Vide e credette

XII

"VIDE E CREDETTE"

Malgrado venti secoli di appassionata lettura credente e due di occhiuta, spesso sospettosa, lettura "storicocritica", si ha l'impressione - che è poi certezza, fondata sull'esperienza quotidiana dell'indagatore - che le parole greche del Nuovo Testamento siano ancora lontane dall'avere rivelato tutta la loro profondità e tutti i loro segreti. Si ha l'impressione, cioè, che, dietro quelle antiche espressioni, ci siano ancora molte cose da capire e da portare alla luce. Così che, agli scavi archeologici, può e deve accompagnarsi lo scavo sempre più approfondito dentro testi la cui inesauribilità è tra gli aspetti che più inducono a convincersi di un Mistero che vi stia dietro.

In questo capitolo e in quelli seguenti, ci confronteremo con uno di quei casi in cui, probabilmente, la comprensione sinora avuta di certe espressioni va mutata, aprendo nuove prospettive. E questo proprio nel cuore della fede, proprio al suo inizio stesso, il mattino di Pasqua.

La fede in Gesù come il Cristo atteso da Israele nasce infatti, per tutti, con le apparizioni del Risorto. Per tutti, tranne che per uno: per il discepolo prediletto, per colui che "il Maestro amava", per il giovane Giovanni. È costui stesso che nel suo vangelo ci racconta come, entrato con Pietro nel sepolcro "vuoto" (ma che, poi, evidentemente, vuoto non era, visto che vi era abbastanza da indurre alla fede), "vide e credette" (Gv 20,8): Eîden kaì epísteusen, nell'originale greco. Un'espressione sintetica, lapidaria, che segna un momento solenne: è in quell'istante, in effetti, che nasce la fede, che nasce il cristianesimo stesso.

Ma perché Giovanni "credette", a differenza di Pietro che pure, prima di lui e poi accanto a lui, vide le stesse cose e sembrò restare perplesso, senza "ancora avere compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti", come aggiunge Giovanni stesso (20,9) e come conferma Luca, 24,12 ("(Pietro) tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto")? Perché a Giovanni basta ciò che ha scorto, appena entrato nel sepolcro, mentre a Simone, che pure è capo del collegio apostolico, occorre una speciale iniziativa del Risorto stesso, per stare a Luca nella finale del resoconto dei discepoli sulla via di Emmaus: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone" (Lc 24,34)?

È una domanda di straordinaria importanza perché, lo dicevamo, dalla sua risposta dipende il momento stesso della nascita della fede. Eppure, è sorprendente constatare come si sia sorvolato proprio su questo versetto decisivo.

Ci si accontenta, così, di spiegazioni che in realtà non spiegano nulla come (citiamo un solo esempio, tra i più recenti e diffusi) la nota che a quel "vide e credette" appone la traduzione ecumenica della Bibbia: "Il discepolo vede nella tomba vuota e nelle bende piegate con cura il segno che lo conduce a riconoscere, nella fede, la risurrezione di Gesù".

Siamo ben lontani da una spiegazione soddisfacente: la "tomba vuota" è tutt'altro che un segno inequivocabile, tant'è vero che non è bastata a far intuire la verità alle donne, le quali, "entrate (nel sepolcro) non trovarono il corpo del Signore. Mentre erano incerte per questo..." (Lc 24,4). La sola scomparsa del cadavere autorizzava tutte le supposizioni, a cominciare dal furto, come pensa - piangendo, e per stare allo stesso Giovanni - Maria di Magdala (20,11 ss.).

Non è poi ammissibile l'altro elemento della presunta spiegazione: le "bende piegate con cura" come "segno" della Risurrezione, evidentemente sul presupposto, da parte dell'autore della nota, che un ladro avrebbe lasciato tutto in disordine e non avrebbe perso tempo a mettere ordine. Non è ammissibile, innanzitutto, perché proprio le "bende" (come dice, con scarsa precisione, la nota) erano, stando alla traduzione della Cei - che è il testo utilizzato per l'edizione italiana della traduzione ecumenica, di cui si sono riprodotti solo i commenti - quelle "bende", dunque, erano gettate "per terra", come Giovanni ripete per due volte (20,5.7). In apparente ordine ("piegato in un luogo a parte", Gv 20,7, per dirla con la stessa traduzione) era semmai "il sudario che gli era stato posto sul capo" (ibid.).

Dunque, la tomba presentava un aspetto insieme ordinato e disordinato. Sia la sparizione del cadavere, sia l'aspetto delle vesti funerarie sembravano lanciare un messaggio ambiguo, aperto a tutte le interpretazioni. Tale, comunque, da non giustificare affatto quel "vide e credette".

Oltretutto, dal contesto sembra chiaro che quel "credette" non risale al fatto che la tomba fosse vuota, ma piuttosto al fatto che c'era là dentro - in quell'alba della prima domenica della storia - "qualcosa" che indusse di colpo Giovanni a credere. Divenendo, se così possiamo dire, il primo cristiano. Che cos'era quel "qualcosa"? È possibile, scrutando i testi, riuscire a intravedere quali siano stati quei "segni" tanto inconfutabili?

Occorre riconoscere (come già abbiamo fatto e faremo) che l'annuncio primitivo del cristianesimo, quale ci appare dal Nuovo Testamento, sembra quasi dimenticare la tomba. Il fatto che sia restata vuota non entra nel Credo e tutta la prima predicazione insiste, come prova di verità, solo sulle apparizioni. Solo nel vangelo di Luca vi è l'episodio narrato anche da Giovanni, ma vi si cita soltanto Pietro: "Pietro corse al sepolcro e, chinatosi, vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto" (Lc 24,12).

La tradizione cui Luca ispira il suo vangelo è quella che ha raccolto da Paolo: in essa, evidentemente, l'episodio era raccontato in modo abbreviato, non citando Giovanni (probabilmente perché ancora troppo giovane al momento dei fatti e, dunque, non abbastanza autorevole), ma confermando quanto nel quarto vangelo è detto, a proposito degli effetti di perplessità e non di fede procurati su Pietro dalla visita al sepolcro.

Si noti, tra l'altro, nel brano di Luca appena citato, quel "chinatosi", che è esattamente il "chinatosi" di Giovanni, che lo riferisce a se stesso, ma che ha lo stesso valore: quello, cioè, di una sorta di "frammento" di ricordo diretto, restato nel racconto fatto dagli stessi protagonisti. È un altro dei tanti segnali, sparsi per tutto il vangelo, che rinviano - all'improvviso e senza alcun sospetto di premeditazione - a una testimonianza diretta e oculare, a un elemento cronachistico.

Ma è tra i segnali di verità anche perché rispecchia una realtà che l'archeologia ha confermato: come tutte quelle dei notabili d'Israele, anche la tomba di Giuseppe d'Arimatea era scavata nella roccia e la sua apertura era più bassa della statura di un uomo. Così che, per entrarvi o anche solo per guardarvi dentro, occorreva "chinarsi": proprio come dicono il vangelo di Luca e quello di Giovanni.

Tra l'altro, tra le tracce e gli indizi di nascosto accordo tra i vangeli, c'è un "segnale" nello stesso capitolo 24 di Luca dove, al versetto 12, per brevità o per il motivo che dicevamo (l'età di Giovanni, in un mondo dove aveva valore solo la testimonianza di uomini maturi) non si parla che di Pietro accorso al sepolcro. Ma ecco che, poco sotto, i due discepoli che se ne vanno verso Emmaus e parlano con lo Sconosciuto, dicono: "Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato le cose proprio come le donne avevano detto, ma lui non l'hanno trovato!" (Lc 24,24). I verbi al plurale ("alcuni dei nostri" è il soggetto) non possono spiegarsi con il solo Pietro di cui lo stesso evangelista aveva parlato e sembrano confermare che accanto a lui c'era qualcun altro, visto che non vi è cenno di altre visite al sepolcro da parte di uomini (delle donne gli evangelisti parlano sempre a parte, e distinguendo con chiarezza).

Comunque sia, soltanto quando Giovanni - dopo che i Sinottici avevano già scritto, secondo il parere comune degli studiosi - redasse il suo vangelo, dell'episodio fu data la versione "completa"; e fu data dall'evangelista-apostolo tesso, che dice di avervi partecipato in prima persona.

La riportiamo qui, quella versione giovannea, come al solito nella traduzione della Conferenza episcopale italiana.

C'è, innanzitutto, l'antefatto, che non è possibile trascurare e che quindi richiamiamo al lettore, anche se la nostra analisi si eserciterà su quanto segue: "Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!"" (Gv 20,1 ss.).

Ed ecco subito di seguito il passo che ci interessa esaminare, perché in esso è contenuto l'enigma troppo spesso trascurato (che cosa vide Giovanni?): "Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette" (Gv 20,3-8). Così, dunque, la Bibbia "ufficiale" dei cattolici italiani; la quale però qui (alla pari, del resto, di tutte o quasi le altre traduzioni sia in Italia, che nel mondo intero) sarebbe imprecisa, equivocando a tal punto sulla lettera e lo spirito dell'evangelista da rendere incomprensibile le ragioni di quel "vide e credette" che termina in modo folgorante la prima visita a ciò che diventa da quel momento il Santo Sepolcro.

La dimostrazione (se davvero è tale) che qui i traduttori cadrebbero in gravi abbagli, è proposta da un prete diocesano laziale, un "dilettante", don Antonio Persili, anziano parroco a Tivoli. Sin da seminarista, racconta, fu ossessionato da quel eîden kaì epísteusen: che cosa vide Giovanni per credere? Insoddisfatto delle spiegazioni tradizionali (e forse non a torto, come vedremo) don Persili per decenni si è arrovellato, cercando se per caso, sotto quelle poche parole greche, Giovanni avesse dato indicazioni su ciò che c'era davvero là dentro.

Convinto, a un certo momento, di avere avuto l'intuizione giusta, l'approfondì sempre di più, decidendosi finalmente nel 1988 ad esporre in un libro i risultati delle sue ricerche.

Il volume, dal titolo Sulle tracce del Cristo risorto (sottotitolo: Con Pietro e Giovanni testimoni oculari), non trovò un editore e, quindi, don Persili lo pubblicò a sue spese. Un esemplare fu inviato dall'autore anche al sottoscritto che, riservandosi di esaminarlo un giorno o l'altro, lo depose sui suoi scaffali. Tra migliaia di altri libri, giacque dimenticato il libretto, dall'apparenza modesta, del vecchio parroco di Tivoli (scambiato a prima vista anche da chi scrive, occorre pur confessarlo, per uno dei tanti apologeti naïfs che inviano in continuazione a studiosi e giornalisti le loro presunte, quasi sempre inservibili, "dimostrazioni scientifiche" della verità dei vangeli).

Avendo recuperato il testo dimenticato quando si trattò di scrivere questo libro e avendolo studiato con attenzione, eccoci a proporre alcune sue ipotesi come attendibili. In ogni caso, seriamente documentate da uno che, come questo sacerdote, dimostra di maneggiare molto bene il greco del Nuovo Testamento e di avere studiato e ricostruito come pochissimi altri le tecniche, gli usi, i costumi funerari nell'Israele antico. Un aspetto, questo, essenziale per cercare di capire che cosa "vide" Giovanni e, in generale, per saggiare la storicità dei racconti di passione, morte, risurrezione; e aspetto, invece, a tal punto trascurato che, nell'immensa bibliografia biblica, sembra proprio che manchi un'opera specifica approfondita che lo affronti. Don Persili lo ha fatto, con risultati che sembrano convincenti.

Intendiamoci: la diffidenza degli specialisti "accademici" per i "dilettanti" non è sempre ingiustificata, visto che questi ultimi spesso procedono senza le doverose cautele e, in genere, vogliono provare troppo. Anzi, mentre tentazione dell'esperto cattedratico è il minimizzare, tentazione del dilettante è l'esagerare. Don Persili non sembra sfuggire, per alcuni aspetti, a questa regola, credendo di potere, grazie alle sue ricerche, "dimostrare in modo inequivocabile la storicità della Risurrezione".

Ma se un risultato simile fosse davvero possibile, la fede si dissolverebbe nella ragione umana e, dunque, non avrebbe più all'origine la misteriosa e gratuita iniziativa divina. Il massimo cui può giungere l'indagatore dei vangeli è mostrare non che i versetti del Nuovo Testamento sono veri (se così fosse, tutti dovrebbero accettarli e la fede non sarebbe più tale, anche perché le mancherebbe la libertà, l'aspetto di "scommessa"), ma che sono verosimili. Così che accettarli sia ragionevole (anche se non razionale, perché la ragione, pur importante - anzi, componente essenziale, assieme alla volontà, dell'atto di fede - non può esaurire la fede stessa senza dissolverla, poiché la metterebbe in pieno potere dell'uomo e toglierebbe a Dio la sua iniziativa prioritaria e indispensabile).

Oltre a pretendere troppo dagli sforzi degli uomini, l'ottimamente intenzionato don Persili, nella seconda parte del suo studio, si sforza di mostrare che i racconti di passione, morte, sepoltura, risurrezione come egli li ha ricostruiti confermerebbero la verità - che per lui è indiscutibile - della Sindone di Torino. La quale, a sua volta, confermerebbe la verità dei racconti evangelici di risurrezione.

Pur con tutto il nostro interesse, il nostro rispetto - anzi, la nostra venerazione - per quella Immagine (che gli esami, gravemente sospetti, al radiocarbonio, hanno reso ancora più misteriosa, ben lungi dal dissolverne l'enigma), siamo convinti che essa non possa servire da argomento probante, erga omnes, in una ricerca come la nostra.

Noi, qui, in ogni capitolo, cerchiamo di confrontare ciò che i vangeli dicono con ciò che dicono documenti storici e oggetti archeologici "neutri", che cioè tutti possano e debbano accettare, quale che sia la loro credenza o la loro incredulità. Come "documento", la Sindone non appartiene solo alla storia ma anche alla religione. Il suo carattere anche di reliquia, che la rende venerabile dal credente, la rende invece sospetta (anche se in modo ingiustificato: ma questa è, purtroppo, la situazione) agli occhi di chi pretende di discutere solo su fatti e oggetti in cui la devozione non entri. Va però detto che le benemerite, appassionate ricerche sindonologiche - ricerche "multidisciplinari" per eccellenza, poiché coinvolgono le scienze umanistiche e le scienze naturali - hanno contribuito non poco ad approfondire aspetti preziosi per chiarire il quadro storico del Mistero Pasquale narrato dai vangeli. Don Persili, lo dicevamo, proprio grazie all'interesse per la Sindone mostra di essere divenuto un vero esperto nelle tradizioni funerarie ebraiche. Ed è questa sua competenza che gli permette di ricostruire come Gesù sia stato deposto nel sepolcro.

Per lo "scavo" storico nei personaggi di Giuseppe d'Arimatea e di Nicodemo (il primo, come si sa, è ricordato da tutti gli evangelisti, il secondo solo da Giovanni) rinviamo ai capitoli che abbiamo dedicato loro in Patì sotto Ponzio Pilato? Qui ci interessa aggiungere quei particolari sul loro pietoso lavoro di sepoltura del Suppliziato che possano servire almeno a intuire "che cosa" sia avvenuto nel sepolcro e quali tracce la risurrezione abbia lasciato.

Seguendo la ricostruzione, attenta ai testi e alle fonti, del Persili, la preparazione del corpo fu accurata e completa, non affrettata e provvisoria come abitualmente si dice.

Mancava il tempo, mentre incombeva l'inizio del sabato, quando ogni lavoro doveva cessare? In realtà i due uomini, entrambi grandi notabili in Israele, dovevano disporre di molti servi che certamente portarono con sé e che i due coordinarono efficacemente perché le cose si svolgessero al meglio.

Quanto alle ore disponibili, dovettero essere di più di quanto si pensi. Se Gesù morì, stando ai Sinottici, all'ora nona (le tre del pomeriggio), stando alle stesse fonti le operazioni per la sepoltura iniziarono più tardi, quando era ormai "venuta la sera" (Mt 27,57; Mc 15,42) e occorreva non attardarsi per evitare di essere sorpresi dall'inizio del sabato. Ma questo, come sembrano ignorare molti, non cominciava col tramonto del disco solare: stando ai rabbini, quando in cielo appariva la prima stella si era ancora al venerdì, alla seconda si era tra il venerdì e il sabato e solo alla terza stella cominciava il giorno sacro del riposo.

Le tristi operazioni cominciarono con l'acquisto del "lenzuolo" da parte dell'Arimateo, stando al racconto di Marco (15,46). In realtà, la traduzione della Cei ("egli, allora, comprato un lenzuolo...") neppure qui sembra accettabile. La parola sindón può anche, in senso secondario e particolare, significare "lenzuolo" (al pari di "vela", "vessillo", ecc.), ma in senso primario e generico significa "tessuto di lino", "tela". Non esistevano lenzuoli funerari da comprare magari in apposite botteghe: i morti erano sepolti dagli ebrei con le loro vesti. Ciò che Giuseppe d'Arimatea comprò - o, meglio, quasi certamente fece comprare da qualche suo servo - fu un rotolo di tela di alcuni metri, di cui si servì per ritagliare i pezzi necessari per ricoprire, avvolgere, legare il corpo di Gesù, completamente nudo (tranne, forse, uno straccio alle reni: omaggio romano alla pudicizia ebraica) poiché le sue vesti, come per ogni condannato a morte, erano finite ai soldati.

Dal rotolo di tela fu ricavato subito il lenzuolo in cui il Crocifisso fu avvolto, come specificano tutti e tre i Sinottici, mentre Giovanni dà questo per scontato e passa alla fase successiva: "e avvolsero (il corpo) in bende..." (19,40).

L'avvolgimento previo nella tela (la "sindone") era necessario per due motivi: innanzitutto, per evitare di toccare direttamente il cadavere e non incorrere così in una grave impurità; in secondo luogo, per una prescrizione della Legge che imponeva di non lasciare disperdere il sangue dalle ferite di chi fosse morto in modo traumatico. Si sa che, per l'ebraismo, il sangue rappresenta l'uomo stesso: andava dunque in qualche modo "salvato", tanto che si imponeva di seppellire con il morto anche le zolle di terra su cui qualche goccia fosse caduta.

Anche alla luce di ciò, c'è, in questi racconti di sepoltura, un segno ulteriore di credibilità storica a silentio: non si dice, cioè, che il cadavere di Gesù sia stato lavato, come era invece d'uso - anzi obbligatorio, stando ai rabbini – in Israele. Persili: "Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo non hanno lavato e unto con l'olio il corpo di Gesù ma lo hanno avvolto semplicemente in una tela non perché non avevano tempo a disposizione; non perché non avevano l'acqua, che avrebbero potuto procurarsi con facilità; neanche perché pensavano di procedere solo a una sepoltura provvisoria; e, di certo, nemmeno perché non amavano e non rispettavano abbastanza Gesù. Se non l'hanno fatto, è perché obbedivano a una precisa prescrizione della Legge, che imponeva di seppellire il defunto per morte violenta con il suo "sangue di vita", senza detergerlo. E solo degli esperti della Legge, come quei due, potevano conoscere questa particolare prescrizione". Dunque, non solo in ciò che fecero, ma anche in ciò che non fecero si nasconde un segnale di attendibilità storica.

Riservandoci comunque di ritornare, nei prossimi capitoli, su molti particolari che esigono ulteriore spiegazione e approfondimento (non dimenticando, però, che nostro scopo principale è, cercare di capire quel "vide e credette" di Giovanni), ecco la sintesi della ricostruzione data da Antonio Persili: " Il corpo di Gesù fu preparato per la sepoltura nel seguente modo. Prima fu avvolto in una grande tela (la sindón) con il duplice scopo di non toccare il cadavere con le mani nude e di non disperdere il sangue. Quindi, si passò alla seconda operazione di avvolgere e legare il corpo con le fasce (othónia) versando nel frattempo, all'interno e all'esterno di esse, profumi. I Sinottici, non avendo parlato dell'intervento di Nicodemo con i suoi aromi, non ne descrivono l'impiego, anche perché non avevano intenzione di dire per filo e per segno come era stato preparato il corpo di Gesù per la sepoltura; mentre Giovanni, usando il verbo entafiázo, che significa esattamente "preparare un cadavere per la sepoltura" e non semplicemente "seppellire", descrive con precisione come essa di fatto avvenne. Questa operazione di avvolgimento e di legamento fu preceduta e seguita dall'applicazione di due "sudari": il primo all'interno della sindone, dove svolgeva la funzione di mentoniera; il secondo all'esterno, per completare l'avvolgimento e il legamento, come vedremo meglio. E il tutto fu fatto al di fuori del sepolcro, sulla pietra da unzione che faceva parte del complesso sepolcrale di proprietà di Giuseppe".

Quando tutto fu finito, il corpo fu trasportato all'interno, sul banco scavato nella roccia. Poi, per dirla con Matteo, "fu rotolata una grande pietra sulla porta del sepolcro" (27,60). Dopo il silenzio del sabato (questo giorno inquietante e misterioso forse più di ogni altro: quello in cui il Padre si "nasconde" a tal punto che il Figlio giace inanimato in una tomba), verrà la sorpresa sbalordita del "terzo giorno". È ciò che esamineremo, tra molte altre cose, nel prossimo capitolo.