De Sisto_I vinciari

Lelio De Sisto

I VINCIARI

(In Narrazioni, n. 4, settembre 1999, pp. 93-96)

Il Trone, uno dei rioni più antichi ed anche tra i più popolati, con il resto del paese, che domina dall’alto, costretto a soggiacervi in basso, rappresenta il mio orgoglio, perché è proprio qui sopra che io sono nato.

Finché avrò vita non cesserò mai di portarmi nel cuore quei suoi vicoli stretti, le case, gli orti, la piccola piazza e tutta la sua gente, dalla quale non mi sento di escludere, morti compresi, chi, ancora vivente, ha dovuto abbandonarlo per trasferirsi lontano.

Tempo fa, per motivi di cuore, anch’io lo lasciai, ma spesso, quasi ogni giorno, ritorno quassù, tanto che a volte mi convinco di non essermene mai andato.

Anche se oggi è alquanto cambiato nelle forme, che non sono quelle tozze e sporgenti di ieri, ma più nuove e al passo con i tempi, qualcosa di vecchio e di magico insieme, che non ha ancora varcato certi confini, continua ad avvolgerlo di mistero.

Come i suoi vinciaroli, abili ed esperti nell’intrecciare i vimini, o meglio i vinci, come ancora si usa dire da queste parti, maneggevoli e giovani rami di alcune specie di piante, appartenenti alla famiglia delle salicacee, assai diffuse lungo le sponde del vicino Volturno, che, attraverso questa semplice arte, fatta di sudore e di mani, ma nello stesso tempo piena di fascino, riuscivano a dare in passato un onesto e sicuro pane alle loro famiglie.

Il progresso, purtroppo, non ha voluto allungare la vita a questo vecchio mestiere, affidato per ora solo alla caparbia riconoscenza di coloro, sono pochi e molto avanti negli anni, che avendone ricevuto il giusto compenso, lo praticano ancora.

Eppure, una volta, erano in tanti.

La lavorazione del vimine, concentrata soprattutto durante i mesi estivi richiedeva l’intervento di tutti, anche dei più piccoli, deputati questi ultimi affinché si liberasse della scorza; circostanze come queste rappresentavano allora un banco di prova essenziale, per permettere al meglio, di quell’innata predisposizione alla solidarietà che si trova in ognuno di noi, di venir fuori spontaneamente. Se chiudo gli occhi, mi basta poco per riandare indietro negli anni e vedermi di nuovo come ero, un bambino curioso e quieto, che amava trascorrere ampi ritagli del suo tempo solo fra quella gente, calamitato dal ritmo veloce delle loro mani, intente a dar forma per ore a quell’enorme messe di rami bianchi lasciati giornate intere ad asciugare al sole.

Quanta fatica c’era in quei gesti che, sempre uguali in quelle lunghe e assolate giornate, si susseguivano dall’alba al tramonto sulla soglia di quasi tutte le case; mai un lamento, nessuna bestemmia, ricordo di aver udito da quelle bocche arse dal sole, solo qualche canzone, una sorta di nenia intonata per dare maggiore vigore alle mani, offerta ogni tanto al nostro dileggio, si levava per quell’aria infuocata.

Le voci erano sempre le stesse, quelle di Paolo Mecaroni, Rosa Nassa, Maria e Michele Pinelli, Maria Domenica Nassa, Filomena Giuliano, Bernardina Masiello, Maria Carmina e Immacolata Cocozza; non rammento se a queste, qualche volta, si unisse anche quella di Vincenza De Sisto, una burbera e cara vecchina, della quale serberò sempre un ottimo ricordo, in ogni momento pronta a dare il suo aiuto, nonostante le mani chiazzate di rosso non fossero agili e svelte come quelle degli altri.

Quel duro lavoro andava man mano scemando insieme all’estate che volgeva al tramonto, ed era proprio in quegli ultimi giorni di sole che ai vinciari veniva richiesto il massimo sforzo, dovendo essi tramutare i panieri, le cesti, persino le piccole grate, nel necessario per vivere durante tutto l’inverno.

Gli artistici prodotti del vimine, prima dell’avvento in paese di un commerciante di Nola, forse di Acerra, un tale chiamato familiarmente da tutti “Lucariello”, che li comprava con moneta sonante per venderli a peso d’oro nei grossi centri della regione, erano usati solo come merce di scambio e, caricati sulla groppa di un asino, facevano il giro dei paesi vicini, specie quelli di alta montagna, dove venivano barattati con fagioli, ceci, patate, farina, formaggio e castagne.

Allora i mezzi di locomozione circolavano con il contagocce; alle case, poi, non era annesso il “garage”, ma la stalla, dove ognuno teneva il “ciuccio”, di fondamentale importanza per spostare da un posto all’altro quel pesante ma prezioso fardello.

Era quasi sempre il vecchio Paolo Mecaroni, conosciuto ovunque col nomignolo di Zi’ Poliglio, ad interessarsi, insieme al giovane figlio Vincenzo, di portare in giro la merce, che spesso non era solo la sua, ma apparteneva anche ad altri compagni di fatica; il viaggio, a volte, durava tantissimo, anche dei giorni. Infatti diventava particolarmente difficile, specie quando il raccolto dei contadini non era stato abbondante, essere capaci di ottenere la massima resa da quell’attività di scambi. Zi’ Poliglio e Vincenzo, di ritorno da uno di questi estenuanti giri, non facevano neanche in tempo a ritemprarsi dalle fatiche appena patite, che ne approntavano subito un’altro. Non potevano correre il rischio di lasciare inevase le tante richieste, soprattutto da parte di donne in età da marito, per quei pezzi pregiati che ancora si trovavano nei loro depositi; e poi, dovevano fare in fretta, altrimenti, le imminenti piogge d’autunno avrebbero potuto rovinare irrimediabilmente tutta la fatica di un anno. “Zi’ Polì dove andate domani?” mi capitava di chiedergli ogni tanto, mentre era intento a godersi il sapore acre del suo trinciato. “Eliù, jammu alla Valle” rispondeva, passandomi sul capo la mano ruvida e piena di pieghe, senza staccare un sol attimo gli occhi dal cielo, dove cercava di cogliere dei segni strani, noti soltanto a lui, che dovevano rassicurarlo sulla tranquillità del viaggio da intraprendersi all’indomani, verso Valle Agricola.

Non l’ho mai fatto, nonostante mi sarebbe piaciuto tanto seguirlo in quel suo continuo andirivieni, almeno una volta; purtroppo, questo sogno, che tuttora mi permane dentro, non potrò realizzarlo mai, anche se continuerò a desiderarlo per il resto dei miei giorni.

Così come non mi sarà più possibile rivivere una di quelle semplici ma suggestive serate di festa, che venivano organizzate sul Trone appena cessato il baratto; bastava poco: una “canestra” piena di “biscotti”, un’altra colma di “pastette”, una grossa damigiana di vino, un organetto e, “voilà”, il gioco era fatto.

Tra canti, balli e grosse bevute i più grandi facevano l’alba, mentre a noi bambini, almeno i queste occasioni, che non erano poi così frequenti a quei tempi, veniva concesso di stare in piedi qualche ora in più del solito prima di andare a letto, quel poco che bastava per essere felici.

I Vinciari, oggi, sono diventati ormai una razza in corso di estinzione, qualcuno però, l’ultimo, resiste ancora, ma soltanto qui sopra.

Si tratta del vecchio Pietro D’Onia, che, non sapendo a chi passare la mano continua ancora a sfidare anni e malanni con quelle sue grosse mani, che non hanno perso per niente la vitalità di un tempo, pur di non far morire definitivamente una tradizione che nessuno, in paese, avverte più come sua.

L’esempio del buon Pietro, unito al rimpianto di un adulto tornato bambino, serviranno a salvarla?

La speranza, forse...!

Sullo stesso argomento vedi pure:

Giovanna Mastrati, ...Lungo il fiume..., in «Narrazioni» vol. II, n. 4, 2000, pp. 99-102

Mario Nassa, Lavorazione dei vimini, Progetto di utilità collettiva, 1989

Antonio De Sisto, Canestrari, in «Antologia del Medio Volturno», vol. II, 1983