Ruagnàri di Sessa

“Ruagnàri” di Sessa

Tra le varie industri manifatturiere, che, fin dai tempi più remoti, tornarono a vanto della Campania, è quella delle ceramiche. Le antiche città Capua, Cales, Nola, Cuma, furono celebrate anche per tale industria, tanto che le obbae calene, gli urcei capuani, i calices di Cymae, i dolia di Pythecusa, ricordati da Plinio e da Catone, appartengono alla stoia della ceramica campana.

I vasti giacimenti di ottima argilla, specie di quella detta “bianchetto” (e il nome argilla deriva appunto dal greco argós, bianco), di cui ricche varie contrade della Campania, alimentavano nell’età classica le numerose fabbriche ceramiche (ed il numero s’inferisce dagli stampi che si notano sul materiale fittile di scavo) le quali ci si ricordano non solo nei cospicui svariati avanzi archeologici ma anche attraverso persistenti tradizioni. Ischia infatti, l’antica Pythecusa – l’Aenaria dei Romani – contava, prima del disastroso terremoto del 1883, numerose fabbriche di laterizi e di vasi, di cui alcune sopravvivono tuttora; Scauri (presso Forma) produce anch’essa su vasta scala materiale laterizio e, sino a non molti anni or sono, forniva di pregiate stoviglie i mercati. In Calvi Risorta (tra Capua e Teano), erede dell’ausonica Cales che al tempo dei Romani vantavasi della produzione di quella decantata “campana supellex” che legavasi al nome dei Canulei, degli Atilii, dei Gabinii, è ancora in attività qualche modesta fornace per laterizi, o meglio per umili coppi campani, i cosiddetti canali. Sui mercati della Campania trovan tuttora cospicuo posto i manufatti di Sessa Aurunca, le famose “caccavèlle di Sessa”[1], dette altre volte ruàgne[2], la cui diffusione, tanto maggiore in passato, originò, il “blasone” popolare: “Ruagnari so’ di Sessa”, contenuto in una filastrocca che circola nel Napoletano[3].

Oggi l’industri ceramica in Terra di Lavoro, ridotta a povera industri casalinga, sopravvive in due modeste borgate di Sessa Aurunca – due cioè dei “36 casali di Sessa” – Cascàno e Corbàra, ma qui come altrove le fabbriche furono un tempo, anche a memoria d’uomo, più importanti e numerose, tanto che un rione della stessa Sessa conservò, fino ad un secolo fa, il nome di San Francesco dei Pignatari[4] per essere ivi stabilite, nei pressi della chiesa di S. Francesco, numerose famiglie di vasai. Poi, col diffondersi dell’uso di più apprezzate terraglie – quelle, sino a quarant’anni or sono, delle meglio attrezzate fabbriche di Scauri e quelle “di Marsiglia”, importate a Gaeta e Formia dai velieri facenti scalo nel porto francese – e col generalizzarsi dell’uso di altro genere di suppellettile da cucina, di rame, di latta, di ferro, e di più fini cretaglie, il numero dei nostri pignatàri o ruagnàri si ridusse progressivamente e la locale industria è andata via via decadendo. Rappresentati ormai da poche e povere famiglie nelle suddette borgate, ove si dà loro il nome di cannatàri[5], quegli industri operai si trasmettono l’umile arte da padre in figlio e la coltivano con i soliti mezzi rudimentali, con gli stessi tradizionali sistemi ereditati dagli avi. Questi ultimi ed umili discendenti degli antichi figuli campani, costrettivi dalla povertà dei loro camp e dalla impossibilità di esercitare nel natio luogo altra industria o mestiere, sfruttano l’unica risorsa del collinoso e non fertile suolo, quella, cioè, che per essi rappresenta la pregiata argilla; la quale, per contenere scagliette d’oro, Ferdinando I d’Aragona cercò, con altro intento ma infruttuosamente, valorizzare.

Sono quelle di Cascano e di Corbara, come si è detto, modestissime fabbriche, ad un sol forno intermittente, senz’alcuna attrezzatura meccanica, oltre al rudimentale tornio, la “ruota”[6], nelle quali lavoravano di solito i componenti la famiglia del cannatàro, che sono anche, il più delle volte, i venditori della sudata merce. Arte povera e dura, quella dei ruagnàri, destinata indubbiamente a finire, se non facilitata e migliorata con mezzi moderni, quando altre attività ed altre vedute apriranno nuove vie, che il Regime appresta e spiana sempre più, a quelle povere popolazioni rurali. Ad onta di tutto ciò, la rustica arte dei ruagnàri rivela attraverso i modelli, e più ancora attraverso la nomenclatura dei manufatti, le sue origini remotissime, l’indubbia derivazione classica; essa ricorda i fasti dell’industria vascologica greca e campana, richiama alla mente uno dei più cospicui lati dell’attività manifatturiera dell’antichità, che alla nostra regione – la Campania Felice – meritò l’aggettivo di industriosa.

Tra le caccavèlle di Sessa (caccavèlla, da κάκαβος, paiuolo, laveggio) ricordiamo le comuni brocche, langèlle (da λάγηνος, vaso per acqua) o cannàta[7] (da χάνεον, vaso di terra o di metallo); le pentole, cuttùri[8] (da χυτρός, di uguale significato); le scodelle, scifèlle (da σκυφός, vaso da bere); gli arciuli (da urceulus, piccolo vaso); speciali vasi per conservare salami o altro, càntari (da κάνδαρος, grande vaso vinario); altri vasi per liquidi utri (da uter, pelle caprina per contener vino od olio); caratteristici fiaschi per vino, cécini [da κηκίς, che sprilla, che sprizza[9]]; conche, cócome (da cúcuma, di medesimo significato; alcuni vasi potorï, detti pizzipàperi (becchi d’oca) ricordanti una speciale forma di ryton il cui orifizio destava l’idea del becco del palmipede; dogli per olio, zeri (da seria, vaso per liquidi); coperchi di pentola, tiesti (da textum, di significato identico); vasi da fiori o da bucato, teste, il cui nome latino, testae, si conservò immutato; padelle, ruόti (da rota, disco) ecc.[10]

Nei tempi andati, fino a mezzo secolo fa, la rustica arte sessana ebbe i suoi fasti; l’umile vasaio aggiungeva alcunché di nuovo ai vecchi modelli tradizionali; adottò qualche originale elemento decorativo, raffinò, secondo il suo gusto e le sue possibilità, la semplice e rudimentale sua capacità creativa ideando nuove forme e nuovi motivi, oggi peraltro abbandonati giacché non più rispondenti alle nuove esigenze ai mutati gusti, non più richiesti siffatti elaborati prodotti da acquirenti d’eccezione, quali erano gli agiati coloni – i“padroni” – ed i “galantuomini” di quelle contrade. Ben d’altro che delle elaborate ceramiche dei rustici ruagnàri amano oggi gli uni e gli altri di adornare le proprie case! Non così invece una volta, quando le giarre dalla complicata ornamentazione plastica, le “bottiglie” a forma umana, le teste “col piede” ed ansate, con festoni e rosoni, ed altre ingenue creazioni artistiche del rozzo cannatàro facevan bella mostra di sé sulle mese[11], sui buffettini[12], o sospese alla rastrelliera – lo scudellaro tradizionale – nelle case dei benestanti rurali aurunci. Alcuni di tali interessanti documenti d’arte rustica figurarono nel 1924 nella Fiera Campionaria di Napoli, e, sebbene limitati a pochi e non bene assortiti modelli, destarono vivo interesse e non mancò chi deplorasse la mala sorte di quella modesta ma non superflua industria, che con supina indifferenza lasciavasi languire e finire, disconoscendo il notevole contributo che essa avrebbe potuto portare, se incoraggiata e sorretta, alla economia locale[13].

Ancora oggi i cannatàri auurunci cercano di dare talvolta ai loro manufatti qualche nota di originalità e di abbellimento; orli primitivamente modanati, anse a treccia o tortili, ornamentazioni floreali, a stampo o a stecca, sulle brocche e sui vasi potorï; bottoni, rosette, palmette, cartocci, spesso ottenuti mediante serie di perline, formanti talora un fiore o un festone. È questo, s’intende, il vasellame di eccezione o di occasione, il vasellame “con gli scherzi”, mentre la decorazione della comune suppellettile si riduce a qualche rudimentale motivo graffito o a qualche ghirigoro – viticci e volute – di ocra rossa. Cannate fuori classe son quelle interamente verniciate ('mpetanate[14]) e ricche di ornati e frascami e corolle. Ma di due singolari ed originali pezzi si dan vanto tuttora i cannàtari di Cascano: della cosidetta “cascanése” e della “cόcoma a tradimento”, la prima consistente in una brocchetta in forma di donna in costume tradizionale del luogo[15]; l’altra fatta in modo che, qualora non si riuscisse ad identificare il foro dal quale è dato bere, l’acqua spruzzerebbe sul viso e sulla persona di chi l’appressasse alle labbra da altri fori ingegnosamente distribuiti sulla parete del vaso a sorpresa. Queste due caratteristiche brocche, per esserne laboriosa la fabbricazione e perché non facili a piazzare per il costo relativamente alto ed anche per la loro poca praticità, non figurano sui mercati; costituiscono perciò dei pezzi di eccezione –una “specialità” di Cascano – attestanti la speciale abilità dei nostri cannatàri. Il valore etnografico dei due curiosi manufatti, del resto, è veramente notevole[16].

Chi, recandosi a Sessa o tornandone, passi per Cascano – l’antico Gallicanum – la ridente e fiorita borgata dei Colli Aurunci, non può non volgere il pensiero alle famose caccavèlle. Ne vede allineate in lunghe teorie sulla strada, raggruppate nei cortiletti, nei chiazzuoli, rinfuse negli umili interni e intravvede qua e là, lacero e terroso, il cannatàro presso il tornio o presso la fornace, o che si dà dattorno per esporre al sole le stoviglie o per cacciarle nel forno od estrarnele , per caricarne infine carrette e carrettine onde smerciarle sui vicini mercati, specialmente in quello, importantissimo, del giovedì, nel vicino centro di Sessa Aurunca.

Quando sulle vie polverose o fangose delle contrade del Sessano s’incontrano, con sulla testa i capaci cesti – non sempre vuoti al ritorno – pieni di rustiche stoviglie, povere donne trascinantisi stanche, a stento talvolta, o le si vede girare per le stradette dei villaggi facendo udire di quando in quando il loro grido dimesso: Ecco ‘a ruagnàra, ruàgne, fémmene!”, e barattare la modesta merce contro una “cotta” di legumi o una bottiglietta d’olio o una fetta di lardo “per le minestra”, nessuno ravvisa, in quelle umili ruagnère di Cascano o di Corbara, le continuatrici di una tradizione millenaria, le discendenti dei classici figuli campani.

Piedimonte di Sessa Aurunca, ottobre dell’a. XVI.

NICOLA BORRELLI

[1] Caccavèlla, da κάκαβος, paiuolo.

[2] Ruàgna, da Ὄργανον (…)

[3] Pubblicammo la filastrocca nel Saggio di etnografia pop. di Terra di Lavoro in “Rivista Campana” nn. 7, 8, 9, 1924.

[4] Pignatàri, da pignàta, pignatta, pentola; fabbricanti di pentole ma anche di stoviglie in genere.

[5] Cannatàri, da cannàta, brocca; fabbricanti di brocche e, per esteso, dei vari utensili di creta.

[6] Il tornio tradizionale (…)

[7] La cannàta corrisponde, nella vicina Formia, alla (…)

[8] Mal si opporrebbe chi facesse derivare (…)

[9] Il liquido vien fuori dai piccoli fori di cui costituito l’orifizio del vaso.

[10] Atre stoviglie sessane (…)

[11] Mesa (da mensa) tavola.

[12] Buffettino (dallo sp. bufeto) tavolino.

[13] V. N. BORRELLI, Riflessi intorno alla partecipazione della prov. di Terra di Lavoro alla Fiera Campionaria di Napoli, in “Rivista Campana” n. 2, 1924.

[14] ‘Mpetenate, da pétema, patina, vernice.

[15] Costume della campagna sessana, v. E. CALDERINI, Il costume in Italia.

[16] Opportuno sarebbe raccogliere i vari tipi, o almeno i più caratteristici, di queste ceramiche locali, prima che l’influenza dei nuovi tempi riduca i tipi stessi o ne alteri la forma tradizionale e si perda addirittura il ricordo di quei singolari manufatti che più non si producono.