La Biblioteca Apostolica

LA BIBLIOTECA DEI PONTEFICI DALL’ETÀ ANTICA ALL’ALTO MEDIOEVO

1. I primi tre secoli: da Oriente a Occidente

Chi volesse interrogare le righe iniziali dell’imponente iscrizione marmorea che il pontefice Sisto V (1585-1590), a guisa di charta lapidaria, fece collocare nel 1588 alla destra del portone d’ingresso del Salone Sistino, non avrebbe difficoltà ad ammettere che esse costituiscono, tra le numerose testimonianze trasmesse dalla tradizione, quelle meglio riassuntive dei tempora fondanti della lunga e difficoltosa storia istitutiva della Biblioteca Apostolica Vaticana, fin dal suo silenzioso e timido nascere (fig. 1 e scheda 1).

La committenza di questo dettato iscritto, inciso con elegante ductus in piena sintonia con la tradizione monumentale classica, da cui i moduli espressivi, solenni e magniloquenti delle epigrafi pontificie tanto ereditarono in forme e contenuti, si era impegnata — con tre semplici connessioni sintattiche dipendenti dai quei tre finali extulit ornavit dicavit — a mettere ordine sulla congerie di notizie, informazioni, resoconti, il più delle volte difficile a essere inquadrata nella corretta esegesi storica, attinente alla Biblioteca Apostolica Vaticana. La biblioteca dei pontefici, avviata parallelamente e necessariamente al nascere della Chiesa, venne istituita nel Laterano all’indomani della pax Constantiniana, per trovare, solo in seguito e dopo la parentesi avignonese, la sua definitiva e stabile sede in Vaticano a stretto e naturale contatto con le necessità proprie dell’attività della Santa Sede.

Appare evidente fin dalle sue origini che la Chiesa, nella lenta ricerca di acquisire un assetto dottrinale, giuridico e pastorale, abbia maturato con sempre maggior consapevolezza l’esigenza di conservare tutte le testimonianze scritte finalizzate a questo scopo. Di conseguenza possiamo realisticamente ipotizzare l’esistenza di qualche luogo preposto a tale necessità, che in quei primi secoli ben difficilmente si sarebbe tuttavia potuto strutturare e identificare, anche a Roma, come una vera e propria biblioteca, ma forse, più ragionevolmente, come un luogo destinato all’utenza riservato e discreto (certamente, con gli altri volumi delle Sacre Scritture, il Vangelo doveva costituire il primo codice di ogni archivio ecclesiastico). Possiamo quindi solo affermare, come ci indirizzano le fonti, che una chiesa poteva e doveva essere la sede privilegiata per la conservazione dei testi sacri; a tale proposito si confronti, tra i tanti, l’episodio — avvenuto in Cesarea di Palestina agli inizi del secolo IV — del martirio del soldato Marino, al quale Teotecno (Θεότεκνος), il vescovo di quella città, mostrò i testi evangelici (ἡτῶν θείων εὐαγγελίων γραφή) conservati, appunto, all’interno di una chiesa (ἐν ἐκκλησίᾳ). Ma di questa documentazione scritta e delle possibili strutture che l’avrebbero potuta ospitare in Roma o in qualsiasi altra diocesi, quasi nulla ci è stato tramandato per queste età remote.

Mi si conceda questo aggancio, mutuato da una situazione di ben più alta attendibilità storica. Che esistesse in quei primordia una circolazione libraria, siamo indirettamente informati da alcune testimonianze che certificano come fosse attiva la ricerca dei ‘libri’. Famoso rimane l’esempio di Origene, il pensatore più autorevole dei primi tre secoli (morì nel 251 sotto l’imperatore Decio), il quale, così ricorda lo storico Eusebio di Cesarea, per effettuare uno studio accurato delle Sacre Scritture, ne acquistò numerosi esemplari, anche in lingua ebraica, portando alla luce testi che per lungo tempo erano stati ignorati e che addirittura, quasi res nullius, erano nascosti in luoghi sconosciuti ai più. Sullo stesso piano sono anche le fonti, sebbene indirette, relative al regno di Diocleziano (284-305) e alla sua grande persecuzione contro i Cristiani, iniziata il 23 febbraio 303: questa persecuzione fu promossa, come si sa, con l’intento di restaurare un potere incentrato sul programma assolutistico finalizzato a dare vita a una monarchia orientaleggiante e, di conseguenza, a colpire dalle fondamenta tutta la gerarchia ecclesiastica specie in Oriente. Nei ben noti atti di confisca voluti da Diocleziano, sì, delle chiese dell’Africa, ma estese certamente a quelle di tutto l’impero, si parla chiaramente dell’esistenza di biblioteche a disposizione delle comunità cristiane. Infatti, ad esempio, come ci narra Lattanzio, il precettore dei figli di Costantino, proprio in quell’anno vennero bruciati i testi delle Sacre Scritture conservate all’interno di una chiesa. Il già ricordato Eusebio racconta, inoltre, con analoga tristezza e profondo sconcerto cosa accadeva in Palestina ai seguaci della parola di Cristo, nel periodo precedente alla domenica di Pasqua. Tutto, o gran parte, di quella tradizione scritta, che ravvisava nei sacri testi (le scripturae, le γραφαὶ ἀφανεῖς, in ogni caso codices pretiosissimi per contenuto e forma) il fondamento della religione cristiana, dovette miseramente perire in quei tormentati anni all’esordio del secolo IV. Durante le perquisizioni compiute in Africa dai funzionari imperiali alla ricerca dei testi delle Sacre Scritture che si dovevano consegnare, come aveva stabilito l’imposizione governativa, sappiamo che gli armaria erano ormai senza libri, anche se, al fine di non farle reperire ai persecutores, le Sacre Scritture erano state tolte dall’originario luogo per essere conservate in luoghi maggiormente sicuri, lasciando unicamente…