I semestre 1959.

[2] La chiesa a quanto pare ancora non esisteva perché costruzione di quasi un secolo posteriore (v. A. De Sisto, Raviscanina, paese mio, e D. B. marrocco, Il Vescovato Alifano nel Medio Volturno).

[3] Non sappiamo se Trutta nel dire frammento intenda frattura o solamente mancanza della parte combaciante.

[4] In quel tempo l’asse era sestantario e cioè del peso di un sesto della libra romana da gr. 327 e quindi corrispondente a gr. 54,500 = 2 once.

[5] Il rapporto con il denario rimaneva sempre di ¼ perché questo valeva allora 16 assi di bronzo. Numero perfettissimo derivato dalla somma del numero perfetto romano e quello greco (10+6).

[6] Moneta d’oro romana che avrà oscillazione notevole durante i secoli successivi ma che mantenne il suo peso durante il 1° secolo superiore ai 7 grammi e ½ (Augusto 7,8; Nerone 7,73). D. = denario; Q. = quinario.