Lungo il fiume

Giovanna Mastrati

...LUNGO IL FIUME...

(in Narrazioni, vol. II num. 4 – Dicembre 2000, pp. 99-102)

Dall’alto del piccolo centro rupecaninense, lo sguardo domina un’estesa vallata verdeggiante e coltivata, ancor oggi, da quei pochi contadini rimasti ancora saldamente affezionati alle loro terre. È la piana del Medio Volturno, attraversata dal fiume omonimo, una pianura che si estende, così imponente, da Vairano Patenora sino al territorio di Alife per poi restringersi e seguire il corso del fiume, che attraversa, a sua volta, il comune di Caiazzo. E prosegue fino a Capua per poi trovare il suo sbocco naturale nel Tirreno.

In questi giorni di feste natalizie, occasione per ritrovarsi tutti, giovani e meno giovani, accanto al camino a raccontare le cose e le storie più varie, mi è capitato di ascoltare qualcosa di insolito e per me sconosciuto, oltre che inimmaginabile, proprio sul fiume Volturno e del rapporto che in passato con esso hanno avuto i nostri antenati raviscaninesi e quelli dei paesi limtrofi.

Non avrei mai immaginato che la via di gran parte dei nostri nonni si sia svolta lungo le rive del fiume, un fiume oggi tanto sottovalutato e del tutto inutilizzato. Ebbene sembra proprio sia stato così...

Raviscanina era conosciuta in passato come il paese dei vinciaiuoli, ossia di quelli che lavoravano i vimini. Pare che di vimini lungo le sponde del fiume ne crescessero in abbondanza (ancora oggi se ne trovano) per cui i vinciaiuoli si sedevano lungo il fiume per iniziare la fase della pulitura dei vimini, che avveniva a mano con l’ausilio di un semplice pezzo di ramo d’albero detto scrocca, diviso a metà da una fessura entro la quale si facevano scorrere i vimini, che venivano così liberati dalla buccia. La fase successiva era quella dell’asciugatura per cui essi venivano esposti al sole ben allineati e lasciati “soleare” fino a sera, o meglio fino al suono delle campane che dall’alto del paese preannunciavano la fine della giornata lavorativa e la recita dei vespri. Era l’ora del ritorno a casa.

I vimini venivano caricati in spalla dagli uomini ed in testa dalle donne, in questo caso a mo’ di “sporta”, e portati a casa.

Qui uomini e donne iniziavano la lavorazione, una complicata “tessitura” di intrecci dalla quale venivano fuori belli ed utili recipienti. Cesti, o meglio “canestri” dalle forme e dalle grandezze più varie, “panari”, “rate”, “nassi” (quest’ultimi erano contenitori utili alla pesca), facevano bella mostra nei vicoletti e davanti alle case dei vinciaiuoli i quali, pazientemente, si dedicavano al delicato lavoro di selezione dei vimini (venivano infatti divisi a seconda della grandezza e del colore) e di intrecci, dando spazio alla creatività ed alla maestria individuale pur nel rispetto dell’utilità che avrebbe dovuto derivare dalle loro creazioni.

Una volta puliti, cesti, grate e contenitori vari venivano portati dagli stessi artigiani nei paesi vicini per la vendita; per lo più i vinciaiuoli si recavano a Pietravairano, a Baia Latina, ma anche a Sant’Angelo d’Alife, ad Ailano e a Letino ove ricevevano in cambio patate ed a volte pane. Certo preferivano vendere la loro “roba” al di là del fiume dove tale merce scarseggiava e venivano ricompensati con legumi quali lenticchie, “cicerchie”, ceci, fagioli oltre a formaggio e, raramente, a qualche moneta.

I vimini venivano però venduti anche a commercianti forestieri i più provenienti dalla provincia di Napoli ed in particolare da Frattamaggiore; questi ne acquistavano in gran quantità per la lavorazione industriale.

Al fiume i vinciaiuoli non erano certo soli... a fare loro compagnia c’erano le lavandaie che, poverette, a quel tempo non solo mancavano di lavatrice ma neppure avevano l’acqua poiché la rete idrica a quel tempo era inesistente e, perciò, nelle abitazioni non c’era acqua corrente; ognuno tutt’al più aveva il suo pozzo o, più spesso, una cisterna per raccogliere l’acqua piovana.

Le massaie, quindi, si recavano a lavare i panni nel Volturno, sceglievano i posti in cui c’erano belle e grandi pietre che facevano da “lavaturo”, portavano con sé pentoloni di rame, detti “caurari” utili nella fase del risciacquo e si munivano generalmente di “luscìa” ossia di un miscuglio di cenere e acqua che sostituiva gli odierni e più nocivi detersivi, con cui le lavandaie pulivano e profumavano lenzuola e biancheria. Erano proprio queste donne, dunque, a far compagnia ai vinciaiuoli con le loro voci e con i loro canti, da una sponda all’altra del fiume, da un lato le “petrulane”, ossia quelle provenienti da Pietravairano, e dall’altro le localiraviscaninesi, ognuna al proprio posto di sempre, modificazioni permettendo... E già, perché il Volturno, da sempre soggetto a piene improvvise, spesso modificava gli argini costringendo le donne e quanti abitavano le sue rive, a trovare sempre nuovi, comodi posti dove sistemarsi per le faccende quotidiane.

Non conoscevo questa storia del fiume o meglio questo spaccato di vita quotidiana raviscaninese ma ricordo mia nonna Giovanna lavorare i vimini nel garage sotto casa... ero davvero piccola allora, avrò avuto si e no tre anni, ma nella mia memoria ho conservato quelle immagini, i suoi tentativi di insegnarmi qualcosa e di farmi vedere come si intrecciavano i vimini. Ricordo che le chiedevo sempre di creare per me oggetti in miniatura... un cestino “piccolo piccolo” dove riporre i vestitini delle mie bambole o una grata dove sistemarle a “dormire”... Non ricordo, però, mio nonno andare a prendere i vimini al fiume, evidentemente nonna li prendeva da chi ogni mattina scendeva in pianura a procurarsene.

Mi viene in mente sicuramente Eugenio Pinelli, scomparso da qualche anno, sempre carico di fasci di vimini che poi egregiamente lavorava, oppure Paolo Mecaroni, meglio conosciuto come Poliglio, ultimo e più famoso vinciaiuolo di Raviscanina, anche lui purtroppo scomparso e, famosa per averne sempre sentito parlare in famiglia, la nonna di mio padre, Margherita De Lellis, ricordata ancor oggi da tutti come “nonna Rita”, scomparsa da ormai trent’anni.

Ma un ricordo va anche ad altri vinciaiuoli: Agostino Mecaroni, Giovanni Riccio e sua moglie Maria Antonia, Giuseppe e Ferdinando Pinelli, quest’ultimi ricordati per il ruolo che svolgevano all’interno della cerchi dei vinciaiuoli, essi si interessavano del fitto delle “vesche”, ossia degli alberi da cui si ricavavano i vimini, soprattutto in località “Panetta”. Bisogna infine citare Pietro D’Onia, unico vinciaiuolo ancora in vita.

Li immagino tutti, e con essi sicuramente tanti altri che purtroppo non ho conosciuto o non ricordo, scendere di buon mattino verso il fiume, quel fiume e le sue rive che quasi, nella mia mente, immagino come un cantiere, come un brulichio di persone, di voci, di colori, di canti, di scrosci d’acqua, di profumo di biancheria appena lavata...

Scene d’altri tempi che, però, è bello riportare alla memoria, immaginare, sapere che un dì, tanto tempo fa, sono state reali, vissute...

E come tutte le storie, anche questa è finita. Del Volturno resta un corso d’acqua modificato dall’opera dell’uomo, sul terreno circostante qualche sporadica coltivazione utile al fabbisogno alimentare degli animali allevati nella zona, raccolti molte volte distrutti dalle piene, che ancora si verificano malgrado le modifiche apportate, e il suo ponte, il ponte sul Volturno, e per lo più oggetto di critiche e speranze dovute ad un suo rifacimento, nonché triste scenario di sinistri stradali.

Ma cosa resta oggi dei vinciaiuoli a Raviscanina? Poco o niente... ma qualche oggetto, qualche ricordo c’è sicuramente in molte case: un paniere, una cesta o più raramente qualche grata ancora si vedono nelle cantine del paese o, qualche volta, far bella mostra in casa, piene di fiori secchi... tanto per non farne deperire il ricordo. Nessuno, invece, si dedica più alla antica arte degli intrecci, alla creazione di nuovi oggetti; anche qui la tradizione è andata perduta, purtroppo.

Sono sicura, però, che qualcuno conosce ancora i segreti di quell’arte. Sarebbe bello avere degli insegnamenti, delle “dritte” su come far nascere da semplici vimini oggetti e suppellettili vari, tanto per non dimenticare, per non far dimenticare il paese di vinciaiuoli.