Canapa

Vincenza Nassa

LA CANAPA (lu cann’vu).

(in Narrazioni vol. 2° num. 4, 2000, pp. 63-66)

Nella stanza dove mia madre è solita lavorare, tra la macchina per cucire e l’asse da stiro, sono stata sempre incuriosita da due oggetti molto strani appesi alla parete. Avendole chiesto cosa fossero, ne ho avuto alcune spiegazioni. I due oggetti: la rócca e gl’ annaspaturu, servivano alla nonna per filare lu cann’vu e per ammatassare il filato.

Successivamente, in una lunga serata autunnale il nonno mi ha raccontato come ai suoi tempi veniva coltivata e lavorata la canapa. Da questo mi è venuta l’idea di scrivere due parole.

La canapa, dal seme piccolo e tondo, colore marrone scuro, si seminava nella prima decade di aprile in piccoli solchi scavati con una zappetta e periodicamente ripuliti dalle erbacce spontanee.

Nel mese di agosto, dopo la fioritura, prima che la pianta si seccasse, tagliata e raccolta in fascetti, era trasportata nei pressi del fiume ed immersa interamente nelle pozze di acqua per farla macerare. Dopo otto giorni di macerazione, la canapa era sciacquata nell’acqua corrente del corso e fatta asciugare al sole, allargando i mazzetti alla base, come tanti coni. Finalmente, caricata sul dorso degli asini e portata a casa, veniva lavorata con la macénula, attrezzo di legno usato per ammacin’llà lu cann’vu: operazione consistente nel separare i cann’íegli, cioè il midollo, ràllu cann’vu, ossia la fibra. La parte utilizzata, (lu cann’vu) passava all’operazione successiva, che consisteva nello spatulà, cioè nel togliere con una spatola di legno, (la spàtula) tutta la rimanenza di midollo attaccata al manipolo r’ cann’vu. Seguiva la p’tt’natùra, vale a dire la separazione delle varie qualità r’cann’vu. U pett’n era un tavolo di legno, sul quale stavano infissi dei chiodi come una spazzola, le cui dimensioni e distanza diminuivano man mano in quattro misure. La matassa, passata nei chiodi più larghi, produceva un primo scarto chiamato stóppa, che serviva per vari usi, tra cui la ciàra (un impiastro composto da stoppa ed albume per uso medicamentoso).

Dal secondo scarto, filato, si otteneva un filo molto doppio che era usato per (sacchi, v’saccie e sacconi) sacchi, bisacce e sacconi.

Con la filatura del terzo scarto si tessevano lenzuola, asciugamani e tovaglie da tavola.

Quello che restava dalla pettinatura, la parte migliore, era chiamata ìvulu ed era usato per farne lenzuola, asciugamani, tovaglie da tavola più fini e filo da cucire.

Fino a questa fase collaborava l’intera famiglia, mentre il lavoro che seguiva, cioè quello della filatura, della tessitura e della cucitura, riguardava solo le donne. Esse, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, la sera, a lume di candela, filavano dicendo: Nu fúsu la séra, ‘n capu r’ n’annu, t’è fàtta n’a cànna r’ téla.

Lu ívulu o la stóppa venivano infilati sulla la rócca, con la quale le donne filavano. Con le dita umide di saliva, esse prendevano pochi fili di canapa e li attorcigliavano facendo roteare il fuso, nella parte inferiore del quale veniva infilato u v’rtícciu che serviva a continuarne il movimento rotatorio. Quando il fuso era pieno, il filato si trasferiva sull’ annaspatúru, per formarne varie matasse. Queste venivano lavate con la luscìa, cioè cenere ed acqua bollente, appese ad una pèrt’ca ed asciugate al sole. Ogni singola matassa, infilata sul vìnnulu, era trasformata in gomitoli, (l’ gliómm’ra), i quali venivano affidati alla tessitrice per farne la tela.