Manzo_La preghiera del cristiano

Antonio Manzo

La preghiera del cristiano

(in Cl@rus – Periodico della comunità ecclesiale di Alife-Caiazzo, Anno I, n. 4, Nov. 2001, p. 21)

Dobbiamo a Tertulliano il primo trattato sulla preghiera (De oratione), scritto fra gli anni 200-206, articolato in due parti: commento al Pater noster e illustrazione delle condizioni, che ren­dono la preghiera accetta a Dio. Nel Pater, "il compendio di tutto il Vangelo (breviarum totius Evangelii)" (de orat. 1,6), è ravvisato il modello del collo­quio dell'uomo con Dio; le regole del ben pregare so­no minutamente enunciate, e con un tono, che non consente libera iniziativa al fedele che prega.

Sono, queste, le due strade della tradizione cristiana e risalgono alle origini della dottrina, allo stesso inse­gnamento evangelico.

Che Gesù stimi grandemente la preghiera solitaria e intima ci è da Lui stesso mostrato dall'inizio della sua attività pubblica fino al suo estremo consumarsi della passione. A Cafarnao, quando i primi miracoli ormai richiamavano la folla, Gesù lascia la dimora di Simone e "si ritira in un luogo deserto a pregare" (Marc. 1,35). Dal Vangelo lucano apprendiamo che lo Stesso, prima dell'istituzione dei Dodici, "va sulla montagna a pregare e passa la notte in orazione" (Luc. 6,12). Ed ancora, sul monte degli Ulivi, nelle ore della sua pas­sione, vediamo Gesù allontanarsi dai discepoli e pre­gare a lungo in solitudine (Luc. 22,39-45).

Ma come non ricordare il discepolo, un ebreo edu­cato alla pari degli altri alla ritualità del Tempio, che chiede a Gesù: "Signore, insegnaci a pregare"? E Gesù dà loro l'orazione perfetta, che san Luca colloca all'i­nizio di una breve catechesi sulla preghiera (11,1-13). Era, infatti, caratteristico determinare una preghiera-simbolo, che identificasse una comunità e quanto è ad essa peculiare. Perciò, quale preghiera del loro essere 'cristiani', Gesù insegna ai suoi discepoli il Padre, non già il Padre Nostro, come leggiamo nel passo paralle­lo del vangelo di san Matteo (6,9-13), perché san Luca vuole ricalcare, nel greco Pater, il vocabolo aramaico usato da Gesù, Abbà, che evoca il modo affettuoso, con cui il figlio interpellava suo padre. Infatti, la scel­ta lessicale fatta da Gesù è intesa a rendere il segno di grande intimità, che intercorreva tra Lui e Dio Padre, e che doveva intercorrere tra i suoi discepoli e Dio. Co­me san Luca vuole sottolineare l'originalità di Gesù in quel suo riferirsi a Dio come a persona intima e affet­tuosa, così san Matteo (6,10) con Padre nostro ripren­de il più solenne abinu, parola nota anche alle pre­ghiere giudaiche. Ma va pure detto che san Matteo in­serì il Padre nostro nel grande discorso della monta gna: a lui non preoccupa il non pregare, bensì un certo modo di pregare. Ma sopra tutto dalla preghiera dei pagani, dalla pre­ghiera prolissa, che san Matteo prende le distanze: "Non siate perciò come loro... Voi dunque pregate così" (6,8). Si direbbe che Gesù insegni a pregare pregando.

Da una parte c'è la preghiera intima e solitaria, che nella tradi­zione cristiana sta ad indicare uno dei due modi, con cui l'uo­mo può accostarsi alla realtà di­vina. Dall'altra poi, c'è la pre­ghiera formulare, sia privata sia pubblica e collettiva, elaborata nel lento stabilirsi delle consuetudini ecclesiastiche e dei ceri­moniali liturgici.

La gerarchia ecclesiastica si è mostrata, nei secoli, favorevole a fare della preghiera un fatto es­senzialmente comunitario e ad assegnare all'orazione liturgica una dignità speciale. Una supe­riore efficacia impetratoria le è stata poi riconosciuta in quanto composta direttamente dalla Chiesa e in suo nome offerta dai suoi ministri, mentre il valore della preghiera privata è stato subordinato alle peculiarità di chi prega, alle sue condizioni di devozione e di fervore.

Il certo è che la teologia della Chiesa in preghiera ha letto in senso ecclesiologico molti passi neotestamentari ed ha recupera­to antiche interpretazioni patristi­che, a cominciare da quanto di­ce Gesù: "Se due di voi sopra la terra si accorderanno per doman­dare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la conce­derà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lo sono in mezzo a loro" (Mat. 18,19-20).

Nella documentazione a noi giunta dalla Chiesa antica la preghiera è attestata sopra tutto nell'aspetto liturgico. Del resto, la preghiera personale, proprio in quanto tale, rimaneva un fatto privato e solo eccezionalmente assumeva valore letterario, quando cioè veniva incorporata in scritti di altra destinazione. Ma la preghiera liturgica, pro­prio in quanto parte essenziale del rito, doveva essere redatta in scritto, in modo da essere con­servata e trascritta.

In Oriente, nell'età bizantina la liturgia ebbe uno sviluppo ecce­zionale; e spesso chi intendeva manifestare in questo modo il proprio sentimento religioso lo faceva innestando la sua com­posizione in un contesto liturgi­co. In Occidente, lo sviluppo della liturgia non fu altrettanto ricco nella componente poetica, cosa che molte volte portò ad un maggiore ritualismo e ad una più frequente formularità. Ma, quando sembrava che il rito e le formule avessero il sopravvento, spesso si levarono le voci dei mistici a proclamare necessaria la conoscenza dei misteri divini nell'abbandono del colloquio con il divino.

Concludo ricordando come, in questa tradizione, Gioacchino da Fiore faccia di una preghiera rivolta al Cristo, re della gloria, l'esposizione della sua dottrina Trinitaria; e come Dante (Purg. 11,1-24) interpreti con grande li­bertà il Pater noster, atto di fede ufficiale fin dalle origini, tra­smesso nei secoli con un impe­gno, che non è in ugual misura registrabile per nessuna altra pa­rola evangelica.