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Autobiografia

(Stralci vari)

Parte I. pp- 2-4

Non ebbi cure di mamma. No. La vita in comune fra me e mia madre finì dal momento in cui io nacqui. Non si perpetuò per altri mesi attraverso il dolce legame del cibo che è latte, che è sangue, che è vita trasfusa da madre a figlio. Una mercenaria fu mia nutrice.

Dicono alcuni fisiologi che la creatura lattante, così come assorbe le malattie attraverso il latte della nutrice, così può prendere le tendenze morali. É una opinione che molti ammettono, altri negano, come viene negata e ammessa alternativamente l'opinione che la terra dove nasciamo imprima in noi un carattere indelebile.

Io non mi addentro in questo pro e contro. Dico solo che, per mio conto, trovo che non indifferentemente io nacqui da genitori lombardi, in Terra di Lavoro, nella Campania assolata, festante, opima e ricca di virtù e di difetti come poche altre terre, e ancor meno indifferentemente succhiai, sebbene per pochi mesi, il latte di una donna di laggiù, e una donna, per giunta, che era il vero emblema di quelle terre per tutto quanto si riferisce a passionalità selvaggia e sfrenata.

Piccina, un pulcino dagli occhietti appena aperti, dovevo poppare, digerire, dormire al suono, al ritmo e allo sconquassio delle più indiavolate tarantelle con accompagnamento di nacchere o di tamburello... e mia madre, nonostante la sua autoritarietà, doveva tacere e lasciar fare perché Teresa, la nutrice, diceva che se non cantava, suonava e ballava si immelanconiva e il latte ne soffriva. Credo che Teresa sia stata l'unica persona che abbia saputo imporsi a mia madre!

E poco male sarebbe stato se tutto si fosse limitato a danze e suoni.

Ormai io, povero pulcino, m'ero abituata a quella fiera perpetua. Ma c'erano le passeggiate... sempre per il latte, è naturale! E non erano passeggiate platoniche, purtroppo.

Subito dopo il battesimo, avvenuto con grande pompa non so di preciso quanti giorni dopo la nascita, ma non certo troppo sollecitamente perché si attendeva che mia mamma stesse meglio, Teresa aveva

intrapreso le sue passeggiate con la «piccerella», per la salute della «piccerella». Povera piccerella! Se avesse potuto parlare ne avrebbe dette di curiose!

Teresa scendeva per via Giovan Battista Vico, in gran pompa, con me sulle braccia, passava davanti al Palazzo Reale, filava per lo stradone di S. Nicola e giù, verso la campagna. In cerca di aria e di sole? No, di cose ben più illecite. Sicura che mamma non l'avrebbe sorpresa perché non si curava di tanto, sicura che papà non l'avrebbe scovata perché occupato nel Reggimento, Teresa si abbandonava al suo istinto di Eva campagnola.

E qui, se fossi nata nel medioevo, potrebbe intessersi la leggenda. Io venivo deposta fra i solchi del grano frusciante, sulla terra già tutta una vampa, sotto al sole torrido di Terra di Lavoro, e restavo là una, due ore, con unici compagni i ramarri, le api, le farfalle e gli uccelli che, insieme al grano frusciante, mi cantavano la ninna nanna. Potevano venire vipere, cani randagi, altre bestie nuocermi, poteva il sole dardeggiante uccidermi, così tenerella come ero. Ma non accadde mai nulla. L'angelo di Dio che m'aveva in custodia mi faceva velo al troppo sole con le sue ali paradisiache e fugava col suo aspetto tutte le cose nocive. Restava solo una gran fame, perché il latte, con quella vita e le sue conseguenze, se ne era andato e io venivo ingozzata come un pollo con granturco bollito, con frutta schiacciate e simili delicatezze che farebbero inorridire un pediatra.

Tornavo a casa strillando lo stesso, ma insomma... di fame non morivo.

Così per quattro mesi, dall'aprile alla fine di luglio; poi, finalmente, mia mamma venne messa sull'avviso da un buon uomo di vetturino che aveva sentito i miei gridi disperati e m'aveva scovata in mezzo a un campo di pomidori. Furie materne, furie della nutrice e furie del medico che trovò la donna prossima ad esser madre di un nato illecito. E io affamata, urlante, venni affidata a due caprette, molto più materne con me di Teresa.

Delle volte penso che le poche stille di latte succhiate da quella donna lussuriosa abbiano lasciato il loro segno di passionalità in me. E meno male che sono state poche stille!!! Certo che io, nata dal più placido degli uomini e dalla più frigida delle donne, ho una psiche ben diversa e, se la bontà di Dio e l'educazione religiosa avuta in ottimo collegio non avessero provveduto a modificare la mia natura, io avrei potuto essere una disgraziata senza freno. Ma è anche certo che questa passionalità, deposta in me da coincidenze fortuite quali sono la terra dove nacqui e la donna che mi allattò così malamente, o venuta a me da origini lontane per discendenza da qualche mio avo dotato del mio stesso carattere, furono e sono cagione di non poche lotte e non poche sofferenze per me.

Le due nature, dirò così, che erano in me: quella ereditata dai genitori - natura compassata, placida, metodica, tutta lombarda - urtava contro quella succhiata dal sole, dall'aria, dal latte meridionale. L'una freddina e chiusa, l'altra ardente e espansiva, sempre in lotta fra loro perché la prima imperava sulla mente ed era prepotente, sempre più prepotente perché spalleggiata e di continuo aumentata dall'educazione familiare, e l'altra urgeva nel cuore ed era una vera fame, una vera sete, una vera nostalgia di affetti, di amore, un bisogno di amare e di essere amata con passione, con fedeltà, con dedizione. Potrei dire di me che ero come un vulcano dalle pendici coperte di neve perpetua che ne cela i fianchi ribollenti di fuoco sotto una spennellatura di ghiaccio. A volte, a intervalli, il fuoco del

cuore, troppo compresso, esplodeva in improvvise, incontenibili eruzioni che sconvolgevano, arrossavano, liquefacevano la gelida neve esterna. Ma poi la mano ferrea dell'educazione familiare e una naturale ritrosia, una timidezza innata, un vergognarmi della mia tendenza mi ricopriva di compassatezza fino a farmi apparire fredda, indifferente, calma. Calma!...

Ma torniamo all'infanzia.

Si dice che i caratteri si delineino fin dai primi giorni di vita. Ebbene: io mostrai subito un lato, potrei dire il più essenziale, del mio carattere.

Quello della fedeltà a quanto amo.

Teresa mi aveva dato ben poco! Avare e venefiche stille di un latte che non era più latte, pericolosi abbandoni su zolle campestri; m'aveva turbato organi, psiche, sonni, digestioni con la sua eccitata frenesia di impudica sempre agitata dalla sua sete di illeciti amori, dalla tema d'esser sorpresa dal marito o dai padroni; eppure io, con il mio cuoricino appena nato, le volevo bene, un bene rudimentale come è quello del cucciolo verso la femmina da cui trae alimento e calore, ma un bene sempre. E fui fedele a quel mio primo amore. Cacciata Teresa, io rifiutai ogni altro seno di donna e rasentai la morte per inedia perché respingevo con un'ira disperata ogni mammella che mi venisse offerta... Preferii arrendermi al belare affannoso delle due caprette... Sentivo forse di già che nella mia triste vita avrei avuto conforti da Dio solo e, dopo Dio, dagli animali e dalle cose create da Dio eterno? Chissà! Certo si è che, se fra me ed i miei simili ben pochi e buoni furono i contatti ed ebbi dal prossimo molto a soffrire e poco a trarre conforto, dalle umili creature minori, dai fiori, dall'erbe, dal sole, dagli astri, dal mare testimonianza di Dio, dalla natura suo poema io ho tratto sempre forza e pace.

Rimasi a Caserta fino al mio diciottesimo mese; poi mio padre venne trasferito, col Reggimento al quale apparteneva, a Faenza. Dal sole del meridione al ghiaccio delle Romagne! Io che avevo, posso dire, tratto vita nei miei primi quattro mesi di vita dal sole che mi fasciava di splendori e mi teneva in vita, dal sole che era per me nutrice... Perdetti in uno quel sole e le mie due caprette, e dicono che la mia accorata ricerca di queste due cose fosse veramente commovente.

Detti qui la seconda prova di fedeltà negli affetti. Non presi mai più latte. Il mio stomachino non volle più digerire latte che non fosse di capra e, dato che di capre a Faenza non ve n'era traccia, non più latte. Punizioni, lusinghe, tutto era inutile perché non era capriccio il mio. Era una necessità fisica che mi impediva di digerire il pesante latte di mucca.

Parte II. p. 14

Preferisco il sole. Bisogna ricordarsi che sono nata nei paesi del sole e dal sole ho tratto vita quando ero un povero cucciolo abbandonato nei solchi...



Parte III. p. 14.

Come vede, non mi uso pietà nel descrivermi quale ero... Ma in queste narrazioni bisogna essere sinceri. Sempre. Nel dire il bene come nel dire il male, se no è inutile scriverle. Non le pare?

Ero una violenta e una passionale. Non dimentichi da chi avevo succhiato il latte e la teoria di certi scienziati sull'influenza del latte nei futuri caratteri dei poppanti. In quegli anni, sotto il pungolo di forze esterne ed interne, la psiche della mia pazza nutrice saltava fuori. Le forze esterne gliele ho già descritte. Le interne le ho accennato quali fossero.

Il Maestro dice: «Dal cuore vengono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le parole oltraggiose. Queste son le cose che contaminano l'uomo».

A me, dal fondo del cuore dove con poco rispetto per la mia innocenza era stato gettato un conoscimento, che mi si poteva risparmiare, su certe animalità della nostra natura, sorgevano tentazioni di desiderio.

Chi non le ha provate non le può capire e perciò non può giudicare.

Comodo è tuonare contro chi cade, ma bisognerebbe però che colui che tuona e giudica fosse a sua volta morso dalla tentazione. Allora capirebbe.

Ah! Gesù, che parola la tua quando dice: «Non giudicate!». Coloro che la bontà eterna ha preservato da certe lotte dovrebbero limitarsi a lodare e benedire Iddio, fare unicamente questo, invece di consumare lingua e respiro nel condannare i fratelli tentati...

Ho sofferto moltissimo.

Fu qui che ebbi un sogno che sento con sicurezza essere stato mandato da Dio per mio bene.


Parte III. p. 42

Giungemmo a Reggio Calabria il 10 ottobre 1920. Ci eravamo fermati a Roma, a Napoli, a Caserta per qualche giorno.


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