tutto pieno di pietà, e d'amore

4 - tutto pieno di Pietà, e d'Amore,

In ogni parte, in ogni punto dell'essere Cristo c'è completezza, della sua divinità e della sua umanità, nel suo sorriso con il quale si dichiara totus meus, con il suo sguardo comprensivo, con il suo costa­to aperto, profumato del sacrificio fatto per me sulla croce, ma pure, liliale, della scelta di farsi prigioniero delle specie eucaristiche per dirsi presente a me, sempre disponibile, fratello nell'itinerario che percorro, ognora pronto a prendersi il carico, ad assumersi, ogni mia voglia di trasgredire. E tutto di te mi giova, la tua umanità a rispecchiarmici dentro, a farmi compagnia, specie la tua sofferenza, quella dell'esilio dell'uomo, che tu hai paurosamente vissuto più di me, nella solitudine tragica della tua passione, consapevole di essere vittima innocente dell'uomo perfido. Sì, è perfidia quella del tempo, non accorgersi che tutto il Cristo s'immerge nella tradizione ebraica e di essa le leggi rispetta, interpretandole nello spirito, non nella lettera. Non sono più perfidi gli ebrei d'oggi, è certo; ma il giudizio della sto­ria si riferisce a quelli di allora e a nulla vale cambiarlo nelle parole o queste cancellarle dalla liturgia d'oggi.

E tutto mi sei servito nella divinità, a comprendere che il mio rapporto con Dio Padre è personale. È possibile che il creatore del mondo si curi di me, singola persona, meno che atomo in un univer­so intero, incommensurabile nel tempo e nello spazio? Sei venuto tu nella mia storia e l'ho capito e ho amato di più, se così si può dire, il Padre, l'uomo vecchio, tanto più vecchio di me, che vedo con la lunga e folta barba bianca e con lo sguardo pietoso nella mia lettura antro­pomorfica, l'unica possibile nella totalità dei miei sensi, oltre che alla mia intelligenza limitata.

Tutto sei lì, nel tabernacolo, a misurare la nostra finitezza nel mistero della tua infinità. Tutto intero, nella tua intera quantità, umana e divina, nella tua intera estensione, terrena e infinita. Man mano che l'uomo si fa vecchio, si restringono i perimetri fino a diven­tare un punto, la morte. Solo buttandosi nella tua eternità si recupe­rano tutte le dimensioni e lo spazio si fa immensità e il tempo eterni­tà. Tutto così sei nel sacramento, nella tua essenza e nella tua esisten­za, nella sostanza e nella forma. Il mistero delle sacre specie è il gran­de mistero che si pone al centro della vita per essere liberi, autenti­camente liberi, nell'adorazione silenziosa. E sant'Alfonso non si sod­disfa e richiama, parlandoti, l'intera tua quantità e l'intera tua esten­sione, e aggiunge a rafforzare l'invocazione l'attributo della pienezza. Paolo, con la sintesi che è sua mirabile dote nello scrivere, annota: in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.

Contieni al limite massimo le tue capacità. Al tuo culmine. Ma esiste questo limite in te? Questo culmine? Lo misuri sull'uomo, su di me, e riversi la tua ridondante pienezza, sulla mia miseria. Dalla sua pienezza, come dice Giovanni, noi tutto abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Così fai pieni i tempi di ciascuno. La pienezza dei tempi è di ciascuno, il punto centrale del destino umano segnato da Dio con la venuta del Figlio in terra per la redenzione dell'umanità. Storicamente il fatto si data, ma lo attua nella sostanza ciascun uomo quando assume consapevolezza del suo personale rapporto teandrico e l'animo si china nella casta adorazione e nel ringraziamento.

L'interezza e il culmine riferiti al sacramento, al sacrificio rinnovantesi della croce e a quello che lo continua nella prigionia delle specie eucaristiche, non possono che essere attributi della pietà e del­l'amore. Cristo è tutto pieno di pietà e di amore: come lo è stato nella storica vicenda della redenzione lo è nel grande mistero dell'eucari­stia fino alla fine dei secoli. Dio è vicino a chi ha il cuore che soffre, in tutta la dinamica della sua trinità: con paterna misericordia si fa Figlio dell'uomo per salvarlo, salvatore e mediatore unico, e si ama in questa figliolanza nella processione dello Spirito, che in tutti alita l'ansia della salvezza. È pietà, è compassione per la mia sofferenza farti vicino a me, farmi sentire il richiamo che mi viene dalla pena che provi per la mia condizione umana, fasciarmi le piaghe, invitar­mi ad esserti amico.

Ognora che sento il termine, pietà, in mente si fissano le opere d'arte sul tema; ma è la pietà dell'uomo per il Cristo morto, riverso sul grembo e sulle cosce di Maria, la personificazione più alta della pietà dell'uomo. Ma qui, nel sacramento per antonomasia, per l'uomo che soffre è la pietà viva, la pietà del Figlio di Dio, di Cristo in carne ed ossa. Il Figlio dell'uomo ardentemente, nella forza della sua divinità, nell'ineffabilità del grande mistero della redenzione dell'umanità, anela a farsi l'altro, samaritano in toto, chino su di me, vittima di sfa­celi, illividito di dolori, sfinito di stanchezza.

E pietà e amore si compenetrano, essendo quest'ultimo il senti­mento di vivo affetto verso una persona, la partecipazione e l'attac­camento alle sue sorti, il desiderio incalzante di essergli vicino, di sentirne i palpiti, di toccarne le carni. Vero è che le cose che contano sono quelle che non si vedono, e l'amore è tra queste in posizione pre­minente; ma hanno l'urgenza di esprimersi e questa si soddisfa attra­verso il corpo, i suoi cinque sensi, tutti, nessuno escluso. Mi vien fatto di pensare a Lazzaro. Cristo l'ama: lo sottolinea Giovanni in due parole. E ama le sue sorelle, di cui avverte fortemente dentro il dolo­re. Opera il miracolo quando i germi della putrefazione sono lì lì per lo sterminio dell'esistenza corporale e già il cadavere comincia a dare cattivo odore. Gesù voleva molto bene a Maria, a sua sorella Marta e a Lazzaro. Ma Giovanni non si ferma qui, attesta nel lungo e detta­gliato racconto della risurrezione dell'amico che Cristo scoppia in pianto, e i giudei si meravigliano: «Vedi come lo amava». Sì, così il Figlio di Dio ama l'uomo. Questo capitolo del Vangelo è da tenere in tanta considerazione per ragioni di molteplice natura. Quando le donne gli mandano a dire che il suo amico è malato, Gesù afferma che la malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato. E di là comincia il duro itinera­rio della passione: voi non considerate, riflette Caifa, come sia meglio che muoia un solo uomo per tutti e non perisca la nazione intera.

C'è qualcuno che, come quelli che te lo vengono a dire per Lazzaro, che ti confida, Gesù vivo e vero, pieno d'amore anche per me, che io sono malato? Te lo dico io stesso ed io alla tua domanda fatta a Marta rispondo: io credo che tu sei la risurrezione e la vita e credo che sebbene io sia morto tu mi farai rivivere. Ognuno che vive e crede in me non morrà in eterno. Io son morto nella volontà, ma tu me la guarirai. Tutta la tua vita, Signore, è rivelazione del mistero di amore del Padre, che con te e con lo Spirito Santo intesse uno scam­bio di amore infinito ed eterno. Perché in esso entri pure l'uomo tu ti fai mettere in croce e ti doni, divino mistero di amore, in corpo, san­gue, anima e divinità all'uomo per aiutarlo a salvarsi, per fasciargli le ferite, per dargli la risurrezione.

Ratzinger parla del nascondimento di Dio in questo mondo e ben sostiene che la conoscenza di Dio chiama sempre in causa l'uomo nella sua totalità: nel mondo segnato dal peccato il baricentro intor­no a cui gravita la nostra vita è caratterizzato dall'attaccamento all'io e al si impersonale. Questo legame dev'essere spezzato per schiuder­si a un nuovo amore che ci trasferisca in un altero campo gravitazio­nale e ci faccia così vivere in modo nuovo. In questo senso la cono­scenza di Dio non è possibile senza il dono del suo amore resosi visi­bile; ma anche il dono dev'essere accettato. L'amore di Dio si rende visibile con il mistero della croce, che continua nell'eucaristia con la presenza autentica del Figlio, che, vivo e vero, in corpo, sangue, anima e divinità, è vicino a chi soffre, pieno di pietà e di amore, pron­to a dare la risurrezione e la vita.