Vittorio Messori_e se fosse vero?

1.

e se fosse vero?

O Dio esiste o Dio non esiste. Per quale di

queste due ipotesi volete scommettere? Per

nessuna delle due. La risposta giusta è non

scommettere affatto.

Vi sbagliate. Puntare è necessario, non è

affatto facoltativo. Anche voi siete

incastrato.

Blaise Pascal

Di Gesù non si parla tra persone educate.

Con il sesso, il denaro, la morte, Gesù è tra gli argomenti che mettono a disagio in una conversazione civile.

Troppi i secoli di sacrocuorismo. Troppe le immagini di sentimentali nazareni con i capelli biondi e gli occhi azzurri: il Signore delle signore. Troppe quelle prime comunioni presentate come «Gesù che viene nel tuo cuoricino».

Non a torto tra persone di gusto quel nome suona dolciastro. È irrimediabilmente tabù.

Ci si laurea in storia senza aver neppure sfiorato il problema dell’esistenza dell’oscuro falegname ebreo che ha spezzato la storia in due: prima di Cristo, dopo di Cristo.

Ci si laurea in lettere antiche sapendo tutto del mito grecoromano, studiato sui testi originali. Senza aver però mai accostato le parole greche del Nuovo Testamento.

È singolare: la misura del tempo finisce con Gesù e da lui riparte. Eppure egli sembra nascosto.

O lo si trascura o lo si dà per già noto.

Neppure preti, pope, pastori ne parlano molto. È vero: ogni domenica accennano a lui in qualche milione di prediche, omelie, sermoni.

Ma sembra troppo spesso che per loro la fede in lui non costituisca un problema.

Piuttosto, un dato di fatto. Si costruiscono complesse architetture sui vangeli; ma pochi scendono con chi li ascolta in cantina per vedere se le fondamenta ci sono davvero. Pochi cercano di saggiare se ancor oggi è solida la pietra angolare su cui dicono poggino la loro fede e le loro chiese.

Nella intera storia degli uomini, questo è il solo uomo cui sia mai stato associato senza mediazioni il nome di Dio. Ma a questo scandalo inaudito molti devono essersi abituati. Lo danno per scontato. È come se l’incenso (ha osservato un impertinente) li avesse ormai intossicati.

Dice un detto “segreto” attribuito a Gesù da un vangelo apocrifo: «Chi si stupisce, regnerà». Molti sembrano aver perduto il dono dello stupore.

Eppure, un sondaggio di opinione ha mostrato che, ogni cento italiani, 64 considerano Gesù «il personaggio più interessante della storia». Garibaldi e Luther King, secondo e terzo in quella sorprendente classifica, seguono con grande distacco.

Vengono poi Gandhi e infine Marx.[1]

Gli intervistati hanno detto che di Gesù vorrebbero sapere qualcosa di più e soprattutto di più attendibile. Ma non sanno dove informarsi.

I giornali, la cultura laica, si occupano delle istituzioni (il Vaticano, le chiese...) che poggiano sulla fede, ma ignorano questa. La cultura dei credenti, da parte sua, sembra preferire le variazioni ascetiche, le meditazioni su Gesù; ma così spesso, come osservammo, non ne affronta il formidabile problema storico.

«Che sia proprio il Cristo, all’interno e all’esterno della cristianità, lo sconosciuto che fa del cristianesimo stesso un noto sconosciuto?» si chiede Hans Küng.

Sembra dunque che nessuno si occupi del problema di Gesù. Ma non è vero. La bibliografia su di lui è in realtà un oceano, per giunta in continua tempesta.

Nel solo secolo scorso, a lui sono stati dedicati circa 62 mila volumi. Alla Biblioteca Nazionale di Parigi, specchio della cultura occidentale, la sua “voce” è seconda per numero di schede. La prima, significativamente, è Dieu.

In realtà, da molti secoli il dibattito su Gesù è la riserva di caccia, gelosamente sorvegliata, di chierici e di laici accademici, spesso a loro volta ex chierici. Sono gli specialisti che hanno prodotto e producono quelle migliaia di volumi, confutandosi a vicenda in una interminabile disputa di dotti.

Alla gente si lasciano i libri di devozione o qualche divulgazione non di rado addomesticata o propagandistica.

Così, molti ignorano che a proposito di Gesù tutte le ipotesi sono state fatte, tutte le obiezioni confutate, ribadite, riconfutate all’infinito. Ogni parola del Nuovo Testamento è stata passata al vaglio mille volte; tra i testi di ogni tempo e paese questo è di gran lunga il più studiato, con incredibile accanimento.

Al non specialista giunge appena qualche eco attenuata del dibattito. Dura da ormai duemila anni, ma negli ultimi tre secoli ha cambiato bersaglio. Mentre, sino al Settecento, la disputa era soprattutto interna al cristianesimo (questione di “ortodossia” e di “eresia”) a partire da quel secolo nasce la critica extra-cristiana. Le Scritture su cui si basa la fede sono contestate nella loro storicità. Si attacca ciò che sino ad allora era dato per scontato, pur nella polemica più aspra e talvolta sanguinosa: la credenza, cioè, in un particolare rapporto dell’uomo Gesù con Dio; la fede in lui come il Cristo, il Messia, l’atteso di Israele.

Disputa, comunque, sempre tra pochi dotti. Scrive Jean Guitton, lo studioso francese cui questo libro deve molto:[2]

«Il grande pubblico ne ha tratto la convinzione che il problema di Gesù sia questione di sapienti e di teologi, al di sopra della sua competenza. La difficoltà di crearsi un’opinione personale ha fatto sì che ciascuno distogliesse il pensiero dal problema. L’incredulo per conservare il suo dubbio sulla storicità del Gesù dei vangeli. Il credente per vivere di fede. Il silenzio è tornato quindi a regnare su questo problema fondamentale».

Le pagine che seguono sono proposte da chi non ha accettato quel silenzio e si è inoltrato da bracconiere nella riserva di caccia degli specialisti.

Non sono che un “profano” che, a suo rischio e pericolo, si è azzardato nel sancta sanctorum dove si scrive in tedesco o in latino, si disputa su parole ebraiche, su lapidi

aramaiche, su codici greci. Non sono un cattedratico né un ecclesiastico. Non sono che un laico.

Dietro questo libro c’è il bisogno di quel cronista che sono di raccogliere notizie innanzitutto per me, per poi offrirle ai lettori.

Conosco gli stanzoni di cronaca dei quotidiani e le redazioni dei settimanali; non le aule delle università pontificie. Né vengo dal sérail, il serraglio, come lo chiamano i francesi: quello che troppo spesso è il “ghetto” anche culturale della cristianità.

Parlare di sé è irritante e rischioso.

Se mi ci azzardo è perché vorrei rassicurare il lettore: sonò partito dal dubbio; o meglio dall’indifferenza. Come lui, come tanti oggi. Non certo dalla fede. Sono

arrivato a questi studi dopo 18 anni di scuola di stato. Ho dovuto imparare tutto, partendo dal niente.

A scuola, gli unici preti sono dunque stati per me quelli delle “ore di religione” imposte dalla conciliazione con i fascisti.

Poi, improvvisa, è cominciata una caccia al tesoro, sempre più appassionante, nella Palestina del primo secolo. Il primo biglietto della catena fu una copia dei «Pensieri» di Pascal, acquistata per certe ricerche marginali del corso di laurea in scienze politiche.

A Blaise Pascal questo libro è dedicato: senza di lui non sarebbe mai stato scritto.

O sarebbe stato del tutto diverso.

È dedicato anche alla schiera immensa di coloro che, nei secoli, sono andati cercando soluzione al più affascinante tra i “gialli”: le origini del cristianesimo.

Non occorre però la passione del genere poliziesco per essere coinvolti da questa storia. Ciascuno di noi vi è aggregato di autorità, per il fatto stesso di vivere.

«Vous êtes embarqués», anche voi siete incastrati, ricorda Pascal a chi vorrebbe eludere il problema del proprio destino.

Che lo si voglia o no, che piaccia o no, da secoli in Europa, nelle Americhe, in Oceania, in Africa, in parte dell’Asia, quelle due sillabe (Gesù) sono legate al senso del nostro destino.

Lo affermano caparbi, dall’inizio dell’Impero Romano sino a noi, coloro che credono quel nome risposta definitiva alle domande dell’uomo; che lo associano, addirittura, al concetto inaudito di “Figlio di Dio”; che dicono che nella sua storia noi tutti siamo coinvolti.

In queste pagine ho tentato di esaminare le ragioni della testarda, incredibile riproposta agli uomini come loro “Salvatore” dell’oscuro palestinese.

Cercherò di spiegare più avanti perché, nel bric-à-brac delle religioni del mondo, sono persuaso che solo di lui valga la pena di occuparsi. Perché Gesù e non Maometto o Lao-Tse o Zarathustra.

Ho raccolto un dossier di notizie che rispondesse alle mie domande; ad alcune almeno, non certo a tutte. Domande, mi auguro, che sono poi quelle della gente che lavora. Della gente per la quale ogni giorno è un problema. E tanto spesso così assillante da non lasciare certo spazio alla ricerca di soluzioni al “Problema”. Quello davvero di fondo, il più “a monte” di tutti, come si ama dire.

Il “Problema”, cioè, che sta dietro alle domande spesso irrise, quasi fossero da lasciare agli adolescenti, indegne di adulti: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?

C’è un futuro per noi, al di là della linea di un orizzonte indefinito? O davvero, come canticchia amaro Petrolini, non siamo che pacchi, campioni senza valore, che l’ostetrico spedisce al becchino?

Al di qua dell’ostetrico e al di là del becchino, la vita è aperta su due misteri. Prima della nascita e dopo la morte, da entrambi i capi la nostra esistenza è immersa nell’ignoto. Senza dubbio, sull’eterno. Eterno, il nulla da cui forse siamo venuti.

Eterno, il niente nel quale forse sprofonderemo.

Non crediamo sia in torto chi ha paragonato la nostra condizione a quella di chi si svegli su un treno che corre nella notte. Da dove è partito quel treno su cui siamo stati caricati, non sappiamo quando e perché? Dove è diretto? E perché questo treno e non un altro?

C’è chi si accontenta di esaminare il suo scompartimento, di verificare le dimensioni dei sedili, di analizzare i materiali. Per poi riaddormentarsi tranquillo: ha preso coscienza dell’ambiente che lo circonda, tanto gli basta, il resto non è affar suo.

Che, se poi l’angoscia dell’ignoto prenderà alla gola, ci sarà sempre modo di scacciarla pensando ad altro. Come esorta il poeta, «meglio oprando obliar senza indagarlo quest’enorme mister dell’universo».

«Io non so chi mi ha messo al mondo né che cosa è il mondo né che cosa sono io stesso. Vedo questi impressionanti spazi dell’universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato a un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato in questo luogo piuttosto che in un altro. Né perché questo poco tempo che mi è dato da vivere mi è dato a questo punto piuttosto che a un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Io non vedo che infiniti da tutte le parti che mi rinchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto quel che conosco è che debbo presto morire: ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare».

“Pazzo sublime”, “malato e squilibrato”, “inguaribile bambino”, “presuntuoso che non si è rassegnato alla legge del dubbio”, “genio rubato alla scienza”: sono alcune delle definizioni affibbiate a Pascal, l’autore delle righe riportate. Colpevole, infatti, di aver passato i suoi 39 anni a cercare se non ci fosse per caso soluzione al mistero della condizione umana.

Agli ironici confortatori al suo capezzale, egli replicava però ritorcendo in anticipo l’ironia: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci».[3]

O meditava amaro che «la sensibilità dell’uomo per le cose piccole e l’insensibilità per le cose grandi è indizio di uno strano pervertimento».

Pascal, infatti, amava e stimava in modo eguale due generi di persone: i “credenti” e gli “increduli”. Chiunque cioè, al tavolo dove si gioca la vita, avesse scelto per una ipotesi o per l’altra: «O Dio c’è o Dio non c’è. Su quale ipotesi volete scommettere?».

Gli riusciva invece incomprensibile l’atteggiamento di chi non prende posizione: «Un erede trova i titoli relativi al suo casato. Credete che dirà: “Forse sono falsi” e che trascurerà di esaminarli?». E concludeva poi con quel suo radicalismo passionale e scandaloso per orecchie delicate che profondamente amiamo: «Ma allora, non soltanto lo zelo di coloro che lo cercano prova l’esistenza di Dio. Lo prova anche l’indifferenza di coloro che non lo cercano affatto».

Per tornare all’immagine del treno, anche i più saccenti, qui, hanno una sola informazione sicura da dare: che il convoglio finirà per imboccare un tunnel oscuro, senza che alcuno possa scendere prima. Ma che vi sia oltre l’imbocco della misteriosa galleria, non sanno.

«Non c’è nulla, c’è solo il buio», dicono alcuni.

Un’opinione rispettabile.

Ha purtroppo il difetto di mancare di prove. Nessuno è tornato indietro per darci relazione del suo viaggio al di là della Todeslinie, la linea della morte.

Noi siamo tra gli ingenui, gli inguaribili adolescenti, gli alienati. Tra coloro cioè che sono sgomentati, non ci vergogniamo affatto a riconoscerlo, dal silenzio eterno degli spazi infiniti che ci circondano. Invece di starcene tranquilli al nostro posto, guardando il buio correre fuori, preferiamo girare di scompartimento in scompartimento. Nella speranza, chissà?, di trovare un qualche “orario” che dia un nome e una direzione a questo viaggio che non abbiamo voluto.

Più che rispondere a delle domande ho dunque cercato di dare delle informazioni.

Ho raccolto notizie, nel tentativo di stendere una “ipotesi di bilancio”, per quanto modesta, sul problema di Gesù.

Questo, infatti, è il solo uomo nella storia di cui si dice che sia tornato vivo dalla galleria della morte.

E se fosse vero?

Sono partito oltre dieci anni fa come per un servizio giornalistico che rispondesse a quella domanda e ho finito (il lettore se ne accorgerà subito) per esserne coinvolto; forse, ancora una volta ha ragione il Cristo di Pascal: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».

Il poco che propongo è però offerto con onestà: ho lavorato innanzitutto per me.

Dunque, ho cercato di non ingannare me stesso. Dio, se esiste, non ha bisogno delle nostre bugie. Il personaggio storico chiamato Gesù e che da venti secoli è legato all’idea di Dio ha diritto alla verità, non alle astuzie apologetiche. E noi abbiamo diritto a non essere imboniti ma informati.

Ho cercato così di attenermi a ciò che tutti possono accettare; a ciò che è per quanto possibile fuori discussione.

Dopo tante dotte e preziose analisi occorre che qualcuno si azzardi, a suo rischio e pericolo, a tentare una sintesi. Questa nostra è (come e più che ogni altra in questo argomento) una sintesi provvisoria. È una semplice proposta che ha bisogno di essere verificata e discussa, superata e nuovamente formulata. Anche se, purtroppo, ogni libro è per sua natura un mezzo “autoritario”; o, quanto meno, un monologo. Il vangelo, invece, è un dialogo che non finisce mai. «Ma voi, chi dite che io sia?», chiede ancora e sempre l’enigmatico protagonista.[4]

Il mio debito verso tutti coloro che si sono occupati del problema (sia per negare che per affermare) è tale, da potere sottoscrivere quanto Pascal ebbe un giorno a osservare: «Quegli autori che, parlando delle loro opere, dicono “il mio libro, il mio commento, la mia storia”, assomigliano a quei borghesi che hanno qualche bene al sole e sempre un “mio” sulla bocca. Farebbero meglio a dire: il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, visto che di solito in quelle opere ci sono più beni d’altri che loro».

Qui, addirittura, a ogni frase avrei potuto far seguire una nota con il riferimento a un lavoro altrui. Ho scelto l’estremo opposto e di note erudite non ne ho messe quasi, limitandomi a segnalare alcune citazioni prese di peso e neppure elaborate.

Gli eruditi infatti non leggeranno questo libro che pure deve tutto alle loro ricerche preziose. Molti lo sdegneranno come l’incursione di un dilettante, un intruso che ha tentato di mettere in piazza una disputa troppo profonda per il volgo.

Di note, comunque, improbabili lettori specialisti non hanno bisogno: sanno bene dove controllare, se vorranno, le affermazioni sulle quali mi appoggio. Agli altri, ai “profani” come me, basti sapere che quanto cito è citato alla lettera, senza deformazioni interessate. Che ogni notizia è documentata e documentabile.

Ho dato quanto ho potuto, vincendo la riluttanza a tentare bilanci quando si è ancora, com’è il mio caso, in piena ricerca.

Paolo di Tarso descrive lo stato d’animo in cui si presentò davanti ai Corinti: «debole, timoroso, tutto tremante». Se è lecito richiamarsi, almeno nella debolezza, a quello straordinario press-agent del cristianesimo nascente, ebbene il mio stato d’animo è del tutto simile.

Ho però avvertito anche il dovere di rispondere all’invito di un altro ebreo, Simone detto Pietro: «Siate sempre pronti a rendere conto della speranza che è in voi a chiunque chieda una spiegazione, ma con mansuetudine e rispetto».

«Mansuetudine e rispetto».

Per affrontare questo problema di Gesù che investe l’uomo eppure lo supera, c’è davvero bisogno di tutti gli uomini. Le polemiche, qui, sono più che inutili: sono stupide.

Do tutta la mia solidarietà e la mia simpatia ai cosiddetti “increduli” quando non vogliono i cristiani creduli; che è il contrario di credenti. Senza gli “increduli”, sul problema di Gesù si sarebbe ancora all’apologetica barocca.

Scriveva Lacordaire, il volterriano che finì domenicano: «Ciò che veramente mi importa non è convincere di errore chi la pensa diversamente da me. Quanto unirmi a lui in una verità più alta».

Mi è parso sin qui di scoprire che, malgrado tutto, su Gesù i conti tornano. Che l’ultimo passo della ragione può anche essere il riconoscere che vi è una dimensione che supera la ragione stessa. Che può essere ragionevole scommettere su questa ipotesi.

Certo, resta fitto il mistero, appena rischiarato da qualche luce; tanti problemi non trovano risposta. Se davvero il Creatore stesso dell’universo è entrato nel tempo e nello spazio, perché proprio su questo piccolo frammento di rocce e metalli che ruota attorno a una stella tra i duecentocinquanta miliardi di stelle della sola nostra galassia?

«Credere non è capire tutto» dice Teilhard de Chardin. Quel mistero, quei problemi, però, mi sembrano ancora più grandi se si punta sulla soluzione contraria.

Se si afferma, cioè, che il cristianesimo non è che il più grosso degli equivoci in cui gli uomini siano incappati.

Del resto, «chi biasimerà i cristiani del non sapere dare ragione della loro fede, visto che dichiarano, esponendola al mondo, che quella fede è assurda, è un’idiozia?».

Idiozia, stultitia è infatti, per Paolo di Tarso, l’annuncio che in un misero operaio ebreo Dio stesso si sarebbe manifestato; che quel proletario sconfitto avrebbe vinto la morte rovesciando la pietra del sepolcro. Un’idiozia, per la sapienza del “mondo”.

«Ma, avendo udito parlare di resurrezione dai morti, alcuni (degli ateniesi) presero a deriderlo, altri poi dissero: “Di questo ti sentiremo un’altra volta”‘. Così Paolo uscì di mezzo a loro» (Atti, cap. 17).

Proprio il mattino di quella risurrezione, secondo il racconto che è attribuito a Luca, «due uomini in abito sfolgorante» apparvero alle donne giunte al sepolcro.

«Perché cercate colui che è vivo in mezzo ai morti?» chiesero i due.

In questa domanda del vangelo è il senso e il limite di ogni ricerca come la nostra sul Gesù sulla storia, su quest’uomo da cui ci separano più di trenta vite d’uomo.

Dal Gesù nato sotto Augusto e morto sotto Tiberio bisognerebbe semmai partire per riconoscere che ogni uomo, qui e ora, è il Cristo della fede.

E per confessare che, ovunque si lotta per l’uomo, ebbene lì il Dio di Abramo e di Gesù si manifesta ancora una volta nella storia. E che lì, dove si tende alla giustizia, alla liberazione da quanto opprime l’uomo dentro e fuori, lì è l’ecclesìa, l’adunanza di chi crede al Gesù resuscitato; conosca o no il suo nome.

Ha scritto Bonhöffer, il cristiano appeso a un gancio dai nazisti, che chi dice di credere in un certo Gesù che ha insegnato, che è morto, che è risorto, può anche cantare in gregoriano.

Ma, aggiunge, soltanto se grida allo stesso tempo per gli ebrei e per i comunisti.

Per le vittime, cioè, dei suoi tempi, e per quelle di ogni presente e futuro.

Gesù, ha detto un poeta contemporaneo, non si trova al termine dei nostri ragionamenti; ma, semmai, al termine del nostro impegno.

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Note.

[1] Indagine Doxa della primavera 1974.

[2] Al volume di Guitton «Jesus» (trad. it. «Gesù», Torino, Marietti, 1963) rinviamo come a uno tra i pochissimi libri che si propongano una riflessione oggettiva e divulgativa sul “problema Gesù”.

[3] Oggi, forse, più che mai. «La nostra epoca ha il tabù della morte come l’epoca vittoriana aveva il tabù del sesso», ha osservato H. Küng.

[4] L’autore sarà sinceramente grato a chi vorrà indirizzargli (presso l’Editrice, corso Regina Margherita 176, Torino) critiche, suggerimenti, conferme di cui si impegna a tenere conto per un’eventuale nuova edizione.