Caiazza_Ager alifanus

Domenico Caiazza

AGER ALIFANUS

FORTIFICAZIONI PREROMANE E MEDIEVALI DEL CASTELLO DI S. ANGELO D’ALIFE – NOTE PRELIMINARI.

(in S. Angelo di Ravecanina – Un insediamento medievale nel Sannio Alifano, a cura di L. Di Cosmo, 2001, pp. 5-82)

Storia degli studi.

Le mura megalitiche del diruto castello di S. Angelo di Ravecanina, oggi di Alife, sfuggirono sia agli studiosi ottocenteschi che si occuparono di antichità alifane, come il Nissen, il von Duhn ed il Mommsen, sia a quelli dei primi decenni del ‘900, da Raffaele Marrocco, che per primo descrisse le mura megalitiche del Monte Cila al Maiuri che, insieme a queste ultime, illustrò nel 1929 le cinte di Faicchio e di Monte Acero.

Le prime notizie sulle fortificazioni preromane e medievali del castri Sancti Angeli de Rave canina si debbono ad un benemerito ricercatore nato a S. Angelo: l’ing. Gabriele Martone. Questi che già prima del 1915 si era occupato di storia locale, tornato in Italia dopo lunghi anni in Argentina, nel 1956 diede alla luce i suoi studi su Rupecanina e nel 1965 promosse il restauro del castello. L’anno seguente pubblicò una sintetica nota sugli Scavi e restauri a S. Angelo d’Alife (ASSA 1966). Si tratta di lavori che egli stesso promosse e guidò, culminati nel restauro della torre mastia del quale riferì nella breve memoria sul Consolidamento e sistemazione del “maschio” del castello di Rupecanina in S. Angelo d’Alife (ASSa 1968).

Nel 1979, mentre preparava un’edizione riveduta, corretta ed ampliata, dello studio su Rupecanina morì. Pertanto la seconda edizione vide la luce postuma nel 1981. Ivi oltre a cenni sulla storia medievale del castello si legge:

Sulla collina, dove posteriormente sorse il castello, esisteva una recinzione sannitica composta da grandi massi sovrapposti senza cemento. Ma tale opera fu distrutta quasi completamente per costruire il castello e il borgo; chi scrive ne ricorda una trentina di metri, distrutta da noi ragazzi, con leve di legno per vedere quei pesanti massi, rotolar giù con grandi salti, per la china meridionale del colle: adesso ne rimangono solamente una decina di metri, protetti da un muro sovrapposto. (Martone 1981, 45).

Allo studioso dobbiamo anche una pianta delle rovine medievali di Rupecanina, datata 1957, e cioè anteriore al rimboschimento che ha alterato o coperto molte antiche tracce, ed un resoconto degli interventi di ricostruzione da lui compiuti.

Questi dati sono particolarmente preziosi poiché compendiano le osservazioni compiute dal Martone sin dai primi del secolo XX sul borgo e sulla torre.

Anche se è vero che le notizie storiche e quelle sui resti murari sono schematiche (e che sovente sono esposte le deduzioni dello Studioso e non i dati sui quali le stesse fondano), tuttavia le informazioni sono utilizzabili per un tentativo di ricostruzione.

È da credere che le indicazioni del Martone siano rimaste ignote alla Gioia Conta che riesaminò le cinte dell’area campano sannitica e nel 1978 diede notizia delle mura di Mandra Castellone di Capriati a Volturno e di Monte Castellone di Torcino.

Nel 1986 Domenico Caiazza, in un lavoro dedicato alle cinte sannitiche del Montemaggiore, ha descritto la città di Roccavecchia di Pratella identificandola con la Callifae menzionata da Tito Licio, indicazione condivisa dal La Regina (1998, 375).

Lo stesso autore nel 1987, nel Convegno di studi di S. Angelo d’Alife esaminava i centri fortificati, le stipi votive, le necropoli e i dati folclorici in un contributo intitolato Il Territorio Alifano in età sannitica, ed affermava che

un’area sacra era, con buone probabilità, nei pressi del castello di Raviscanina. Ivi il pendio a nord dell’insediamento medievale è cinto da un muro megalitico. Nel campo si rinvengono abbondanti frammenti di ceramica a vernice nera di II sec. a.C.; e vi è un pozzo perenne con affioramenti anche superficiali di acqua, in passato forse più consistenti poiché il Trutta notò resti di un acquedotto.

Non è chiaro se il muro megalitico costituisca il resto di una fortificazione di un abitato o piuttosto il temenos, la recinzione di un tempio, come avviene ad es. a Civitella di Campochiaro.

In superficie non si notano resti monumentali, ma l apianura cinta dal muro fu occupata da un edificio in età antica, come testimoniato dall’affioramento di “frammenti fittili, di lacerti di intonaco dipinto di pavimentazione in signinum, nonché da ceramica a vernice nera, poca sigillata italica e frammenti di rozza terracotta. Anche nell’area del borgo medievale sono affiorati analoghi materiali e una moneta. Cronologicamente si spazia dal III al I sec. a.C. (Caiazza, 1987, 57).

Nel 1989 Luigi Di Cosmo pubblicava i risultati di una indagine di superficie sul sito descrivendo un’area di concentrazione di frammenti fittili in proprietà Ciaburro:

tra la mulattiera che sale da Raviscanina e la strada per la località Selvapiana, circa 50 metri a monte di un pozzo. Non molto distante verso ovest si nota un muro megalitico, realizzato con grossi massi informi appena squadrati ed inzeppati con piccoli frammenti di calcare, che si conserva per un tratto lungo circa 100 metri e terminante verso le prime pendici del monte Saracino.

Lo studioso descriveva ceramica a vernice nera, sigillata italica e rozza terracotta ivi raccolta ed analizzava materiale recuperato nell’area del castello, cioè ceramica a vernice nera ed una moneta di III sec. a.C. (1989, 133 e ss.)

Nello studio Il territorio tra Matese e Volturno, note di topografia storica (Caiazza 1994) veniva attribuito alla touta sannitica di Roccavecchia di Pratella il territorio tra Matese, Volturno e i fiumi Ete, ora Lete, e Cervaro (ora Ravone di Raviscanina) e riconosciuti gli esatti confini della diocesi e contea di Alife in epoca normanna, oltre che definito il “territorio pratense”, esteso da S. Stefano di Raviscanina sino a Prata e Valle Agricola.

Nel 1995 S.P. Oakley accenna al polygonal wall is known on Colle Saraceno, a hill which lies close to the medieval castle of Raviscanina and overlooks the Volturno valley. Again interpretation of the site is not easy, but this is not a position in which a fortified centre is likely to have been constructed, and it seems best to regard the remains as having been part of a sanctuary (Oakley 1995, 49).

Nel 1997 è apparso uno studio preliminare sulla grande cinta sannitica di Faicchio (Caiazza 1997), della quale in precedenza, grazie al Maiuri (1929), era nota solo l’acropoli. In seguito chi scrive mentre intensificava le ricognizioni sul versante meridionale e sulla valle telesina ed il Taburno, continuava la riflessione sull’insediamento sannitico sul versante meridionale del Matese, comparandolo a quello sul lato settentrionale.

L’indagine sull’insediamento sannitico è lungi dall’essere esaurita: di alcuni centri noti da tempo, come quello del Cila, non si hanno ancora piante e studi esaustivi, altri sono del tutto inediti, altri da scoprire. Tuttavia, considerato che per la fase sannitica abbiamo anche cospicua messe di dati derivanti dalla scoperta e studio delle necropoli, la situazione è certo migliore rispetto agli studi medievali sul territorio.

Per il medioevo notizie storiche possono essere raccolte nelle opere, antiche ma ancora utili del Ciarlanti e del Trutta, ed in quelle dei primi del secolo di R.A. Ricciardi e di Raffaele Marrocco, allora apparse nell’Archivio Storico del Sannio Alifano e contrade limitrofe. Altre notizie sono nelle opere di Dante B. Marrocco apparse negli ultimi decenni sull’Archivio Storico del Medio Volturno. Si tratta però di contributi di natura storica e talora di valore diseguale, mentre (sebbene l’Alta Terra di Lavoro sia ricca di insediamenti e fortificazioni medievali) l’indagine archeologica sugli insediamenti medievali è solo agli inizi. Non esistono né un programma di ricerche organiche e sistematiche né studi puntuali sui principali abitati giunti sino ai nostri giorni e tantomeno iante o pubblicazioni sui centri medievali falliti.

Uniche eccezioni la pianta delle fortificazioni sannitiche e medievali sul Monte Perrone di Roccavecchia di Pratella, la sannitica Callifae e la medievale Rocca di San Vito, edita in Caiazza 1986. Nella stessa opera sono anche foto pianta e sintetica descrizione dell’insediamento sannitico e medievale di Dragoni (antica Kupelternum).

Nel 2000 lo stesso autore ha pubblicato uno studio su La terra ed il castello di Gioia Sannitica (Caiazza 2000, a) nel quale però non ha potuto trovare spazio la pubblicazione della pianta ed, inoltre, un breve scritto su Il palazzo ducale e Piedimonte d’Alife medievale (Caiazza 2000, b).

Nel 2002 apparirà il volume In finibus Alifanis con contributi di D. Caiazza sulle Torri di Alife, cioè il castello normanno, e su Due vedute di Alife: nel quadro seicentesco di S. Sisto e nel regno di Napoli in prospettiva del Pacichelli e di L. R. Cielo su Fondazioni monastiche e incastellamento nel Matese campano fra Longobardi e Normanni.

Sono in corso di pubblicazione una memoria di D. Caiazza su Origine, evoluzione e futuro dei castelli nell’Alta Terra di Lavoro (Convegno Castelli in aria di Caiazzo 18-19 settembre 1999 in pubblicazione su Samnium) e La Terra di S. Maria in Cingla in Atti del convegno di studi di Ailano-Alife del 23-24 ottobre 1999.

Nell’ambito di tali ricerche sull’insediamento sannitico e medievale nel Matese meridionale si è proceduto al riesame dell’insediamento sannitico e medievale sul Castello di S. Angelo Ravecanina.

È costì stato possibile redigere la presente notizia preliminare nella quale si descrive prima l’insediamento medievale, come quello più evidente, e successivamente si esaminano i resti sannitici.

L’INSEDIAMENTO MEDIEVALE

Il Mastio

Sulla cima del colle sorge una torre quasi quadrata, con lieve, ma abbastanza alta, scarpa al piede. È realizzata con muratura calcarea per lo più di scapoli irregolari di piccolo e medie dimensioni, con inzeppature di tegoloni o mattoni, che talvolta costituiscono anche un esiguo corso.

È il mastio che, ridotto già quasi alla rovina totale, fu oggetto degli interventi del Martone dal 1965 in poi. Le condizioni precedenti risultano da qualche fotografia, in particolare una che documenta i lati orientale e settentrionale. Il primo appare conservato quasi completamente e sulla parete si leggono nella fotografia due strisce più scure, una specie di marcapiano, oggi meno visibili.

La parete nord nella fotografia è incisa da un crollo nell’angolo e priva del muro in alto, difatti oggi il muro nord del secondo piano è di spessore più esiguo, realizzato dal Martone in blocchi di tufo all’interno, mentre all’esterno il paramento è stato rifatto con pietrame di recupero.

Nella foto appare il vano della porta del primo piano. Ai suoi piedi è una vistosa erosione del paramento della parete nord. Il Martone provvide a risarcirla e a chiudere una breccia sita ai piedi dell’angolo NE evidentemente aperta per attingere acqua alla cisterna o meglio per trasformarla in ricovero per animali.

Nella fotografia compare anche, in fondo a destra, una specie di pilastro, chiaramente il cantone di SO. A sinistra dello stesso è uno squarcio che il Martone ci assicura essere stato prodotto da una cannonata nel ’43. Più o meno questo cantone è alto quanto la parete est.

Altri dati ci vengono dalle descrizioni del restauratore.

Questi, che aveva iniziato a studiare il dongione ben prima delle distruzioni dell’ottobre del 1943, e che seguì la sarcitura delle vaste brecce e la ricostruzione, individuò gli strati di muratura sovrapposti ed affiancati, ma anziché descriverli espressamente espone direttamente le conclusioni che ne trasse.

Egli parla di una prima fase con una torre a pareti perpendicolari sopraelevata da impalcato ligneo:

Originariamente furono costruiti in muratura di pietrame due vani terranei comunicanti di m 6,80 x 2,50 e 6,80 x 2,30, dimensioni interne, e di circa m 4 di altezza; ad essi si accedeva dal soffitto mediante una botola; tale configurazione e l’impossibilità di abitare locali cosifatti e così piccoli fanno pensare che il conte dovesse avere a disposizione una sovrapposta torre in legno.

Su punto non sappiamo se egli abbia individuato segni obiettivi: ad esempio uno strato di copertura che definiva la sommità della muratura e/o le buche qui lasciate dalle travature verticali dell’impalcato o se invece si sia rifatto a notizie più generali sulla prima fase delle torri normanne, applicandole alla nostra torre.

Il Martone parla poi di una seconda fase costruttiva:

In un secondo tempo si elevò la muratura sino all’altezza di m 11; uno dei vani terranei fu trasformato in cisterna, l’altro in terrapieno; sulla cisterna furono costruite due piccole crociere unite da una volte a botte; nel primo piano, all’altezza di sei metri, si apriva una porta d’ingresso cui si accedeva certamente con un ponte levatoio, in comunicazione con la terrazza sopra il secondo piano del fabbricato prospiciente; nel primo piano si ricavano due vani, rispettivamente di m 7 x 2,30, ricoperti da volte a botte: dette volte distrutte dai bombardamenti del 1943 ed anche quelle della cisterna, erano di tendenza ogivale. In alto per le considerazioni già fatte dovevano esserci altri piani in legno.

Vi è nella interpretazione qualche evidente ingenuità: i due vani terranei, espressamente definiti dal Martone inabitabili, ed accessibili solo tramite botole, sono nati evidentemente come cisterne dall’origine.

Per motivi che ci sfuggono (forse la cisterna perdeva o si era irrimediabilmente inquinata o magari a seguito di un crollo, o perché si temeva un cannoneggiamento dalla collina ad ovest) il vano occidentale fu poi riempito e la riserva d’acqua ridotta a quella del vano orientale. Non è chiaro poi come conciliare la prima descrizione delle volte della cisterna (due piccole crociere unite da una volte a botte) con la seconda (volte a botte di tendenza ogivale).

Chiara è invece la descrizione della terza fase:

In un terzo tempo, le mura furono rinforzate con forti scarpate in muratura di pietra calcarea, più irregolare della primitiva, fino all’altezza di m 7, sulle quali si appoggiava un contromuro esterno di m 0,50 di spessore. Con tali aggiunta i muri perimetrali, all’altezza di m 14,40, ossia all’altezza del pavimento del 3 piano, ebbero uno spessore di m 1,40.

Non vi è motivo di dubitare di tali affermazioni perché il Martone poté osservare su tutti i lati, e grazie ai crolli, le sezioni di muratura. Inoltre l’aggiunta della scarpa incongrua per un maniero normanno, e la rifoderatura, funzionale ad un innalzamento e, presumibilmente, ad un coronamento sporgente per difesa piombante, debbono essere un ammodernamento di età angioina.

Il Martone riferisce che da due documenti iconografici, da sue misurazione del 1919, e da dichiarazione di anziani non si ha notizia di costruzioni più alte del detto pavimento del terzo piano. Ma dalla misura dei calcinacci caduti attorno alla torre e nell’interno di essa, si è potuto calcolare il volume della muratura crollata e, considerando lo spessore terminale dei muri in m 0,80 uguale a quello terminale dei recinti non crollati, e considerando le riseghe di m 0,15 per piano esistenti nella torre, si può arrivare alla conclusione che essa doveva essere composta da una cisterna e da un terrapieno al piano terraneo, fino all’altezza di m 6,50; da due ambienti coperti da volte al primo piano, dell’altezza di m 4,60 e delle dimensioni di m 6,90 x 2,50 e m 6,90 x 2,30 (in quest’ultima esisteva la porta col ponte levatoio) e di cinque locali sovrapposti di m 3,30 cadauno e rispettivamente delle dimensioni di m 5,80 x 7,20; 6,10 x 7,50; 6,40 x 7,80; 6,70 x 8,10; 7 x 8,40 e certamente divisi da tramezzi in legno.

Sopra ci doveva essere una terrazza, probabilmente con parapetto merlato e ricoperto da un tetto di tegole.

I solai dal 3° al 5° piano, e rispettivamente pavimenti, ed anche quelli sopra le volte, dovevano esser di legno, perché mancano le impronte dei lastrici sulle mura perimetrali esistenti; il solaio sotto la terrazza, in legno, doveva sostenere un lastrico in calcestruzzo di cocciopisto perché se ne trovano i frammenti. Cosicché il maschio, tutto in muratura dopo la terza modificazione, raggiungeva la imponente altezza di circa trenta metri. Si accedeva ai piani superiori ed alla terrazza per mezzo di scalandroni di legno.

Naturalmente le considerazioni del Martone, seppure logiche, vanno accolte con prudenza, tuttavia una notevole altezza della torre è compatibile sia con il rilevante spessore delle murature, sia con la necessità di ricavare quanti più vani per ricovero di persone e derrate, sia per la comparazione con altre torri normanne (Marino in c.s.) e con le alte torri angioine, quali ad esempio quelle di Castelnuovo o di Maddaloni.

D’altro canto la torre mastia di Alife, oggi scomparsa, ai primi del XX secolo era ancora alta 17 metri fuori terra, nonostante avesse subito crolli (Caiazza in c.s.).

Si può aggiungere che il palazzo sito a nord della torre, doveva essere alto almeno 10-12 metri, pari ad un piano terra o seminterrato e due piani superiori, data la ristretta superficie e l’utilità di sfruttare l’altezza per la difesa.

Non è infatti scontato che il ponte levatoio della torre poggiasse sul terrazzo ed è anzi più probabile che raggiungesse un balcone a 1° o 2° piano del palazzo.

Ne consegue che la torre doveva sovrastare di parecchio il palazzo per cooperare alla difesa verso nord e, d’altro canto, nelle pareti superstiti del mastio si nota solo qualche feritoia il che lascia pensare che più cospicuo numero ve ne fosse nei piani sovrastanti.

Oggi al primo piano si leggono solo due saettiere nella parete sud, mentre il vano sopra la porta, oggi cieco, doveva servire anche per la fune che sollevava il ponte levatoio.

Al secondo piano le aperture sono probabilmente ricostruite in buona parte, se non in tutto, dal Martone. Certo le due lunghe feritoie della parete sud, che non appaiono sulla fotografia anteriore al restauro, furono da lui create per tirare su la scala lignea mobile che aveva installato per accedere al primo piano.

Egli trovò probabilmente i fori circolari nelle nicchie sulle pareti est e sud e si limitò a munirle di chiusure lignee. Si tratta di feritoie per spingarde o archibugi, come i sottostanti fori circolari, contorniati da mattoni, che si leggono pià o meno a livello di pavimento, sulle pareti est e ovest. Oggi questi non passano all’interno ma deve opinarsi che si tratti di archibugiere poiché certo sono inadatte ad archi o balestre né può trattarsi di scarichi, visto che siamo al coperto e che un canale di scarico, una latrina, è nella feritoia presso l’angolo SO del secondo piano. È evidente che si tratta di innovazioni o trasformazioni di precedenti saettiere. Esse dimostrano che il secondo piano era adibito a residenza e guardia.

Da notare la copertura a V rovescia di questi vani ricavati nello spessore delle mura per consentire ai difensori di avvicinarsi al filo esterno delle mura e tirare. È un sistema di soglia raro, poiché di solito è impiegato l’architrave monolitico, o la piattabanda o l’arco in muratura, e non sembra dovuto ad invenzione del Martone poiché lo stesso sistema si ritrova nella saetteria del muro della rocca, nella piccola torre ad ovest del muro di cinta e, probabilmente, nella torre di SO del castello di Alife.

Terrazzo di copertura e merli che oggi si vedono sono pertinenti alla ricostruzione degli anni 60 dello scorso secolo, come pure il camino, che preso probabilmente il posto di una feritoia o finestrella.

Resta da aggiungere che ai piedi della torre si leggono due corti muri ortogonali, uno ad ovest, altro a sud, dei quali non è chiara la funzione che potrà essere rivelata dallo scavo.

Ai piedi della parete est è un altro muro parallelo. Qui la scarpa del mastio si assottiglia verso l’angolo NE ed è probabile che la stessa fosse crollata già in antico e non ricostruita e che il Martone si sia limitato a rifare il paramento. Ai piedi si nota la base dell’originario muro di scarpa.

Probabilmente su tutti i lati, ma certo sul lato est, il piede della torre è più basso del livello attuale, infatti non si vede il punto di contatto tra la rocca affiorante e muratura mentre nel lato esterno della cortina parallela al lato orientale della torre si nota una posterula tompagnata, sita a livello inferiore dell’attuale piano di calpestio, attorno alla torre. A qualche metro di distanza, dopo l’angolo, sul muro che affaccia a sud è un’altra porta murata, larga un paio di metri. Anche qui solo lo scavo consentirà di sciogliere i dubbi, ma appare probabile che si tratti dell’accesso principale al cortiletto sito tra la torre ed il palazzo a nord della stessa.

Il Palazzo dei Conti

Nell’interno della rocca, a nord della torre sono poi i resti di un edificio appoggiato alla cortina ovest.

L’edificio era a pianta rettangolare, articolata su due vani paralleli e non si notano accessi o finestre sulla parete nord, oggi in parte ancora in piedi, e questo fa pensare che più in alto vi fossero saettiere e merli a dominio del sottostante cortile cintato nel quale erano la chiesa ed altri edifici. A quanto può notarsi doveva trattarsi di una semplice costruzione rettangolare, alta un paio di piani. L’edificio fu poi raddoppiato da altro sito ad est, innestato a quello descritto con angolazione leggermente diversa. Si tratta di un’altra sala rettangolare.

Poiché si impostava ad un livello più basso si conserva oggi un locale interrato sui lati sud, ovest e nord e dotato di vano di accesso, probabilmente non antico sulla parete est. Conserva tracce di una apertura tompagnata a sud e di un pennacchio di volta nell’angolo NO, finemente intonacato. Per queste caratteristiche e per l’assenza di tracce di intonaco a cocciopesto non sembra si tratti di una cisterna.

Sul vertice NE di questo edificio fu poi aggiunta una torre quadrata, vuota, per poter effettuare difesa fiancheggiante sui due lati scoperti del palazzo comitale: quello settentrionale e quello orientale.

Seguiva la cortina orientale sulla quale sono evidente le tracce di aggiunte o ricostruzioni, sino ai resti di una altra torre poco sporgente, meno conservata, sita sul vertice SE dell’edificio ed a cavalcioni della cortina esterna della rocca.

Salvo quanto potrà risultare dagli scavi, da migliore analisi delle fasi costruttive e da puntuale rilievo, pare possibile ipotizzare che in origine il solo doppio ambiente rettangolare ad ovest costituisse il palazzo. E forse allo stesso si appoggiava anche la cortina orientale della rocca. Poi fu aggiunto il vano ad est, con volta gotica, successivamente rafforzato con la torre quadrata, probabilmente pertinente all’intervento federiciano. Non sappiamo se un altro l’edificio rettangolare, appoggiato sempre sulla cortina ovest, del quale si coglie un angolo presso il campaniletto costruito dal Martone raggiungesse il vano rettangolare, descritto per primo, ma è probabile.

La Rocca

Attorno al dongione corre un perimetro difensivo costituito da un muro verticale, semplice, senza scarpa, torri, piegature o angoli, che ingloba il palazzo fortificato dal quale si accedeva alla torre. La cortina muraria scende in basso verso NE per poi piegare e risalire verso la torre mastia e costituisce una rocca.

Ad ovest, sud ed est le pareti della torre mastia sono contornate e strette da un muro di controtorre verticale, senza scarpa, ad esse parallelo ma curvilineo negli angoli, notevolmente alto – circa 7 metri – rispetto alla pendice esterna. Il muro fu rialzato chiudendo i varchi tra i merli preesistenti. Conserva alte saettiere verticali per arco, una delle quali oggi tompagnata, che certo non poteva essere utilizzata dall’attuale livello di calpestio. Deve perciò pensarsi che vi fosse un camminamento, probabilmente in legno, sul quale si schieravano i difensori dietro i merli.

Il livello attuale di calpestio, come già detto, non deve essere quello originario poiché sulla parete est del muro perimetrale alla torre si nota una posterula o arciera tompagnata e un andamento obliquo della muratura, poi sopraelevata, potrebbe accennare al parapetto di una scala che saliva dalla porta verso nord. Naturalmente solo lo scavo potrà chiarire se vi era questa scala, ma l’esistenza dell’apertura sembra certa ed è probabile che la stessa sia stata chiusa contemporaneamente ad altra sita a qualche metro di distanza ed a quella presso la torre cappella della quale diremo.

Il muro di controtorre, dopo aver circondato il dongione su tre lati ad ovest si raddrizza e corre verso il basso.

All’esterno si nota che poggia sulla roccia affiorante e che è stato rifoderato. Evidente è il punto di giunzione nel quale il muro di fodera proveniente da est e quello proveniente da ovest si incontrano senza legarsi. Poiché il paramento che viene da monte appoggia sull’altro è evidente che la muratura di fodera fu realizzata procedendo verso il basso, in direzione della porta inferiore, e poi risalendo verso la torre sino a raggiungere il punto di partenza.

Dopo un tratto il muro abbandona l’andamento rettilineo ed inizia a piegare morbidamente verso est, oltrepassa la porta che oggi dà l’accesso alla rocca e raggiunge più in basso prima una porta antica murata e poi una torretta semicircolare.

Una guancia della porta conserva tracce di intonaco e di un muro ortogonale alla cortina, probabilmente residuo di una torre che sormontava la porta.

Questa torre dovette essere abbattuta per realizzare in sua vece la torretta semicircolare, appoggiata all’esterno della cortina.

All’interno della torre è stata ricavata un’abside definita da un arco realizzato con pietra da taglio di origine sedimentaria che reca tracce di affreschi di fine XII o inizi XIII secolo effigianti, su precedenti affreschi, due santi. Questi se, come è probabile siamo della chiesa di S. Maria a Castello, con buona pace del Martone (che vuole si tratti di S. Lucia ed ha introdotto il culto di questa santa, ma non dice dove tragga la notizia dell’intitolazione) dovevano fiancheggiare un’immagine della Vergine.

Tornando a seguire il muro all’esterno è da dire che oltre la torre il muro continua per qualche metro, poi svolta con un angolo rifatto e corre verso sud. Questo tratto è stato ricostruito dal Martone, poiché dalla muratura e da fotografie preesistenti si ricava che qui il muro era crollato e si era ripristinato il pendio naturale. Ma è da credere che lo studioso abbia seguito la residua traccia della fondazione del muro crollato, e comunque l’andamento è condizionato da un lato dalla cappellina dall’altro dal raccordo al muro superstite e dunque praticamente obbligato.

Dopo un tratto lineare il muro prima curva come per risalire verso il mastio, poi dopo qualche metro si innesta ad un’alta cortina.

Ciò induce a pensare che il muro, in origine, con percorso simmetrico a quello del muro ovest doveva correre sino a saldarsi direttamente con l’estremo del muro curvilineo che fascia la torre.

Poi, la parte che si avvicinava alla torre fu abbattuta per cause belliche o naturali o forse quando fu costruito l’edificio fortificato sito a nord-est del mastio.

In ultima ipotesi può essere stato distrutto quando in questa zona fu effettuato un ampliamento che modificò nelle forme attuali il perimetro sud orientale della rocca. Infatti basta uno sguardo alla pianta per notare che, mentre il muro attorno e ad ovest della torre mastia ha andamento morbido, senza angoli netti e senza torri, ad est della torre è un organismo edilizio articolato su cortine ortogonali, con una torre quadrata nel vertice sud est e la semitorre della cappella su quello nord est.

La rocca attorno alla torre consta, dunque di due strutture collegate ma disomogenee per concezione ed esecuzione.

Infatti il muro curvilineo ovest e la sua prima prosecuzione oltre la cappella non trova facili confronti e sembra, ictu oculi, la trasformazione in muratura di una originaria palizzata, condotta in modo sommario a cingere la torre ed una porzione di spazio attorno, la bassa corte, sul modello normanno di motte and bailey.

Invece il complesso orientale ricorda, anche per l’imponenza, evoluti impianti “a cassero” organicamente disegnati con torri angolari a guardia di brevi cortine rettilinee ed è con ogni evidenza un innesto successivo.

L’originario impianto curvilineo aveva due accessi, quello superiore presso la torre ed altro a quota inferiore a fianco della cappella. Poi quest’ultimo fu chiuso a fil di muro e all’interno ricoperto da notevole riporto di materiali sicché l’accesso fu spostato più a monte, dove Martone ha ricostruito l’attuale porta. Egli la segna in pianta come porta antica ed è possibile che lo sia poiché no vi sono segni di altri accessi alla rocca, pare però strano che non sia guardata da una torre, della quale, in superficie perlomeno, non vi sono indizi. In ogni caso dovette essere realizzata dopo la chiusura delle altre due porte.

Il fatto che ambedue gli accessi leggibili nella cortina curvilinea siano oggi interrati lascia pensare che gli stessi furono abbandonati e chiusi dopo un evento che determinò la distruzione della cortina orientale e notevole innalzamento del livello interno al punto da sconsigliare la rimozione delle macerie. Questo evento potrebbe coincidere con gli assalti subiti dai Drengot ad opera di Re Ruggiero, o con un terremoto. Nella ricostruzione ad est del mastio e del palazzo fu aggiunta l’alta cortina rettilinea che corre verso est, terminante con una torre quadrata, alla quale il Martone ha solo ricostruito gli angoli e qualche brandello di paramento.

Questa torre conserva, proprio all’innesto con la cortina est, consunti blocchi di pietra sedimentaria che indicano uno spigolo al quale poi si congiunse la cortina. La pietra da taglio è dello stesso tipo di quella impiegata nell’arco della cappella e dovrebbe essere contemporanea a questa. Nella cortina si notano strette aperture, probabilmente antiche piccole feritoie più che bocche di luce ed aria per il sottostante locale oggi interrato. È immaginabile che torre angolare e cortina erano in origine più alte di almeno un piano.

Ai piedi della cortina sono resti di una scarpa aggiunta in epoca al piede successiva.

Dopo la torre quadrata sul vertice SE il muro cambia direzione e corre verso il mastio.

Le Mura del Borgo

Si può sin da ora affermare che una fitta schiera di abitazioni, composte da una cisterna o un vano seminterrato (stalla?) e da altro a livello superiore, si appoggiava al lato interno delle mura perimetrali.

Dopo questa prima schiera di case vi era a monte delle stesse una strada livellata nella roccia, larga un paio di metri. Sul lato opposto era un’altra schiera ininterrotta di case composte da ampi vani rettangolari affiancati, con accesso dalla strada, mentre il lato opposto al piano terra è semincassato nella roccia artificialmente spianata, risparmiando i setti divisori da sopraelevare. I soprastanti vani al primo piano affacciavano sul retro su un’altra stradina sulla quale, sul lato opposto, nuovamente seguivano case a schiera, sempre col piano terra scavato nella roccia. In tal modo secondo uno schema, sicuramente preordinato per allineamenti, quote e dimensioni costanti, più schiere di case circondavano progressivamente le pendici contribuendo alla difesa. Resti di abitazioni e muri sono anche fuori le mura, dispersi nella pineta.

Attorno alla torre ed alla rocca, sulla pendice grosso modo conica della collina, sono evidenti fitte tracce di abitazioni testimoniate da sbancamenti nella roccia e da resti di muri in pietrame di vario spessore e lunghezza, che per lo più definiscono semplici ambienti rettangolari. Il Martone nella sua pianta indica sentieri e resti di edifici, ma oggi l’area è densamente invasa da rovi e ginepri sicché senza un disbosco è impossibile rilevare ed analizzare il tessuto edilizio, che tuttavia è piuttosto fitto ed in qualche luogo fa sospettare l’esistenza di torri o case forti a causa del grande spessore di alcuni muri.

Assai più evidenti sono i resti della cinta muraria che cingeva il borgo con andamento avvolgente l’intera pendice conica del colle.

L’andamento del perimetro fu condizionato dalla decisione di recuperare una cinta sannitica preesistente, soprelevando in muratura i resti di mura poligonali sannitiche.

La muratura è in pietrame calcareo irregolare legato con buona malta ed è dappertutto leggibile, anche dove i crolli hanno rovinato alcuni tratti. Lo spessore è di 80-90 cm, l’altezza massima di circa m 7, merli inclusi.

L’impianto è di tipo ad avvolgimento totale, cioè circonda tutta la sommità correndo intorno alla rocca, ed ha un andamento grossolanamente ellittico. Il lato nord è quasi rettilineo e con torri che fuoriescono dalle mura, i restanti lati hanno andamento curvilineo.

Si tratta di una cinta in origine costruita senza torri. Vennero, poi, aggiunte piccole torri rettangolari, piene o vuote, probabilmente sempre di epoca normanna e poi un paio di torri tonde, sulla parete nord dove il pendio era minore.

Per comodità descriveremo sinteticamente la cinta a partire dalla torre circolare che domina il ripido stradone di accesso, sulla pendice settentrionale del colle.

Questa torre si addossa alla cinta ed è la più ampia, l’unica circolare, a base piena, e munita di beve scarpa. Si tratta con ogni probabilità di una torre di prima epoca angioina, forse costruita poco prima dell’epoca nella quale la cortina del cassero e la torre mastia vennero dotate di scarpa. Era destinata ad essere un punto di forza della difesa, con molte feritoie per arco al piano terra, molte altre al primo piano, con il solaio sorretto da travi lignee delle quali restano gli alloggiamenti.

Poco più a monte, nello stradone si notano pietre allineate che potrebbero essere i resti di una torre rettangolare poco sporgente dalla cortina, che dopo esser crollata fu smantellata completamente e sostituita dalla torre circolare. La cortina qui mostra un raddoppio.

Pochi metri più a monte, è una torre quadrata addossata alla cortina. Fu realizzata solo dopo la costruzione della cinta a protezione di un preesistente varco di accesso. Ha base piena, priva di scarpa, e al piano terra un’apertura verso est, dominata dalla cortina muraria sovrastante, che consente l’ingresso nella torre; qui giunti occorre svoltare ad angolo retto e si può valicare il muro di cinta, uscendo dalla torre. Vi era un solaio ligneo del quale si notano gli incassi delle travi ed altro doveva essere più in alto. Misura m 4 x 5 alla base.

Segue un breve tratto di cortina con ancora i merli antichi, rettangolari e senza feritoie. Poiché non vi sono tracce di un cammino di ronda in muratura è evidente che lo stesso doveva essere realizzato in legno sul margine del tetto delle case addossate alle mura.

La conservazione dei merli consente di conoscere l’altezza originaria, di circa m 7. Di seguito, invece, i crolli sono estesi e invasi dalla vegetazione e dal muschio e diventa difficile senza una pulitura persino rintracciare la torre successiva, quadrata, che sporge per 4 metri circa ed è lunga m 5. I muri sono spessi cm 70 e sono aderenti e non connessi alla cinta e dimostrano la successiva costruzione della torre.

Ancora più ad est sul muro settentrionale si apre un’altra porta. In origine era un semplice varco nel muro con il portone sbarrato da una trave del quale resta l’alloggiamento. Poi fu costruito un anvancorpo probabilmente una torre articolata in due vani a piano terra. Occorre uno scavo per verificare se si tratta dei resti di una torre a cavaliere della porta, con annesso corpo di guardia ma sin da ora si notano sotto il muro di spina pochi blocchi poligonali che potrebbero denunciare un varco più antico.

Poi la cortina cambia tipo di muratura, che appare fatta di piccole pietre, e scende ripidamente immedesimandosi con un palazzo del quale restano evidenti avanzi all’interno.

Il vertice NE del palazzo segna l’angolo delle mura che da qui in avanti presentano resti di mura poligonali sannitiche alla base.

Poco più avanti sono scarsi avanzi di una torre mezza tonda appoggiata alle mura, ma molto più piccola della prima descritta, piena e priva di scarpa.

Procedendo verso ovest si nota la porta di accesso medievale che, per il fatto che adotta la tipologia a corridoio obliquo, probabilmente ricalca un precedente ingresso sannitico.

Più ad ovest era una seconda porta, ma a semplice e stretto vano rettangolare, murata già in antico. Sembra, inoltre, di cogliere tracce del raddoppiamento del muro o forse di un accenno di scarpa aggiunta.

Le mura poligonali sannitiche sopraelevate si notano sino al punto nel quale la cinta svolta per risalire e formare la curvilinea cortina occidentale, costruita con muratura calcarea di pietre più piccole e fittamente connesse. In questo tratto, che termina sulla torre tonda a scarpa non vi sono torri ma solo una torricciola vuota con una porta volta all’esterno con architrave a V rovescia, che probabilmente grazie ad una scala lignea retrattile serviva per le sortite. Anche essa è aggiunta alla cortina e non coeva e non è testimoniata in altri castelli dell’area.

Fasi Costruttive e Datazioni

Da quando sin qui descritto, e con le cautele d’obbligo per chi deve utilizzare anche letture delle murature fatte da altri e non ha potuto compiere scavi, si possono ipotizzare le seguenti fasi:

Età longobarda:

L’abitato è a valle presso la grotta di S. Michele.

Età normanna:

    1. Una palizzata a collana sembra indiziata dal disegno della cortina curvilinea della rocca, alla stessa sarà stata contemporanea una torre pure in legno o, forse, la torre con base in muratura e sopraelevazione in legno di cui parla il Martone. Queste strutture dovrebbero risalire al primo arrivo dei Normanni sul colle e testimoniare la prima fase normanna, probabilmente anteriore alla stessa presa di Alife. Siamo dunque intorno alla metà dell’XI secolo.
    2. Seguì poi la costruzione delle mura e pare il caso di segnalare che impianti avvolgenti sono noti nella media valle del Volturno ad esempio a Rocca di Dragoni, Pietramelara, S. Felice Vecchio e Pratella (Caiazza a, in stampa). La stessa rioccupazione di una fortezza sannitica è consueta nel medio Volturno in epoca normanna, essendo testimoniata a Presenzano ed a Rocca di Dragoni, che la stessa tipologia muraria e le stesse piccole torri rettangolari piene (Caiazza 1986).
    3. Probabilmente negli anni delle guerre tra i Drengot e Ruggero II la torre mastia, la rocca, il palazzo comitale e borgo dovevano essere stati ricostruiti in muratura. Furono poi dotate di torri rettangolari poco sporgenti, appoggiate all’esterno della cortina del borgo durante quelle guerre, quando Rainulfo rafforzò le sue munitiones (Alessandro Telesino 11,12) o meno probabilmente nella successiva epoca federiciana.

Età federiciana:

S. Angelo fu castello imperiale e Federico II ne dispose la riparazione ed il potenziamento come risulta dallo Statutum de reparatione castrorum:

Castrum Sancti Angeli de Ripacanina reparari potest per homines ipsius terre, baronie Prata, Aylani et Rocce S. Viti.

È questa, con ogni probabilità, l’epoca nella quale viene ampliato il palazzo, rifatta la cortina orientale della rocca, realizzata la torre quadrata di SE, (poi ad est pareggiata da una cortina aggiunta), rinnovata la cortina tra il mastio e la torre di SE, e vengono rifoderati all’esterno il muro curvilineo e la cappella.

Età angioina:

Con l’aggiunta di basi scarpate e di soprastante muratura di fodera viene trasformata la torre mastia, dotandola presumibilmente di coronamento sporgente. Al piedi della cortina est viene aggiunta una scarpa. La torre rotonda con scarpa venne costruita forse al posto di una torre quadrata sita poco più ad est, demolita. Questi lavori poterono avvenire al principio o sotto la lunga dominazione dei Marzano, durante la quale cominciò l’esodo a valle.

Età aragonese:

Nell’età rinascimentale, con l’introduzione delle armi da fuoco, sulla torre mastia vengono realizzate le archibugiere e nel borgo probabilmente la grande conserva d’acqua, della capacità di 300.000 litri detta Cisternole, che fu forse l’ultima grande realizzazione prima dell’abbandono del borgo al servizio di quanti ancora vi abitavano.

L’abbandono e la decadenza:

Nel 1437 le mura e la popolazione che vi era asserragliata furono attaccate dalle soldatesche del cardinal Vitelleschi (Martone 29).

Poi il terremoto del 1456 diede il colpo di grazia all’insediamento già grandemente spopolato (Martone 29, Catalogo, 228-230). L’abbandono totale ed il saccheggio dei ruderi per riedificare a valle fecero il resto, mentre la collina veniva resa sterile e nuda dal pascolo intensivo.

Passarono secoli sinché il Martone, temendo che i danni inferti dalle granate americane non ne provocassero il crollo totale rinsaldò e recuperò la torre mastia e le mura della rocca e della cappella.

La torre ricaduta in abbandono con la sua morte, è in fase di restauro su iniziativa del Rotary Club Alto Casertano.

LE FORTIFICAZIONI SANNITICHE

Le mura megalitiche preromane sono rilevabili, a tratti discontinui, sotto la cinta del borgo nei versanti orientale e meridionale. Si tratta di brandelli di mura a grandi e medi blocchi incastrati senza legante alcuno, ma talora rinzaffati con malta sul paramento esterno al momento della soprelevazione medievale.

Le tracce sono evidenti a partire dal palazzotto sito all’angolo NE della cinta del borgo e sino alla porta orientale del borgo che pare abbia conservato la tipologia a corridoio obliquo di una precedente porta sannitica.

Le mura continuano anche oltre e si perdono allorquando la cinta medievale svolta sul versante occidentale del colle. Un occhio allenato però nota che all’esterno del muro medievale il pendio roccioso è inciso da un terrazzo, che è l’ultimo residuo di un distrutto muro sannitico (Caiazza 1986, 275). Il terrazzo, parallelo ed esterno al muro medievale, si legge facilmente sino a poco prima della torre circolare, poi il rimboscamento ne rende meno evidenti le tracce che continuano sino al palazzotto nell’angolo NE del borgo.

Il terrazzo è bene evidente sulla foto aerea anteriore al rimboscamento, sulla quale è rilevabile anche una traccia scura che scende sul versante ovest verso Colle Castelluccio, sicuramente artificiale.

Dovrà indagarsi se anche un’altra grande traccia semicircolare, che compare nella foto a solcare la pendice sud del colle di S. Angelo Vecchio, sia pertinente a resti di un terrazzo inciso poi recuperato dal sentiero del rimboscamento. Oltre una traccia scura, più ampia del solco bianco del sentiero forestale, sembra deporre in tal senso anche il parziale incasso in roccia del sentiero ed il fatto che lo stesso è a tratti protetto da un muro medievale. Purtroppo i lavori forestali hanno sensibilmente alterato i suoli e converrà essere prudenti fino a migliori verifiche. Che prò la cinta sannitica, ricalcata da quella medievale, fosse l’acropoli di un più vasto insediamento è sicuro. Infatti anche sul piccolo colle a nord dell’insediamento medievale, quello inciso dalla strada moderna che mena alle rovine, sono resti di terrazzo inciso.

Oltre la valletta nella quale si arresta la strada asfaltata, e nella quale è l’area di parcheggio, sul versante ovest del piccolo colle ricompaiono le tracce di due terrazzi incisi, il più basso dei quali oltrepassava l’attuale strada per continuare verso nord.

Infatti nella pendice occidentale della selletta, nel prato in pendio sotto la vigna, il terreno conserva l’evidente impronta di un terrazzo inciso davanti al quale correva il muro oggi qui completamente scomparso. Valicato il valloncello il muro raggiungeva la strada antica, l’attuale via sterrata che viene da Raviscanina, che conserva tracce di lastricato e di una canaletta laterale. Resti di muro megalitico sui due lati della strada ci accertano della presenza di una porta antica, fiancheggiata, sulla sinistra di chi saliva, da muro megalitico che poi corre a recingere il dolce pendio sovrastato dal Monte Saracino.

Sul bordo del pendio sono evidenti le tracce di almeno due terrazzi incisi con pochi, ma sicuri, resti di muro megalitico e spianamenti nella roccia che potrebbero essere pertinenti ad antiche abitazioni indiziate anche da numerosi tegoloni.

Il muro megalitico è evidente verso sud poi cura e corre verso Monte Saracino, ma ne sopravvive solo il terrapieno soprastante, mentre il nome Monte Saracino indizia la presenza di mura megalitiche anche sul colle (Caiazza 1985).

Non va poi dimenticato che presso la strada sono il pozzo e l’area che ha restituito ceramica a vernice nera, tegoloni e brandelli di intonaco. Qui era un edificio di età repubblicana (Di Cosmo 1989).

Non abbiamo sinora rinvenuto al chiusura ad oriente del perimetro difensivo, a causa anche della copertura boschiva.

D’altro canto per la presenza di terreni argillosi il muro potrebbe anche essere andato distrutto, ma la parola definitiva potrà essere detta solo dopo più accurate ricerche previa pulizia del sottobosco.

In ogni caso abbiamo le prove di una cinta megalitica che abbracciava il colle del castello di S. Angelo e proseguiva verso nord sino alla pendice montuosa del Matese inglobando le comode aree semipianeggianti a nord del colle.

La cinta poteva essere doppia come è indiziato dalle impronte dei terrazzi sulla pendice ovest del piccolo colle, dalle evidenze ai piedi della testimonianza del Martone dell’abbattimento di un lacerto di mura megalitiche da lui visto sulla china meridionale del colle che ospita il borgo.

Inoltre doveva essere intensamente abitata come è testimoniato dai rinvenimenti dei tegoloni, della ceramica a vernice nera e della moneta. A giudicare da tali rinvenimenti la vita dell’abitato cessò nel I secolo a.C. e, vista la radicale distruzione delle mura, deve pensarsi ad un evento bellico durante la Guerra Sociale, allorquando Silla rase al suolo le città attorno al Matese.

Un’estesa necropoli, con tombe databili dall’età arcaica sino all’epoca romana, si stendeva nella pianura di Sant’Angelo a dimostrare che sin dall’arrivo dei Sanniti questa zona fu densamente occupata ed abitata. È evidente che la cinta del Castello di Sant’Angelo fu il maggiore centro nel quale si addensò la popolazione, che certo in parte continuò a vivere, almeno in tempo di pace, anche in villaggi nella pianura. È probabile che sul colle vi fossero edifici di culto, uno dei quali indiziato da resti, come abbiamo detto (Caiazza 1987), sulla selletta presso la strada che sale da Raviscanina.

Date le dimensioni della fortificazione e le sicure tracce di vita all’interno non può trattarsi di una fortezza satellite, cioè gravitante e subordinata ad un altro insediamento maggiore, e deve pensarsi ad una città sannitica autonoma

Quanto al nome della stessa ci limitiamo ad osservare che se il brano di Livio tria oppida in potestatem venerunt Allifae Callifae Rufriumque, riferito alla conquista romana del 326 a.C., riflettesse rigorosamente la direttrice dell’offensiva e la sequenza geografica dei centri conquistati dovremmo dire che qui sorgeva Allifae.

Se Rufra era sui colli di Presenzano – Pentime, e Callife su quello di Roccavecchia di Pratella e se il territorio alifano confinava direttamente con quello di Callifae, questa era la sede di Alife sannitica.

Si potrà obiettare che tradizionalmente Allifae viene ubicata sul Cila o a Castello Matese (Nissen, von Duhn), ma si tratta di mere ipotesi del tutto indimostrate, motivate unicamente dalla prossimità di queste cinte, le uniche allora conosciute, alla città romana che continuò il nome di quella sannitica.

Orbene le mura di Alife romana distano 4,5 Km da quelle del Cila e 5,5 da quelle di Castello e 7,5 Km da quelle di S. Angelo d’Alife.

Qualche chilometro in più non è significativo poiché quello che è certo è che i Romani, distrutti gli abitati in collina e decisi a rifondarne uno solo, scelsero per la colonia che acquistò il territorio delle città distrutte un sito del tutto nuovo, in posizione grosso modo intermedia agli abitati scomparsi, ma senza preoccuparsi delle preesistenze.

D’altro canto è possibile, sulla scorta delle fonti e della toponomastica, ipotizzare un nome alternativo per la cinta del Cila, come tenteremo di dimostrare in altra sede.

BIBLIOGRAFIA

Caiazza 1985 – D. Caiazza, Saraceni Paladini e mura megalitiche sannitiche nella toponomastica del Sannio Molisano e del nord di Terra di Lavoro, in “Una grande abbazia altomedievale nel Molise: S. Vincenzo al Volturno, Atti del I convegno di studi sul medioevo Meridionale, Venafro – S. Vincenzo al Volturno 19/22 maggio 1982, Montecassino 1985.

Caiazza 1986 – D. Caiazza, Archeologia e storia antica del mandamento di Pietramelara e del Montemaggiore, I, Preistoria ed età sannitica, Isola del Liri.

Caiazza 1987Il territorio alifano in età sannitica, in “Il territorio alifano, archeologia arte e storia”, Atti del Convegno di S. Angelo d’Alife, 26 aprile 1987, Minturno 1990.

Caiazza 1994 – D. Caiazza, Il territorio tra Matese e Volturno, Atti del Convegno di studi di Capriati a Volturno del 18 giugno 1994, Castellammare 1997.

Caiazza 1997 – D. Caiazza, L’acquedotto ipogeo ed altre antichità di Faicchio, Piedimonte.

Caiazza 1997 – D. Caiazza, La terra e il castello di Gioia Sannitica, estratto.

Caiazza 2000 b – D. Caiazza, Il palazzo Ducale e Piedimonte d’Alife medievale, estratto.

Caiazza c.s. – D. Caiazza, Le torri di Alife, in “In finibus Alifanis”, Piedimonte Matese.

Caiazza c.s. – D. Caiazza, Origine evoluzione e futuro dei castelli nell’Alta Terra di Lavoro, in corso di stampa.

Caiazza c.s. b. – D. Caiazza, La Terra di S. Maria in Cingla, in corso di stampa.

CatalogoCatalogo dei forti terremoti in Italia dal 46 a.C. al 1980, Bologna 1995.

Ciarlanti – G. V. Ciarlanti, Memorie istoriche del Sannio, Campobasso 1823 (II edizione)

M. Conta – G. Conta Haller, Ricerche su alcuni centri fortificati in opera poligonale in area campano-sannitica, Napoli 1978.

Di Cosmo 1989 – L. Di Cosmo, Ricerche archeologiche nell’area di Rupecanina, in Annuario 1989 Associazione Storica del Medio Volturno, Piedimonte Matese.

F. von Duhn, Italiche Graberkunde, I, Heidelberg 1924.

Falcando – H. Falcando, Historia de rebus gestis in regno Siciliae.

La Regina – A. La Regina, I sanniti, in “Italia. Omnium Terrarum parens”, Milano 1989.

Maiuri 1927 – A Maiuri, Piedimonte d’Alife in N.S. 1927.

Maiuri 1929 – A. Maiuri, Faicchio, in Notizie Scavi 1929.

Mancini 1998 – N. Mancini, Raviscanina Ricerche storiche, Piedimonte Matese.

Marino c.s. – L. Marino, Le opere fortificate normanne progetto per una ricerca nel Molise, in La contea normanna di Loritello, Campobasso.

Marrocco – R. Marrocco, Memorie storiche di Piedimonte d’Alife, Piedimonte 1926.

Martone – G. Martone, Rupecanina, Napoli 1981, II edizione postuma.

Martone 1966 – G. Martone, Scavi e restauri a S. Angelo d’Alife, in Archivio storico del Sannio Alifano (ASSA).

Martone 1968 – G. Martone, Consolidamento e sistemazione del maschio del castello di Rupecanina in ASSa.

Mommsen – T. Mommsen, Corpus Inscriptionum Latinarum, IX.

Nissen – V. N. Nissen, Italische landeskunde, II, 2 Berlino 1902.

Oakley 1995 – Sp. Oakley, The hills forts of the Samnites, Cambridge.

Ricciardi – R. A. Ricciardi, La valle di Pietrapalomba, Caserta 1912.

Trutta – G. Trutta, Dissertazioni Istoriche delle antichità alifane, Napoli 1776.