Tu septiformis munere

Tu septiformis munere,

digitus paternae dexterae;

tu rite promissum Patris,

sermone ditans guttura.


Tu è in uso nella innologia antica per dare vivezza all'espressione poetica, quindi per dare maggiore efficacia all'invocazione; ma tra le ragioni di questa scelta non mancano di certo l'esigenza dell'immediatezza lirica e la piacevolezza di dare maggiore sveltezza al discorso e le collegate ulteriori maggiori possibilità di sintesi da recuperare ad esso. Tu, Spirito: e qui continuano i titoli della simbologia, che ci pare di poter dire proprio da questo inno sia derivata in tutte le sue variazioni nella tradizione della Chiesa.

Tu septiformis che hai sette forme, il riferimento è ai sette doni dello Spirito Santo, doni che ne qualificano l'azione nel suo rapporto con l'uomo. Solo ad elencarli, si è sommersi da una valanga di pensieri e, perché no?, da un cumulo di rimpianti e di rimorsi. Perché, Dio mio, in tanti anni trascorsi della mia vita, la riflessione così poco si è fermata sui carismi del tuo Spirito? Son tutti di mio interesse vitale e lo studio e la pratica di essi mi avrebbero di certo aiutato a vivere, mi sarebbero stati utili a tenere la barra nella direzione giusta, che è quella della salvezza. Ti chiedo perdono, Signore, di tanta negligenza e ti prego ad inondarmene ora, quando poco mi manca a tornare nella tua casa, dove spero figlio disobbediente ed irrequieto di essere accolto dalla tua misericordia: in essa mi rifugio e mi è dolce affondare la mia testa nella foltezza della tua morbida barba bianca mentre mi abbracci, Padre della carità.

Sono sette i doni dello Spirito Santo: la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timor di Dio. È proprio vero quel che dice il salmista: il tuo Spirito buono mi guidi in terra piana. Come può non essere piana la terra, quando ti muovi con i sette doni del Paraclito? La terra non è più terra, diventa cielo. Nel Catechismo si scrive che appartengono nella loro pienezza a Cristo, Figlio di Davide. Essi completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono i fedeli docili ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine. La raccomandazione si fa viva: una preghiera più intensa deve preparare a ricevere con docilità e disponibilità la forza e le grazie dello Spirito Santo.

Ciascuno dei doni è il tema di una trattazione specifica: che sia così è provato dalla ricchezza bibliografica che distingue la produzione in materia, a partire dai più antichi testi della patristica e della patrologia per giungere, attraverso il medioevo con l'abbondanza degli approfondimenti degli studiosi grandi e piccoli della cosiddetta scolastica e attraverso i tempi riformisti e controriformisti con le polemiche filosofiche e teologiche impegnate, alla teologia moderna, di cui, si può ben dire, Benedetto XVI è un rappresentante autorevole.

La riflessione sui sette temi e sulla maniera in cui si esercita l'attività dello Spirito per ciascuno di essi è di grossa utilità nella vita intellettuale del singolo, in quanto da essa può derivare il più corretto modo di concepire la vita e di conseguenza dimensionarsi meglio, con più avvedutezza, sulla propria spiritualità quotidiana specie nel rapporto con le tre persone della Trinità, ma pure con se stesso, con i propri simili e con la natura circostante, che sento sempre più madre, mai matrigna, man mano che gli anni passano e si accumulano sul groppone.

È personale, rigorosamente personale, segreto, il rapporto teandrico, e la meditazione sui sette doni, su ciascuno di essi, può aiutare a vivificarlo, a renderlo direi più concreto, particolarmente nei riflessi che si hanno con quanti ci vivono attorno. Per questo motivo, se un consiglio mi è permesso di dare a chi mi legge, dico di prendere a tema della riflessione e dello studio di una settimana, facendolo oggetto delle nostre meditazioni quotidiane e nutrendolo di letture specifiche di testi antichi e di aggiornamenti ben selezionati. Ovviamente di tutto questo si gioverebbe l'avanzamento culturale personale, oltre che la propria vita dello spirito. L'invito e la raccomandazione rivolgo non solamente a quelli che credono, ma pure ai laici, specie gli indifferenti, perché da un'organica riflessione sui sette doni dello Spirito Santo, i quali interessano, anzi appartengono ad ogni uomo, non solo il credente, possono trarsi consistenti benefici di crescita culturale personale e comunitaria per le incidenze che ciascuna persona ha nella sfera delle sue attività di ogni giorno e non.

Tu settiforme munere. La prima forma italiana che mi viene per tradurre munere è per prestazione. Per dono, per dote, per sostanza, per essenza, per natura è nel tuo essere Dio l'amore, che nelle schematizzazioni a noi comode caratterizziamo nei sette doni e ci raffiguriamo per simbologie di agevole accesso. Tu sei Dio e sei tutto. Deus meus et omnia. Tu sei la pienezza dell'essere e dell'esistere e il munus, la prola che si usa nell'inno è riferito a te stesso, sempiterno e infinito. Tu sei dono a te stesso e per questo non puoi che essere multiforme per donarti all'uomo, all'uomo singolo, unico ed irripetibile.

Se, per rendermi conto del senso più proprio del termine usato, e lo faccio assai volentieri, consulto il dizionario latino-italiano di Ce. E. Georges, la sesta ed ultima edizione tedesca diffusa da Rosenberg & Sellier nel 1914, al vocabolo munus, come non succede tanto spesso, si è dedicato quasi due colonne del fitto composto del testo. È interessante studiare le specificazioni del termine nello schema proposto e analizzare le esemplificazioni addotte dai classici della letteratura latina. Per noi è sufficiente quanto abbiamo scritto, perché tutto si comprende nel senso e nel valore della donazione che fa Dio di se stesso all'uomo, ogni cosa creando per lui, incarnandosi come lui, sacrificandosi fino alla morte, e all'ignominia della morte di croce, per redimerlo, rimanendo con lui, vivo e vero, nell'eucaristia fino alla fine dei secoli.

Tu, Spirito Santo, per la tua attività amorosa verso l'umanità sei il procacciatore della gloria al Padre: per te la terra diventa cielo quando l'uomo accetta il tuo alito vivificatore e salvatore e vivendo alla sequela di Cristo signore glorifica il Padre. Molto bene san Pietro li definisce nella sua prima lettera «Spirito della gloria». Tu ci guidi per mano a dare gloria a Dio e ci dai la Chiesa per madre, la Chiesa, che, unita a Cristo, da lui è santificata e per mezzo di lui e in lui diventa anche santificante. Tutte le attività della Chiesa convergono, come a loro fine, verso la santificazione degli uomini e la glorificazione di Dio in Cristo. È nella chiesa che si trova tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. È in essa che per mezzo della grazia, che tu, Spirito, ci dai in ogni sua forma, acquistiamo la santità e quindi diamo gloria a Dio nei secoli.

Il dito di Dio è quello di Michelangelo nella volta della Sistina. Per gli artisti figurativi è difficile, molto difficile, dipingere le mani nel movimento corretto e vero delle loro dita. Non lo è certamente per il Buonarroti, che del corpo umano conosce tutti i segreti e ne ha rappresentato le parti ovunque con verità. Bello è il dito, e bello pure l'uomo che ne riceve l'energia; ma non è bello il Padreterno per la faccia imbronciata che ha e per il dinamismo che smuove il suo corpo, avvitandolo in un volo improprio. Per me la prima persona della Trinità, il principio di tutto, è il canuto vecchio benevolo, dolce di sguardo per la misericordia, il corpo immobile nella fissità dell'eterno, che è presente sempre presente, disponibile e aperto all'uomo che ama.

Comunque, l'immagine di Michelangelo è prorompente nell'anima e quel dito vorrei si drizzasse ognora verso di me, ma non minaccioso, ma per toccarmi amorevolmente e trasmettermi la forza della carità. Il dito paternae dexterae, della mano destra di Dio. A parte la necessità metrica e il superamento della ripetizione della parola Padre usata nel rigo appresso, l'aggettivo dà più familiarità alla figurazione poetica e l'efficacia della sintesi accosta di più il lettore al canto. È la mano destra che paterna vogliamo benedicente, carezzevole, amorosa, indicativa dell'azione del Padre, comunicativa della vita dello spirito, espressiva nella propensione carnale dell'amore del creatore per l'uomo, al centro dei suoi interessi perché destinato a dargli gloria.

Torna il tu, prerogativa di certo della formula dell'inno, ma pure invocativo propiziatorio. Rite ha diversi sensi: secondo le usanze religiose, in forma solenne, in modo conveniente, bene, nel modo giusto, in maniere ordinaria. In qualsiasi significato si prenda, tiene sempre il posto giusto nella scansione metrica, che non è preoccupazione secondaria di chi compone il testo poetico. Si accoppia bene con il tu dell'invocazione e con la promessa che si richiama subito dopo. Certo è che promissum è del Padre e che quindi ci si deve rifare ai concetti di religiosità e di solennità insiti nell'avverbio rite, proprio nei primi due sensi da noi dati al termine.

Promissum Patris: tu sei la promessa del Padre, e la promessa riecheggia in tutta la scrittura, specie neotestamentaria, è ripresa specie da san Paolo con la sua forza: rite, di rito, di storia, in un'attesa che diventa fondamentale nella rivelazione biblica e nella prassi teologica. La promessa è che tu ti manifesti, perché nel Padre già ci sei e già ci sei con Cristo Gesù il redentore. La tua epifania avviene nella pentecoste e il riannodo concettuale è sollecitato dal verso successivo, tu che arricchisci le gole per il discorso: sermone ditans guttura. Escono dal cenacolo, gli apostoli, a parlare le lingue di tutti, convincenti si fanno le loro parole, suadente il buon annuncio che danno. Ma dove sono riuniti con Maria i prescelti da Cristo a predicare il regno tu irrompi con un rumore assordante, un tuono, e accendi nelle loro menti il fuoco.

A me piacciono da sempre i toni forti, ma oggi leggo un passo dei libri dei re su un significativo episodio della vita di Elia. Egli, in quei giorni, essendo giunto al monte di Dio, l'Oreb, entra in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli vien rivolta la parola dal Signore in questi termini: «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passa. C'è un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non è nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non è nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non è nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'ode, Elia si copre il volto con il mantello, esce e si ferma all'ingresso della spelonca.

Il tempo dei toni forti è finito anche per me. Esco dalla caverna col capo e col viso coperti e aspetto, Spirito di Dio, mio Signore amatissimo, la tua voce. Dillo pure a me: «Va' e riprendi la tua via per il deserto fino a Damasco». Anche san Paolo, il sistematore del messaggio evangelico, cade da cavallo e sente vibrato l'invito alla sequela di Cristo. La cecità, però, dà il tempo per la riflessione pacata, quando arrivi tu ad operare con la tua luce, Spirito di Dio, a scaricare impulsi nuovi alle cellule del cervello e formule inedite alla chimica che secernono per i loro agganci, a trasformare compiutamente la visione del mondo e della vita. Il tuo soffio è leggero, consolatore dell'uomo, penetra nel segreto della coscienza e infine dà linguaggio, attuale, moderno, piacevole alla comunicazione.

Il venticello lieve lieve gonfia le vele bianche di poche barche che lì, nel brillio che fa il sole sull'azzurro profondo del mare appena smosso, arriva fino a me e culla la mia pigrizia, i miei silenzi e la quiete del mio dolce far niente. È questo venticello che mi dà la voglia di pregare: non faccio il bagno, pur se son convinto della bontà della talassoterapia e soprattutto amo il mare da sempre: nel dna mi hanno messo la passione del nonno materno, comandante degli storici transatlantici. E questo venticello sei tu, Spirito di Dio, a darmi la forza dell'attesa, ad arricchire la mia penna, ditans guttura, a farmi star qui a sperare.

La mia speranza è quella di vedere Dio faccia a faccia e poi aver un posticino, magari l'ultimo, in paradiso a godere per l'eternità della carità del Padre. Con la grazia ci posso arrivare, e la grazia è innanzi tutto e principalmente, Spirito di Dio, l'elargizione tua, che ci giustifica e ci santifica, e comprende anche i doni che ci concedi per associarci alla tua opera, per renderci capaci di cooperare alla salvezza degli altri e alla crescita della Chiesa, che è il corpo di Cristo, la nuova pentecoste che viene per ciascuno di noi ogni giorno, ogni momento. «Quelli del cenacolo furono tutti presi dallo Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi».