FEDERICO MARAZZI
Una valle italiana fra tarda antichità e alto medioevo: il tessuto insediativo rurale nella valle del Volturno (Molise - Campania) fra IV e XII secolo.
Prospettive di mutamento nella "longue durée", in Civitas Aliphana, 2003, pp. 103-144.
[Stralcio, con note di chiusura, delle pp. 114-118]
L’ultimo obbiettivo dell’attacco di Massar fu, come abbiamo visto, il castello di San Vito. Qualche anno fa, in modo abbastanza convincente, si è proposta la sua identificazione con il sito di Roccavecchia di Pratella, che si trova sulla collina di monte Cavùto, di fronte a Santa Maria in Cingla, su uno scosceso sperone roccioso dal quale si gode una delle viste più belle (e quindi militarmente più favorevoli) di tutto l’Alto Casertano (Di Muro 2003 e 2007: 9-12). Guardando verso nord-est si domina la pianura di Venafro, mentre in direzione sud-ovest si controlla tutta la piana del Volturno, il Roccamonfina e il territorio di Teano e, verso sud, si abbraccia il percorso dell’Appia in direzione di Capua. Roccavecchia è quindi il presidio più rilevante posto all’ingresso della pianura alifana. Purtroppo, la proposta di datazione ad età altomedievale delle sue fortificazioni – che in parte sfruttano strutture di età sannitica – si basa solo sull’esame autoptico delle strutture e sull’analisi degli affioramenti di materiali di superficie, mentre mancano conferme di carattere stratigrafico. Tuttavia, l’assenza in superficie di materiali bassomedievali lascia presumere che la sua pertinenza al periodo di cui qui si tratta sia da considerare plausibile.
La cosa interessante è che Roccavecchia non è l’unico sito fortificato attribuibile al medesimo periodo presente nell’area, ma si pone in relazione ad altri due. Il primo si trova sull’altura di monte San Nicola – monte Urlano, che fronteggia quella di Roccavecchia e che separa gli attuali abitati di Pietravairano e Vairano Patenora, entrambi dominati da poderose fortezze del tardo Medioevo e non lontano dai resti del complesso santuariale repubblicano recentemente scoperto (Tagliamonte et al. 2013); il secondo si colloca sulla collina detta di Santo Ianni – Castel San Pietro, che si trova subito alle spalle, verso sud, di quella di monte Urlano, e che costituisce la prima pendice a settentrione del massiccio dei monti Trebulani (Peduto 1990: 365; Di Muro 2007: 31-34)26. In sostanza, sembra di capire che i percorsi che immettono nella piana alifana dalla parte di Teano, seguendo il corso del Volturno, fossero stati dotati di un adeguato apparato di sorveglianza militare, il cui elemento principale era probabilmente costituito dal presidio di Roccavecchia di Pratella. Ciò ne avrebbe giustificato l’assalto da parte di Massar, in nome del principe di Benevento, e tale risultato potrebbe aver sortito l’effetto di determinare, in questo tratto, la frontiera fra i territori rimasti sotto l’egida di quest’ultimo e quelli controllati dai Capuani e dai Salernitani, così come essa viene definita dall’accordo dell’849 (fig. 5).
Il patto fotografava quindi la situazione maturata sul campo in seguito alla discesa in Italia meridionale dell’imperatore Ludovico II, nella primavera dell’848, causata dall’assalto arabo contro Roma dell’846. Ma l’intervento dell’imperatore era stato determinato anche dal fatto che al Sud i mercenari islamici, inizialmente al servizio dei principi longobardi, avevano ormai preso ad agire autonomamente, occupando Bari e mettendo sotto scacco Benevento, dove Massar apparentemente spadroneggiava senza più sottostare all’autorità di Radelchi (Marazzi 2007; Feniello 2011: 69-73)27.
Che questa fosse la situazione determinatasi sul campo ce lo conferma un atto cassinese dell’852, rogato ad Alife, che è datato secondo gli anni di regno del figlio e successore di Radelchi a Benevento, Radelgario (851-854), mentre un altro atto – sempre cassinese - dell’anno successivo e rogato a Teano, si data con gli anni di regno di Sico II (851-853), figlio di Siconolfo e suo successore a Salerno28. Per quanto riguarda Caiazzo, abbiamo un documento dell’843, purtroppo privo di datatio topica, che riguarda la donazione a Montecassino di beni siti nel territorio circostante la città, in località Squille, e che è datato secondo gli anni di regno di Radelchi, e che quindi potrebbe far pensare che l’area in quell’anno fosse ancora in mano beneventana29. Quando però, nell’879, morì Landolfo (quarto figlio di Landolfo I e quindi II conte di Capua, ma allo stesso tempo anche vescovo della città per oltre vent’anni – Cilento 1971: 318) e, come racconta Erchemperto, avvenne la spartizione fra i suoi nipoti del territorio sottoposto al dominio di Capua, Caiazzo ricadeva chiaramente all’interno di esso30.
Certo, erano trascorsi trent’anni dal momento della divisio ducatus dell’849, ma già all’inizio degli anni ’60 la città – che risultava difesa da un castrum - era stata al centro delle dispute dei discendenti di Landolfo I, dopo la morte del suo figlio primogenito Lando I (843-860), cosa che ci permette di ritenere che essa e il territorio che la circondava fossero rimasti sicuramente nell’orbita capuana.
Ma l’attacco vittorioso di Massar alla fortezza di San Vito aveva ottenuto l’effetto di una stabile riconquista di quel luogo e del territorio circostante a pro dei Beneventani o si era trattato solo di un episodio transitorio? Un documento datato al maggio dell’849 impone una riflessione in tal senso31. In quel mese, un tale Agenardo, insignito del titolo di gastaldo, compie a nome del cugino Romualdo una donazione in favore di Montecassino che comprende beni non meglio specificati situati nei territori di Capua, Calvi e Teano.
L’unica proprietà di cui si dà l’esatta descrizione è un mulino sito sul Volturno, denominato Rispici, «che si trova sotto il monte in cui è la chiesa di San Vito». È molto probabile, come vedremo poco più avanti, che il monte e la chiesa di cui si parlino siano proprio quelli su cui si trovava anche il castello attaccato da Massar qualche anno prima. Il mulino si doveva quindi trovare sulla riva sinistra del Volturno, che in questo tratto ricadeva quindi entro i confini del territorio di Teano.
Purtroppo, non sappiamo esattamente in che momento fu stipulato il patto divisorio del ducato/principato di Benevento, la cui data oscilla fra la seconda metà dell’848 e l’84932. Questo impedisce di capire esattamente in quale temperie sia avvenuta la donazione di cui il documento cassinese reca memoria. Il fatto però che il mulino sul Volturno sia l’unica proprietà che il documento nomina esplicitamente, induce a sospettare che essa si trovasse in una situazione che, agli occhi del donatore, richiedeva un’attenzione particolare. È possibile quindi che le terre in riva sinistra del fiume, zona in cui ricadeva il mulino, fossero passate (o stessero per passare) di mano al momento della redazione della carta, in virtù degli accordi cui erano giunti i due principi di Salerno e Benevento, con la mediazione di Ludovico II33. La famiglia del donatore, che probabilmente proveniva dal territorio capuano-salernitano, e precisamente dalla zona della Liburia – area in cui fu stipulato l’atto –, intendeva così ribadire la propria volontà di far sì che quel bene entrasse effettivamente nella disponibilità di Montecassino. Come vedremo fra poco, ciò potrebbe essere stato dettato anche dalla situazione incerta in cui doveva trovarsi in quegli anni il patrimonio di Santa Maria in Cingla, che si era esteso proprio in quell’area.
Il principe salernitano Siconolfo, qualche tempo prima dell’849, aveva infatti deciso di attribuire all’abbazia il possesso di vaste aree ad essa circostanti, e ciò può aiutare a comprendere ancor meglio il perché essa fosse finita nel mirino del capo arabo. Purtroppo, l’atto, riportato in estratto dal Gattola, è privo di datatio34.
Tuttavia, sulla base delle considerazioni precedenti, è molto probabile che esso sia stato emesso in un momento ben preciso e cioè nell’844, quando i Salernitani e i Capuani, forti della vittoria contro Radelchi, avevano dilagato nella piana alifana, controllando quindi anche la strategica posizione in cui si trovava il monastero, nonché le colline che lo circondavano.
Il testo del diploma di Siconolfo riporta la concessione a Santa Maria di un blocco di terre che andavano dai monti del Matese sino al Volturno, tra cui è inclusa «la corte e i monti sulla cui cima è edificata la chiesa di San Vito»35. Tutti i beni attribuiti al cenobio godevano di uno status giuridico ben preciso, poiché appartenevano al patrimonio del palatium («res puplicalia, quem pars Palatii pertinere videtur» [sic!]).
Con il suo provvedimento, il principe provvedeva quindi a conferire all’abbazia un consistente insieme di terre fiscali, che avrebbe dovuto integrare i beni che essa già deteneva nei suoi immediati dintorni e che, molto probabilmente, non costituivano sino a quel momento un blocco fondiario compatto.
L’atto di Siconolfo sembra aver avuto più obbiettivi. Da un lato, esso si proponeva forse di ricompensare Montecassino per le perdite economiche subite con le requisizioni che egli aveva imposto al tesoro abbaziale; dall’altro, però, la sua intenzione doveva anche essere quella di conferire al monastero un ruolo rilevante nella strategia di controllo della valle Alifana. Il disegno ebbe però breve vita poiché, come abbiamo visto, nell’845 l’area fu ripresa dai Beneventani che nella circostanza, per mano dei guerrieri comandati da Massar, fecero pagare caramente alle monache di Cingla e a Montecassino l’entente avuta con Capua e Salerno; e non è da escludere che una delle conseguenze dell’attacco all’abbazia e della sua distruzione possa essere stata anche la confisca, almeno provvisoria, del suo patrimonio36.
Questa osservazione pone il problema dell’origine dei tre centri fortificati prima ricordati, posti sulle colline che sovrastano il corso del Volturno. In assenza di dati archeologici certi – di cui per ora non si dispone - è però impossibile uscire dal terreno delle ipotesi. Il dibattito sorto in merito all’organizzazione della difesa territoriale allestita dai Bizantini nei decenni finali del VI secolo per contrastare l’espansione longobarda in direzione delle coste – di cui si è parlato nel paragrafo precedente – potrebbe rendere particolarmente suggestiva l’idea che questi presidi possano aver avuto origine proprio in quel periodo. Se questa possibilità corrispondesse al vero, essi avrebbero funzionato in modo ‘speculare’ rispetto a come li utilizzarono i Beneventani nel IX secolo e cioè con lo scopo di sorvegliare gli itinerari che immettevano verso la piana campana, provenendo dal Sannio e dal Molise.
Enrico Zanini (1998: 268-276) ha ipotizzato che i Bizantini avessero tentato di organizzare fra Roma e Napoli una linea di resistenza attestata lungo il corso della via Latina. Fra Cassino e Capua, Venafro essa costituiva, ancora all’inizio degli anni ’90, una punta avanzata di questo sistema.
Alle spalle della città molisana – sempre lungo la via Latina – dovevano perciò trovarsi dei presidi che ne pattugliassero il percorso, in modo da garantirne la transitabilità.
È possibile quindi che il castello di San Vito, sul monte Cavùto, e i suoi due dirimpettai di monte Urlano e di Santo Ianni possano essere sorti in questo periodo, così come ad esso potrebbe datare un altro castrum della cui esistenza c’informa Erchemperto37. Si tratta dell’insediamento denominato Castrum Pilense che, secondo ipotesi recenti, sarebbe da localizzarsi in località Pisciariello nel comune di Conca della Campania, su un pianoro che domina il percorso della via Latina, in quel tratto rinserrato fra le pendici vulcaniche del Roccamonfina e le la scoscesa parete del monte Cesima (Riccio 2010). Sul posto sopravvivono consistenti resti di una cinta fortificata, rafforzata da torri a pianta quadrangolare, la cui tecnica costruttiva, a grandi blocchi e che presenta un massiccio riutilizzo di silices probabilmente divelte dal tracciato della strada sottostante, potrebbe indurre a ipotizzarne la datazione agli inizi dell’alto Medioevo (Marazzi 2010b). Il sito si trova visivamente in contatto con l’altura di monte Urlano, cosa che darebbe una qualche verosimiglianza alla possibilità che l’insieme dei siti sin qui descritti abbia effettivamente fatto parte di un sistema unitario, la cui attribuibilità ad un de terminato momento storico dovrà però essere accertata per via archeologica (fig. 6).
In ogni caso, il fatto che l’area che comprendeva il castrum di San Vito ricadesse ancora a metà del IX secolo entro le pertinenze del fisco principesco potrebbe rimandare ad un’origine antica di tale status, magari derivante proprio dalla sua funzione di presidio militare di cui i Longobardi erano entrati in possesso al momento della loro originaria espansione nella Campania settentrionale.
Note
26 Il sito di Santo Ianni è legato anche alla presenza della chiesa di San Giovanni in Chiusa, che nel 961 fu oggetto di una donazione in favore di Santa Maria in Cingla da parte del conte di Teano, Atenolfo, e di sua moglie Radelgarda (Gattola 1733: 29-30). Nel documento non si fa alcuna menzione delle fortificazioni rilevate sul posto, ma il fatto che a quest’epoca il sito facesse parte del patrimonio comitale potrebbe far presuppore una sua originaria pertinenza al patrimonio pubblico dei duchi/principi di Benevento, analogamente a quanto si vedrà più avanti per l’area del castello di San Vito. Sui resti della chiesa, si veda Panarello (1999: 122-123) e, ancora, Di Muro (2007: 31-34).
27 Erch., 17 e 20.
28 RDIM, 739 e 746.
29 RDIM 687. L’autore della donazione è un certo Teodorico comes, che la Chronica Monasterii Casinensis (I, 24), in una delle sue due tradizioni testuali, identifica come conte di Caiazzo. Tale precisazione, che il documento originale non contiene e che quindi si basa solo sulla notizia assai più tarda offerta dalla cronaca cassinese, va presa con una certa cautela. L’atto – che si configura come una donatio pro anima – potrebbe rappresentare il frutto della decisione presa da Teodorico (forse un fidelis del principe beneventano), di mettere al riparo dell’abbazia cassinese i propri possedimenti, nonché una serie di beni mobili (cavalli, vasellame e tessuti preziosi) nell’imminenza degli sconvolgimenti che di lì a poco avrebbero interessato l’area caiatina. Analogamente, la donazione dell’852 fatta dagli alifani Arnefrid e Amelfrid, ricordata alla nota precedente, vede la cessione a Montecassino di beni siti nel territorio di Vairano Patenora, che si trovava immediatamente al di là del confine stabilito nell’849 e potrebbe quindi essere stata il frutto di una decisione parimenti motivata dalla difficoltà di mantenerne il controllo.
30 Erch., 40.
31 RDIM 721.
32 Vedi Cilento 1966: 93; RDIM 728, con bibliografia e discussione delle date del trattato, tema affrontato anche e più intensamente da Martin (2005:151-61).
33 Stabilito che il territorio di Caiazzo apparteneva al principato di Salerno (in realtà era in mano dei conti di Capua) e che, invece, la zona di Santa Maria in Cingla e delle alture circostanti – sui due versanti del Volturno – erano molto probabilmente sotto controllo beneventano, resterebbe da stabilire a chi spettasse il dominio sulla fascia di terreno sulla destra del Volturno ai piedi dei monti Trebulani (nonché sul versante orientale dei monti stessi), che comprende gli odierni territori comunali di Baia e Latina e di Dragoni e se il territorio di Alvignano gravitasse su Alife o su Caiazzo. Si consideri, ad esempio, che la cella cassinese di San Martino sul Volturno, sita in riva destra del fiume, nell’attuale territorio comunale di Alvignano, è considerata sempre, fra IX e X secolo, come pertinente al territorio di Alife (Russo 2003), anche se, come si vedrà più avanti nel testo, essa apparirà sottoposta alla stessa giurisdizione cui apparteneva Caiazzo. Tuttavia, come si può dedurre dal documento del 961 citato a nota 37, l’area di Santo Ianni, attualmente nel territorio comunale di Baia e Latina, apparteneva al conte di Teano. Questo lascia immaginare che tutta l’area a destra del corso del Volturno fosse stata assegnata a Capua sin dall’849.
34 Gattola 1734: 95 (vedi RDIM 724).
35 Per l’identificazione dei toponimi citati in questo e in altri documenti che descrivono l’estensione dei possedimenti di Santa Maria in Cingla vedi la scrupolosa disamina compiuta da D. Caiazza (2009). Su questo corpus documentario si dovrà tuttavia ritornare per definire con precisione le tappe evolutive del patrimonio dell’abbazia, anche in rapporto alle sue movimentate vicende istituzionali che, fra VIII e XII secolo, la videro trasformarsi da dipendenza cassinese – quale doveva essere a metà del IX secolo – a monastero autonomo, per poi tornare nella prima metà del XII secolo di nuovo sotto il controllo di Montecassino (Bloch 1986: 243-275).
36 Uso il termine ‘confisca’ in senso letterale, intendendo cioè che, dopo l’attacco dell’845, potrebbe essere stata revocata da Radelchi la riavocazione al fiscus delle terre fiscali che Siconolfo aveva appena concesso al monastero. A dire il vero, però, il diploma di Siconolfo nomina il monte e la chiesa di San Vito, ma non dà cenni sulla concessione a Santa Maria in Cingla del «castrum Sancti Viti». È lecito perciò immaginare che quest’ultimo non fosse stato ceduto ai monaci e che fosse rimasto un bene di cui il publicum conservava un controllo diretto. In attesa di approfondire la questione, si può presumere che anche gli altri due fortilizi (e cioè Monte Urlano e Santo Ianni) abbiano goduto di uno status analogo.
37 Erch., 44.