Simone Barra al Signor Dott. D. Filippo Bulifon ragionandogli filosoficamente d'una grotta, che sta nella Baronia di Capriati, nella quale s'ingenera l'alabastro, in Lettere memorabili, istoriche, politiche, ed erudite scritte, e raccolte da Antonio Bulifon..., raccolta quarta, Napoli, 1697, pp. 224-243.
[224] Molto vi maravigliate, Signor D. Filippo mio stimatissimo a che io dimenticato de’ miei amici mi sia sì lungamente taciuto, e quel che mi duole è, che rozzo mi giudicate, attribuendo più tosto il mio silenzio ad una spiacevole malinconia che a difetto di non saper che dire, e mi rimproverate, che materia non mi saria mancata, purché voglia a- [225] vessi avuto di far lettere. Ma tuttavia se con meno indignazione vorrete procedere, trovarete il fatto in altra guisa; imperciocché né la nostra amicizia senza questi mezzi s’indebolisce, né io per iscarsezza di cose, vorre, con noja del vostro nobile, e generoso ingegno, dirvi delle inezzie, o replicar sempre l’istesso, non ci avendo in questi monti cosa di sì nobile curiosità degna, che appo di voi non sia men pregiata di quello, che fra coteste Accademie, e letterati congressi con aumento di sapere apprendete. Con tutto ciò voi pure mi state co’ sproni a’ fianchi, e volete in ogni conto, che io vi debba scrivere; onde per non farvi crescere più sinistra opinione de’ fatti miei, ho meco deliberato narrarvi quello, che nel mio viaggetto di Capriati io vidi d’una grotta, dove l’acqua stillante si trasmuta in durissima pietra. Cosa veramente non ignobile ad esser narrata ai curiosi investigatori delle naturali operazioni, e soddisfare in questa guisa all’obbligo della nostra amicizia, a cui fin’adesso non per mia negligenza ho mancato.
La Baronia di Capriati antica Signoria de’ Pannoni Conti di Venafro, e dominata poi da D. Carlo del- [226] la Noja Viceré di Napoli, venne per eredità in feudo della Casa Gaetano d’Aragona, da cui oggi felicemente si possiede, luogo assai famoso per le regali, e magnifiche caccie, che ne’ suoi boschi di Torcino riserba; ma secondo me, assai più chiaro per esserno arricchiti i suoi monti d’Alabastro flavo, e trasparente. Quivi andato io co’ miei Signori, che nel passato Gennajo al diporto di cacciare in quelle selve si conducevano, molto io godeva nel viaggio, ammirando nel nobil fiume Lete le sue acque più abbondanti di trote, che d’onde, e come la sua scaturigine su per l’altezza delle ripe caschi nel piano; imperocché nascendo egli sovra gli erti monti di Letino Terra molto doviziosa, doppo picciol corso s’incaverna nel medesimo piano, e quindi poco appresso di bel nuovo per un larghissimo foro ad arte, come io credo, nell’aerea rupe intagliato, dalla parte occidentale uscendo, come per un doccione si roverscia per altissimi sassi precipitando; perlocché l’acque in munutissime stille spezzate si mostrano da lungi a’ viandanti quasi colonna di bianca nube, che nel mote riposi. Non molto quindi dilungati si vedeva la Terra [227] di Fossacieca alle radici di un altro monte situata, a Mezzo dì guardando. Verdeggiava di sopra a questa, quanto era lunga, e larga la costa, un folto bosco d’infiniti cipressi, nati quivi, come tutte l’altre selve, senza ajuto umano. Era la sua veduta d’infinito diletto cagione nella vaga mostra, che faceano colle loro sublimi, e dritte cime imitanti l’alte mete, e tanto più di ciò mi cresceva la maraviglia, quanto che per i contorni d’Italia meno si vedano simili boschi. Allora uno della compagnia, che tutto intento vedeami a quella novità, dissemi, che quanto ingombrava la selva tutta era piena d’un flavo, e lucido alabastro; di più affermandi esservi una grotta nell’istesso sasso incavata, dove continuamente piovendo si vedeva l’acqua in sasso anche alabastrino indurarsi. Or se queste parole mi furono stimolo, lo lascio considerare a Voi, che avete l’ingegno così investigante, e de’ naturali prodotti curioso. Deliberai in somma di là trasferirmi, e con un mio compagno, non men di me vago di queste cose, andammo al bosco de’ cipressi, ed avuti de’ lumi entrammo nella caverna. Non ha egli dubbio, che quivi per le regali magnificenze [228] de’ superbi edificj, e preziose suppellettili, ne’ tempi passati la pietra se ne cavasse, e l’antro formatone, che di bel nuovo oggi è riempiuto, o poco meno, sicome udirete. Entrati dunque, ed alzando gli occhi in questo primo ingresso, si vede il Cielo della caverna tutto bitorzoluto, e di cannellini del medesimo alabastro all’in giù pendenti tutto cosperso, simili a quelli, che in tempo delle gran gelate intorno a’ marmi delle fontane dallo spruzzo, e stillamento si formano, i quali cannelli, se si spezzano, si conosce nel loro interno una derivazione di fibre dal centro alla circonferenza, divise da tanti cerchietti, che l’uno dentro all’altro dal medesimo centro si partono, per appunto come in una carota si osserva; non essendo eglino altro, che la varia incrostatura, che di tempo in tempo una sopra dell’altra si è ingenerata, con tal’ordine , e continuazione di pori, che la pietra non ne perde la sua trasparenza. Ma entrandosi nel segreto dell’antro si trova il suolo, che da suo primo basso piano uscendo, elevato si è colla crescente pietra, a guisa di minuti colli tutti bagnati dall’acque, che senza intermissione di sopra distillano, e che [229] del loro aumento è stata principal cagione; poiché dove essi sorgono ivi in più copia le gocciolette vi cascano. Quello che maggior diletto però, ed ammirazione ci arrecò, fu il guardare non solo le pareti dell’antro piene delle mentovate escrescenze, o bozzoli, che intagliate a basso rilievo mostravano le più strane ramificazioni, e figure, che giammai Michel’Angelo avrebbe saputo inventare ne’ disegni de’ grotteschi di Roma; ma la volta quivi d’una infinità di detti cannellini, e di grossi ceri di alabastro tutta pendente, e ammonticchiata, i quali fra essi capricciosamente si attaccano, dava a dividere negli estremi di questi, o sieno punte all’in giù, l’attual mutazione, e congelamento dall’umore in pietra: conciosiaché, se nella loro massa interna sono lucidi; duri, e trasparenti, nella punta, e nella crosta, che quasi universal membrana è comune a tutta la spelonca, si tasta un mollume simile al gesso bagnato, il quale poi tratto tratto si perfeziona, ed acquista sua durezza, trasparenza, e quel color flavo per tutto il corpo del sasso disperso; siccome vediajmo nelle candele di sevo, o di cera, ove la materia liquefatta [230] presso al lucignuolo, sopr’abbondando al nutrimento della fiamma, soverchia gli orli, e per lo lungo d’essa candela cadendo si rapprende, con una tal legge, che sempre l’ultima gocciola sopravegnente alle prime indurite, e a quelle restando appiccicate, nell’estremo ancora è liquida, quando il resto è di già ingrumato. Or questo alabastro, che dalla grondaja, che senza ordine và per lo speco distillando, hà il suo principio avuto, l’istessa casualità gli hà cagionato trasfigurazioni sì nuove, oltre a detti ceri, e bozzoli, che in quell’istante mi parve di vedere tutte le metamorfosi d’Ovidio. Quivi Dafne mezza mutata in lauro coll’anelante Apollo alle terga, quivi la sconsolata Niobe indurata in freddo sasso sgorgar dagli occhi due rivoli di vive lagrime, e del giovinetto Aci il miserabil caso si osservava, mentre da tutto il corpo sudando in copia l’acque, sensibilmente mostrava divenire un fiume, e tante, e tante altre dell’incantata caverna le apparenze, che giammai in umana fantasia non caddero simili Sogni d’infermi, e fole de’ Romanzi.
Ma perché di quelle cose che ci vengono nuove, e maravigliose subito [231] n’investighiamo la cagione, richiedendolo l’istesso ingegno umano ove si maravigli, allora la vaghezza de’ sensi cominciò a cedere a quella dell’intelletto in considerare, se pur da me si poteva, lo scioglimento del bellissimo fenomeno; e come in quel punto variamente ne divisassi, non mi acquetava però alla credenza de’ paesani, i quali hanno opinione l’acqua altronde derivata, venir così, e di tali semi impregnata, che nel giunger nel concavo della caverna tututta si rapprendesse in un sì fatto alabastro: né molto differenti sono quelli, che per esperienza di cose dovrebbono esser ascoltati. Laonde dubbioso lunga pezza fra me stesso a qual cagione ridurre un tale producimento finalmente io venni in questa sentenza, che né l’acqua altronde si derivava, che dall’istesso speco, né essa sola bastare, ma che per i forellini del sasso, un sottilissimo solfo uscendo, e con altri semi che nell’acqua aveano la lore sede, accoppiandosi, si attaccavano dovunque l’umidore li trasportava, formandone quella gomma, che poi si avanzava in pietra. Ma perché il supporre alla formazione delle pietre oltre ad un sal fisso, anche il solfo, [232] che non meno a tal’ effetto cooperi, par che si contradica a quel che molti chiarissimi Maestri hanno stabilito, per non parer degno di beffe non mi farà grave recarvi in mezzo quali motivi a ciò credere m’abbiano indotto; né mi curo dal mio proposto fine deviare, purché a voi io compiaccia in addurre le mie ragioni, le quali non sieno tali, che io da alto facendomi mi vadi dilatando: sicome si potrebbe per lo forte ligame con cui le naturali cose sono fra esso loro concatenate per l’uniformità del principio a cui tutte si riducono, e da cui tutte ricevono una proporzionata partecipazione degli attributi della nuda materia, e de’ suoi accidenti.
Dico dunque, che dalle inferiori parti della Terra con continuato corso sorge verso della sua superficie un’aura vivificante di purissimo solfo senza l’ajuto di alcun volatil sale, che quasi in su l’ali la conduca; bensì da quel sottilissimo etere, che stando in continuo corso tutti i spazj del Mondo riempie, il quale innalzandola per diverse scaturigini si mostra nel suolo, dove nuova, e varia forma veste, secondo i nuovi, e varj semi dell’aria a cui si accoppia, de’ quali il solfo, come nelle sue par- [233] ti ramoso, e pieghevole riceve facilmente gli amplessi. Né in altra guisa mi giova il credere, che si faccino le produzioni de’ mezzi minerali ne’ campi di Pozzuoli; imperciocché questo nostro solfo, quasi nuovo Proteo dissimili sembianze pigliando, secondo che di queste, o di quelle particelle è più arricchito, col nome or di comun solfo, or di alume, or di vitriolo, or di sale armoniaco, viene appellato: né altronde originarsi quella continua effervescenza, che dovunque sgorga il solfo s’esperimenta, che dal contrasto di que’ secondi semi, mentre l’uno coll’altro a se proporzionato si unisce. Non niego però, che il sito, e la maniera de’ luoghi, in cui questi principj si radunano, non partorisca novità d’apparenze, sicome vediamo nello smisurato incendio d’Etna, e di Vesuvio, orribile spettacolo in tutti i secoli a tutto il Mondo, e che tant’ampia materia hanno somministrato a’ Poeti, Istorici, e Filosofanti, non dubitando i primi di cantare che quivi per loro gastigo incatenati giacessero i gran figli della Terra per aver voluto colla loro smisurata superbia dar battaglia all’istesso gran Padre Giove, moderatore de’ fulmini, e de’ tuoni.
[234] Ma forse le favole de’ Poeti hanno altro senso che non si giudica, volendoci essi additare per Tifeo che si scuote, quello spirito solfureo, che luttando coll’aria inteso per Giove, si accenda, e partorisca D’inestinguibil foco acceso fonte, / E vivi fiumi di sontante fiamma.
Conciosiaché sollevandosi questi aliti in copia grande dalle viscere della montagna, e per obbliqui forellini trascorrendo, e perciò a parte insieme avviticchiati in petroleo alle radici delle sue rupi scaturisono, e parte disciolti, e leggieri con vigore alzandosi fann’empito all’aere intorno del monte, quivi in un batter d’occhio del nitro volatile partecipando, che di sopra gli viene, disordinato il suo primo corso per traverso si muovono, e girando in vortice con nuovi Sali si accoppiano, acquistando in certo modo consistenza; quindi non cessando da’ loro rivolgimenti escono da’ fuori della montagna in forma liquida, ed infocata, mostrandosi al Cielo; onde per lo nuovo spazio rappresi giù per le falde si fermano divenuti durissimo, e nero macigno. Ritornando dunque al nostro proponimento possiamo liberamente affirmare, che in quel tratto di monte [235] alabastrino di Fossa-cieca continuamente si levi su per l’interno della pietra un’aura di vivo solfo, il quale una col notro dell’aere, che dall’acqua ivi stillante riceve, non solo hà quella gran miniera prodotto, ma che ancora oggi va riempendo, il che come si facci, non prima d’aver mostrato che quivi sorgono questi aliti, soggiungeremo.
E la prima ragion, che a ciò mi sovviene, si è lo scorgere nelle pianure alla parte orientale del luogo continuamente gorgogliar l’acque, che per le pioggie l’inverno vi stagnano, con ispargere di se un’assai spiacevole odore simile a quello, che si prove nelle Zolfaje. Oltre ciò secondo le notizie del Signor D. Lodovico Valla di Venafro, uomo di bontà, e ni non vulgare letteratura fornito, che io trovo appresso il Sig. D. Nicola Gaetano d’Aragona di simili cose non solo oltre modo vago, ed investigante, ma mirabilmente arricchito, non picciolo argomento alle mie ragioni soggeriscono gli antichi bagni detti di Triverno alla parte boreale di capriati, ne’ stessi tenitorj di Venafro situati, dove oltre all’antiche fabbriche, che ad uso de’ medesimi servivano, fino a dì nostri [236] da una collinetta presso al fiume Volturno spicciar fuori l’acqua solforata si vede: e quel che è di maggior pondo, nel propinquo monte di S. Maria dell’Oliveto nasce un rivolo sempre mai di non costanti umori, il quale non prima si mostra a Cielo aperto, che incomincia a generare delle pietre bianche, e dure per tutto il suo letto.
Quello però, che più a proposito cade a stabilir la nostra opinione, sarebbe l’istesso bosco de’ Cipressi di sopra alla cava dell’alabastro cresciuti; imperciocché abbondando quest’albero d’una resina, e d’un succo bituminoso di cui si nutrisce, nessuno negarammi, sopra tutti i luoghi quivi essere cotanto in numero multiplicato, ed in selva cresciuto, perché idoneo alimento gli sia dalla pietra somministrato. Né a Voi dovrà parere strano, che per entro al sasso possano scorrere simili corpicciuoli ramosi, se porrete mente a tutte forti de’ petrolei, e fra gli altri a quel, che si raccoglie ne’ tenitorj di Lombardia, ove que’ paesani cavata in certa profondità la terra trovano il suolo duro, e di magno, il quale da’ loro strumenti di ferro percosso risuda dalla sue ferite [237] un sottilissimo oglio, che per tutta Italia, col nome d’oglio di sasso vien portato. Senza che vi potrei soggiungere certa esperienza d’un chiarissimo Medico de’ tempi nostri, il quale avendo voluto far prova di quel mollume d’alabastro, che di sopra abbiam detto ritrovarsi nella punta di que’ cannellini, che pendono dalla volta dell’antro, con darlo preparato in uso medicinale, lo trovò d’una virtù correttiva, e diaforetica molto dotato: Il che giammai come si potrebbe, se non contenesse quel volati solfo, che partecipato al sangue, svegli per la somiglianza col balsamo vitale de’ corpi viventi, la pristina formentazione viziata per l’introduzione di materia febrile, non altrimenti, che lo stibio diaforetico, e tant’altri medicamenti di simil vaglia comunemente detti antifebrili? Da queste non disprezzabili conghietture, oltre all’esser proprio dell’istessa cosa, che così richiede, possiamo liberamente affirmare darsi parimente un tal solfo nell’alabastro, che non solo sia porzione del composto, ma suo architetto, che le parti disponga nel mentre per entro l’acqua nuotano, senza della quale non potrebbe a fine [238] portare un simil magistero richiedendo un seminale spirito corpo disposto, e cedente acciò sua forza palesi.
A Voi è ben noto come senza il concorrimento di un corpo liquido veruna produzione di sì fatte pietre, che hanno trasparenza, ed una particolare struttura di fibre, non può aver giammai cammino, non perché sia egli prono a cambiar natura, e specie, quanto perché contiene nel suo grembo raunata porzione di que’ semi, che à ciò sono producibili, e perché in una tal matrice raccolti fecondando l’impulso del sopradetto spirito con fievol movimento vi si ragirano, avendo spazio le particelle piacevolmente abbracciarsi, e con dovuto ordine ciascuna collocarsi nella sua sede, non dissomigliante a ciò, che alla giornata osservasi nel cristallizzare i Sali disciolti nell’acqua: la quale essendo al caso nostro tanto necessaria per l’addotte ragioni non sia parimente fuor del nostro divisare, se anderemo cercando di quai Sali impregnata sia quella, che nella spelonca senza intermissione distila, se d’alcali, ò d’altro ferace.
Credono comunemente da occul- [239] to fonte per sottilissimi condotti, e fissure tramandarsi nell’antro l’acque di tali virtù feconde, che in arrivarvi dentro, quasi veduta la Gorgone, mutino specie, e natura; perlocché quanto costoro vadino errati facilmente s’avvertisce da chi pon mente, non solo all’istessa caverna; ma alla qualità della sua pietra: imperciocché questa non gia come un tufo trasmette per entro il suo corpo l’umore, né quella nelle sue pareti, e volta, apertura alcuna, benché minima, onde l’umidore potesse risudare, dimostra. Senza che ancorché lo affirmare volessi quel liquore, che nell’antro distilla venire da straniero fonte, come è giammai credibile, che nel passare per i sottilissimi spazi del Monte, come questi tali vanno argomentando, non vogli di tempo in tempo deporre qualcuna di quelle particelle, che seco adduce a formar le pietre, e così riempiere tutti que’ suoi invisibili condotti con perdere ogni nuovo transito, impedito dalla materia accumulata? Certamente, che io altra sorgiva non conosco doverseli assignare, che l’istessa aria, la quale non meno di volanti Sali, che d’acquidosi vapori carica si intromette con perenne mo- [240] vimento nella cava; dove la prima rapprendendosi in acqua dà luogo alla nuova con successivo corso d’entrare: Recando non picciol ajuto a questa intromessione l’esser sempre più rarefatta fuora del Monte, che quivi, dove si restringe per l’opacità della caverna: La quale per aver anche tutte le sue pareti alquanto aspre, e d’un sottilissimo, e minuto pelame vestite, che altro non è, che l’estremità dell’unione d’infinite fibre, che compongono il masso, più facilmente per tal cagione l’umide particelle vi si attaccano, e più per lo scorrimento dell’aria ammonticchiandovisi, crescono in pendenti gocciole, non senza contenere però gran quantità di quel sale, chiamato da tutti i moderni, nitro dell’aria, di cui tutto l’ambiente n’è ripieno non altrimenti, che sia l’oceano de’ marini sali disseminato. Ciò detto, mi sarà ora facile mostrarvi come i mentovati due semi di solfo, e di nitro concorrono al producimento della nostra pietra alabastrina.
Il solfo ne’ suoi minimi componenti corpiccioli è di tal figura dotato, che facilmente si attacca, e riceve gli amplessi d’altre particelle di [241] simili, e di diverse figure, e spezialmente con quelle del nitro, le quali di conica forma essendo vestite vengono più volentieri per la loro lunghezza ad essere inceppate, e di più ferma tessitura producono qualunque cosa, che di loro ne risulta, si come sono i sassi, e le gemme, alla generazione delle quali direi quali altre circostanze concorrono, se non fusse ciò fuor del nostro argomento. Qesti conici corpicciuoli dunque agitandosi con perenne movimento per entro l’atmosfera della Terra in varj modi si accoppiano col solfo; o da per loro s’intromettono ove trovano le porosità loro idonee, quivi fermandosi con donare maggiore durezza a quel corpo; ò facendosi incontro a quel che sorge dalle profondità della Terra, o a quel che si va staccando dalla putrefazion del letame, e quindi i minerali tutti, e quel salnitro, che dal grasso terrestre si ricava, hanno il loro essere: o veramente nuotando in qualche liquido, come per lo più è l’acqua piovana, che più d’ogn’altra si abbonda dal sopravegnente spirito solfureo d’un nuovo, ed ordinato movimento agitato, viene in certa particolar situazione, e con certa legge [242] a ricevere consistenza con le stesse ramose particelle tramischiato, formandosene il nostro alabastro nella grotta di fossa cieca. Siche per dar oramai termine a questa lettera, che già ravviso dovervi nojare, dico, che spirandovi da ogni minimo spazio del sasso una sottilissima esalazione d’un purissimo spirito di vivo solfo, questo nell’uscire da’ forellini delle mura di detta caverna, incontra quivi le pendenti gocciole dell’acqua, secondo il modo già determinato, gravida d’infiniti semi del favellato nitro, e mischiandosi ancora con quell’umidore, che tutto il suolo ricopre, agita le parti saline del medesimo determinato movimento, con cui escono da que’ canaletti, o fibre del masso della miniera, e partricipandole l’istessa disposizione di quelle parti, onde son passate, con esso loro avviticchiandosi quel bellissimo alabastro se ne produce, in niente dissomigliante dall’antica massa del medesimo, che sotto al monte si giace. Il che non potrebbe avvenire, se io non determinassi quel sottilissimo alito, che secondo alcuni famosi Chimici, forse è quello, che in se contiene l’idee del seme delle cose, ò sia virtù plastica, che dal sapentissi- [243] mo Boile vien ributtata. Ma con quanta ragione, non è mio proponimento manifestare, ne alle mie deboli forze è ciò ragionevole.
E qui Signor Abate Filippo mio, io fo fine, non soggiungendo altro di ciò che mi sovviene, e che io potrei per maggior chiarezza del mio argomento addurre, stimando, qualunque si sia questa mia lettera, d’aver sodisfatto al vostro amichevol desiderio, ed in parte al mio debito, se non al vostro sublime ingegno, il quale ancora saprammi dar venia, se trasportar mi son lasciato dalla nuda narrazione alle ragioni di filosofia, e a Voi infinitamente mi raccomando, con tutti cotesti amici. Di Piedimonte li 28 Gennajo 1696.