Giacomo Petrucci

Domenico Loffreda

L’ALBERO E LA VITA – RICORDO DELL’AMICO PRESIDE UMBERTO PETRUCCI

(In Narrazioni, n. 4 settembre 1999, pp. 114-115)

Si passava con Umberto, e Clara che ascoltava tacita e pensosa, da un argomento all’altro. Come di solito nelle conversazioni. Senz’ordine. Il flusso degli argomenti, da una parola. I pensieri, dall’esperienza d’una vita di lavoro, di letture. E segnata. E martoriata dalla coscienza, comune, che giorno dopo giorno le forze vitali si andavano spegnendo. Quelle mentali conservavano vigore ed acutezza.

L’ultima visita, una sola settimana prima della fine, vuole soddisfare un suo interesse, più vitale della stessa vita: dare un po’ di altro cibo alla mente. Mi aveva fatto richiedere il rettangolo, ritaglio di giornale, che già avevo letto qualche giorno addietro, caduta la conversazione su quell’argomento. Voleva avere, dalla lettura, stimolo a sue personali riflessioni. Nelle pause dei dolori.

“Con Levi Montalcini nella galassia del cervello”: l’argomento oggetto del desiderio, appunto, un articoletto di Piero Bianucci su “La Stampa”, quotidiano.

Quel desiderio qualifica, del preside Giacomo Umberto Petrucci, la parte riservata di lui, la più preziosa, la laboriosità mentale, di cui non faceva mostra. Era patrimonio tutto suo. Ne era geloso, da celarne quasi l’esistenza.

L’aveva attratto, dello scritto, il pensiero: “Le galassie sono sistemi formati da circa 100 miliardi di stelle. E circa 100 miliardi è il numero dei neuroni che compongono il nostro cervello. Da questo ammasso di cellule, affiora la ‘mente’, cioè l’insieme delle funzioni superiori”. E l’altro: “...senza dimenticare che il vero mistero si annida aldilà della biochimica: non nel ‘cervello’ ma nella ‘mente’. Nell’impresa di capire la mente, le probabilità di successo sono nulle”, scrive la Montalcini. Ma aggiunge che l’uomo “è l’unico fra tutti gli organismi viventi ad avere facoltà di controllare e dirigere la sua evoluzione”. Il cenno al contenuto dell’articolo, per dire da quale mistero i pensieri di Umberto siano stati percorsi alla sua estrema vigilia. Simile al mistero della morte e dell’amore. Che è nella scienza, ma l’uomo non ne conoscerà mai l’essenza. Il tormento, quello sì.

Scienza e mistero della mente, nella riflessione che è dovere dell’uomo indagare, pur nella consapevolezza che è impresa vana: quel mistero resterà sempre coperto dello stesso impenetrabile velo. Ma di quel mistero la mente vuole alimentarsi. Umberto lo sa. Non vuole privarsene, finché può.

Che fosse molto schivo e riservato l’ho saputo da quando Umberto, pregato, esortato dal prof. Dante Marrocco, presidente della A.S.M.V. di Piedimonte Matese di illustrare dal punto di vista scientifico l’Osservatorio Astronomico che arricchisce il Convento di S. Maria Occorrevole della Città, insisteva a schernirsene come e quanto poteva. La sua resistenza è vinta dalla offerta della mia collaborazione. A lui la parte scientifica, quella che era il suo pane quotidiano, a me, solamente per superare la sua riluttanza, l’uso dell’ars dictandi. L’articolo per l’Annuario 1968 fu scritto come in un concerto, non a quattro mani ma con la destra sua e quella mia. L’unico scritto in collaborazione. È un ricordo-documento in più che ho di lui, e la soddisfazione di avergli fatto superare la ritrosia che lo impediva.

Il prof. Aldo Cervo, nella sua narrazione “Genesi e senso di una Memoria”, coglie anche quest’aspetto del Preside, quando scrive: “Tentò di farci credere al tempo che si collaborò con Lui di non saper scrivere, di essere riluttante alla penna”. Premette: “...per timidezza o pudore”.

Alla fine Umberto ha sorpreso tutti con un suo scritto breve, non comparso su rivista o numero unico.

Titolo: Gl’Iarulone.

È la metafora della sua vita, che presenta sotto forma di apologo.

Nella piazza c’è un olmo gigante. A vent’anni, ricorda, lo scala fino alla cima, dopo essersi aggrappato ad un pollone di tra anni circa. “Cominciando da lì mi arrampicai quasi fino alla cima, ma in quel momento venne mio fratello più grande di me che m’impose di scendere immediatamente... Ma perché ricordarlo mi commuove? Non lo so. Ma forse perché mi ricorda la gioventù: quel periodo della vita che ci fa scalare un albero unico per la sua grandezza, ci fa sognare che saremo sempre buoni, generosi, fortunati e che saremo anche capaci di superare tutti gli ostacoli che la vita ci farà incontrare sul nostro cammino”.

Gli ostacoli li superasti. La cima, quella consentita all’aurea mediocritas, la raggiungesti.

La vita l’hai vissuta con gli insegnamenti che l’olmo ti ha suggerito di fermare nel solitario scritto, come Esopo al termine d’una favola.

Scritto non firmato.

Fino alla fine, “timidezza e pudore” hanno avuto la meglio.