Tra Campania e Sicilia

Gianluca Tagliamonte

Tra Campania e Sicilia: cavalieri e cavalli campani

in «Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (VIII-III sec. a.C.). Arte, prassi e teoria della pace e della guerra, Atti delle Quinte Giornate internazionali di studi sull’area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo (Erice, 12-15 ottobre 2003)», Pisa 2006, pp. 463-481

Minime, sis cantherium in fossam…

Liv., 23,47,6

Da tempo è stato notato[1], e le ricerche più recenti lo hanno ribadito[2], come i contingenti mercenari campani impegnati al soldo di Greci e Cartaginesi in Sicilia, a partire dalla fine del V e poi nel corso del IV sec. a.C., fossero costituiti da formazioni specializzate di cavalieri; e come questi ultimi appartenessero verosimilmente al novero di quegli equites Campani che, grazie agli studi di Cl. Nicolet e M.W. Frederiksen[3], sappiamo avere rappresentato il ceto dominante della società campana dell’epoca. È stato, altresì, rilevato[4] come nella documentazione di cui disponiamo, in relazione al fenomeno del mercenariato campano in Sicilia, vi siano significativi indizi che lasciano supporre che in molti casi questa emigrazione militare campana sull’isola abbia assunto carattere di stabile e definitiva permanenza. In altre parole, che limitato o pressoché inesistente sia stato il fenomeno della migrazione di ritorno, un aspetto questo che in passato è stato certamente oggetto di sopravvalutazione da parte di alcuni studiosi[5].

Sulla base di tali osservazioni, parrebbe, dunque, di trovarsi di fronte ad un’aperta contraddizione, i cui termini sono rappresentati, da un lato, dal dato di una presumibile elevata collocazione dei futuri mercenari in seno a quella che era la stratificazione sociale della comunità di appartenenza (ossia, quella campana); dall’altro, da quello di una loro fuoriuscita, spesso senza ritorno, da tale sistema.

A spiegare tale aporia certo concorre o può concorrere il notevole peso che, per circostanze più o meno contingenti, devono avere avuto i fattori di attrazione presenti nella società di immigrazione (ovvero, quella siceliota), come altrove si è cercato di dimostrare[6]. Casi come quelli del pirata etrusco Postumio e, probabilmente, del capo mercenario italico Mamerco, giunti di propria iniziativa in Sicilia, alla ricerca di un ingaggio da parte siceliota[7], costituiscono in tal senso una chiara e significativa testimonianza, ma presumibilmente non l’unica.

Più problematica da definire, al di là del richiamo a fatti di lunga durata e di un generico riferimento a un background motivazionale di tipo socio-economico e, forse, demografico[8], la possibile incidenza dei fattori di espulsione operanti nella società di appartenenza (quella campana).

Per quanto riguarda questi ultimi, a poco o a nulla vale, per il periodo in questione, il possibile contributo fornito dalla documentazione archeologica campana, specie da quella, di ambito funerario, sulla quale in genere ci si basa, in assenza di più esplicite fonti, nei tentativi di ricostruzione dei sistemi sociali dell’antichità[9]. Limitando in questa sede l’analisi al caso di Capua[10], metropoli dei Campani, non si può non rilevare come a tutt’oggi alquanto scarno, soprattutto se rapportato ad altre fasi di vita della città preromana, sia infatti il quadro delle evidenze funerarie riferibili alla fine del V e alla prima metà del IV sec. a.C... leggi tutto

[1] Nicolet 1962, 515-516; Frederiksen 1968, 12-14.

[2] Si veda al riguardo Tagliamonte 1994, 129 sgg., 159 sgg., con rinvii alla bibliografia precedente. Per riferimenti alla ulteriore bibliografia sul mercenariato italico in Sicilia tra la fine del V e gli inizi del III sec. a.C.: Id. 2004/II, 135-136 nota 2.

[3] Nicolet 1962; Frederiksen 1968.

[4] Tagliamonte 1994, 163-164, 219; Id. 1999, 564 sgg.

[5] Riferimenti in Id. 1999, 566 nota 71. Ben diverso, in generale, l’atteggiamento dei mercenari greci contemporanei, come ha evidenziato, da ultima, Landucci Gattinoni 2001, 85.

[6] Tagliamonte 1999, 561 sgg.

[7] Stando almeno alle testimonianze di Diod., 16,82,3, per Postumio, e di Nep., Tim., 2,4, per Mamerco.

[8] Come osservato da Heurgon 1942/II, 284; Tagliamonte 1994, 111 sgg., 159-160; cfr. Frederiksen 1968, 12-13; Id. 1984, 106-107.

[9] Su queste problematiche, nel corso degli ultimi anni al centro di un intensissimo dibattito scientifico, considerazioni e rinvii alla amplissima bibliografia nei recenti lavori di Bartoloni 2003, specie 13 sgg., 35-37, e Cuozzo 2003, 15 sgg.

[10] Un quadro documentario non dissimile sembrerebbe al momento caratterizzare pure gli altri principali centri della mesogeia campana (Calatia, Suessula, Nola), anche se nuovi elementi di informazione e di valutazione potrebbero essere acquisiti con la compiuta edizione dei complessi funerari indagati nel corso degli ultimi decenni (ad esempio, nel caso di Calatia). In effetti, lo studio dei tempi e dei modi della ‘sannitizzazione’ etnico-linguistica e culturale dei centri campani resta ancora in gran parte da fare. Nel complesso, parrebbe di potere dire che questa (ovvero, la ‘sannitizzazione’) si sia venuta attuando attraverso un processo nel quale gli aspetti di continuità siano stati prevalenti su quelli di discontinuità. Le future ricerche dovranno chiarirne le forme.