Papini_Nascita di Gesù

Giovanni Papini, Storia di Cristo,

IV edizione corretta, 1921, capitoli I-V, pp. 1-15.

LA STALLA

Gesù è nato In una Stalla.

Una Stalla, una vera Stalla, non e il lieto portico leggero che i pittori cristiani hanno edificato al Figlio di David, quasi vergognosi che il loro Dio tosse giaciuto nella miseria e nel sudiciume. E non è neppure il presepio di gesso che la fantasia confettiera de' figurinai ha immaginato nei tempi moderni; il presepio pulito e gentile, grazioso di colore, colla mangiatoia linda e ravviata, l'asinello estatico e il compunto bue e gli angeli sul tetto col festone svolazzante e i fantoccini da re coi manti e dei pastori coi cappucci, in ginocchio a’ due lati della tettoia. Codesto può essere il sogno dei novizi, il lusso dei curati, il balocco dei bambini, il «vaticinato ostello» d'Alessandro Manzoni ma non è davvero la Stalla dov'è nato Gesù.

Una Stalla, una Stalla reale, è la casa delle Bestie, la prigione delle Bestie che lavorano per l'Uomo L’antica, la povera Stalla dei paesi antichi, dei paesi poveri, del paese di Gesù, non è il loggiato con pilastri e capitelli, né la scuderia scientifica dei ricchi d’oggidì o la capannuccia elegante delle vigilie di Natale. La Stalla non è che quattro mura rozze, un lastricato sudicio, un tetto di travi e di lastre. La vera Stalla è buia, sporca, puzzolente: non v’è di pulito che la mangiatoia, dove il padrone ammannisce fieno e biadumi.

I prati di primavera, freschi nelle serene mattine, ondanti al vento, soleggiati, umidi, odorosi, furon falciati; tagliate col ferro l’erbe verdi, l’alte foglie fini; recisi insieme ai bei fiori aperti: bianchi, rossi, gialli, celesti. Tutto appassì, seccò, prese il colore pallido e unico del fieno. I manzi trascinarono a casa la spoglia morta del maggio e del giugno.

Ora quell'erbe e quei fiori quell'erbe fatte aride, quei fiori che sempre onorano, son lì nella mangiatoia per la fame degli Schiavi dell'Uomo. Gli animali l’abboccano adagio coi grandi labbri neri e più tardi il prato fiorito torna alla luce, sullo strame che serve da letto, mutato in concio umido.

Questa è la vera stalla dove Gesù fu partorito. Il luogo più Lurido del mondo fu la prima stanza dell'unico Puro tra i nati di donna. Il Figlio dell'Uomo, che doveva esser divorato dalle Bestie che si chiamano Uomini, ebbe come prima culla la mangiatoia deve i Bruti digrumano i fiori miracolosi della Primavera.

Non per caso nacque Gesù in una Stalla, il mondo non è forse un’immensa Stalla dove gli uomini inghiottono e stercano? Le cose più belle, più pure, più divine non le cambiano forse, per infernale alchimia, in escrementi? Poi si sdraiano sui monti del letame e chiamano ciò «godere la vita».

Sulla terra porcile precario dove tutti gli abbellimenti e i profumi non posson nasconder lo stabbio, è apparso una notte Gesù partorito da una Vergine senza macchia, di nulla armato che d'innocenza.

I primi che adorarono Gesù furono animali e non uomini.

Fra gli uomini cercava i semplici, tra i semplici i fanciulli — più semplici dei fanciulli, più mansueti, lo accolsero gli Animali domestici. Benché umili, benché servi di esseri più deboli e feroci di loro, l'Asino e il Bove avevan visto inginocchiarsi dinanzi a loro le moltitudini.

Il popolo di Gesù, il popolo santo che Jahvé aveva liberato dalla servitù dell'Egitto, il popolo che il Pastore aveva lasciato solo nel deserto per salire a colloquio coll’Eterno, aveva forzato Aronne a fargli un Bove d'Oro per adorarlo.

L'Asino era consacrato, in Grecia, ad Ares, a Dioniso, ad Apollo Iperboreo. L'Asina di Balaam aveva salvato colle sue parole il profeta, più savia del savio; Ochos, re di Persia, pose un Asino nel Tempio di Fta e lo fece adorare.

Pochi anni prima che nascesse Cristo il suo futuro padrone. Ottaviano, scendendo verso la sua flotta, la vigilia della battaglia di Azio, incontrò un asinaio col suo somaro. La bestia si chiamava Nicon, il Vittorioso, e dopo la battaglia l'imperatore fece innalzare un asino di bronzo nel tempio che ricordò la vittoria.

Re e popoli si erano fin allora inchinati ai Bovi ed agli Asini. Erano i re della terra, i popoli che prediligevano la Materia. Ma Gesù non nasceva a regnar sulla terra né ad amar la materia. Con lui finirà l'adorazione della Bestia, la debolezza di Aronne, la superstizione di Augusto. I bruti di Gerusalemme l’uccideranno ma intanto quelli di Betlemme lo riscaldano coi loro fiati. Quando Gesù giungerà, per l'ultima Pasqua, alla città della Morte, cavalcherà un asino. Ma egli è profeta più grande di Balaam, venuto a salvare tutti gli uomini e non gli ebrei soli, e non rivolterà dal suo cammino anche se tutti i muli di Gerusalemme raglieranno contro di lui.

I Pastori

Dopo le Bestie i Guardiani delle Bestie. Anche se l’Angelo non avesse annunziato la grande Nascita essi sarebbero accorsi alla Stalla per vedere il Figlio della Straniera.

I Pastori vivono quasi sempre solitari e distanti. Non sanno nulla del mondo lontano e delle Feste della Terra. Qualunque fatto accada vicino a loro, anche piccolo, li commuove. Vegliavano i branchi nella notte lunga del solstizio quando furono scossi dalla luce e dalle parole dell’Angelo.

E appena scorsero, nella poca luce della Stalla, una Donna giovine e bella, che contemplava in silenzio il figliuolo, e videro il bambino cogli occhi aperti allora allora, quelle carni rosse e delicate, quella bocca che non aveva ancor mangiato, il loro cuore s’intenerì. Una nascita, la nascita di un uomo, un’anima che da pochi istanti s’è incarnata e viene a soffrire coll’altre anime, è sempre un miracolo così doloroso da impietosire anche i semplici che non lo comprendono. E quel nato non era, per quegli avvertiti, un ignoto, un fanciullo come tutti gli altri, ma quello che da mill’anni il loro popolo dolente aspettava.

I Pastori offrirono quel poco che avevano, quel poco ch’è pur tanto se dato con amore; portarono i bianchi donativi della pastorizia: il latte, il formaggio, la lana, l'agnello. Anche oggi, nelle nostre montagne, dove stanno morendo gli ultimi vestigi dell'ospitalità e della fratellanza, appena una sposa ha partorito accorrono le sorelle, le mogli, le fighe dei pastori. E nessuna a mani vuote: chi ha due coppie d’uova ancora tepide del nido, chi una boccia di latte fresco munto d'allora, chi una formetta di cacio che appena ha messo la buccia, chi una gallina per tare il brodo alla partoriente. Un nuovo essere è apparso nei mondo e ha cominciato il suo pianto: i vicini, quasi per consolarla, portano alla madre le loro offerte.

I Pastori antichi eran poveri e non disprezzavano i poveri, eran semplici come bambini e godevano nel contemplar i bambini. Eran nati da un popolo generato dal Pastore di Ur, salvato dal Pastore di Madian. Pastori eran stati i suoi primi Re: Saul e David — pastori di mandrie prima che Pastori di tribù. Ma i Pastori di Betlemme, «al duro mondo ignoti», non eran superbi. Un povero era nato tra loro ed essi lo guardavano con amore e gli porgevano con amore quelle povere ricchezze. Sapevano che quel Fanciullo, nato da Poveri nella Povertà, nato Semplice nella Semplicità, nato da Popolani in mezzo al Popolo, sarebbe stato il riscattatore degli Umili — di quegli uomini di «volontà buona» su quali l’Angelo aveva chiamato la pace.

Anche il Re Sconosciuto, il giramondo Odisseo, da nessun altro fu accolto con tanta gioia come dal pastore Eumeo nella sua Stalla. Ma Ulisse veniva verso Itaca per far vendetta, tornava alla sua casa per ammazzare i nemici. Gesù nasceva invece, per condannare la vendetta, per comandare il perdono ai nemici. E l’amore dei Pastori di Betlemme ha fatto dimenticale la pietà ospitale del porcaio di Itaca.

I TRE MAGI

Alcuni giorni dopo tre Magi giungevano dalla Caldea e s'inginocchiavano dinanzi a Gesù.

Venivano forse da Ecbatana, forse dalle sponde del Mar Caspio. A cavallo de’ loro cammelli, colle bolge

gonfie appese alle selle, avevan guadato il Tigri e V Eufrate, varcato il gran deserto dei Nomadi, costeggiato il Mar Morto. Una stella nuova — simile alla cometa che riappare ogni tanto nel cielo per annunziare la nascita d'un Profeta o la morte d'un Cesare — li aveva guidati fino alla Giudea. Eran venuti per adorare un Re e trovavano un poppante mal fasciato, nascosto dentro una Stalla.

Quasi mill’anni prima di loro una Regina d'Oriente era venuta in pellegrinaggio in Giudea e aveva portato anch'essa i suoi doni: oro, aromi e gemme preziose. Ma aveva trovato un gran Re sul trono, il più gran Re che abbia mai regnato in Gerusalemme, e da lui aveva imparato quel che nessuno le aveva saputo insegnare.

I Magi, invece, che si credevan più sapienti dei Re, avevan trovato un fanciullo nato da pochi giorni, un fanciullo che non sapeva ancora né domandare né rispondere, un fanciullo che avrebbe sdegnato, fatto grande, l tesori della materia e la scienza della materia.

I Magi non erano re, ma erano, in Media e in Persia, padroni dei re. I re comandavano i popoli ma i Magi guidavano i Re. Sacrificatori, Interpreti di sogni, profeti e ministri, essi soli potevano comunicare con Ahura Mazda, il Dio Buono; essi soli conoscevano il futuro e il destino. Uccidevano colle proprie mani gli ammali nocivi, gli uccelli nefasti. Purificavano le anime e i campi: nessun sacrifizio era accetto a Dio se non offerto dalle loro mani, nessun re avrebbe mosso guerra senza averli ascoltati. Possedevano i segreti della terra e quelli del cielo; primeggiavano su tutta la loro gente in nome della scienza e della religione. In mezzo a un popolo che viveva per la Materia rappresentavano la parte dello Spinto.

Era giusto, dunque, che venissero a inchinarsi dinanzi a Gesù. Dopo le Bestie che son la Natura, dopo i Pastori che sono il Popolo, questa terza potenza — il Sapere — s’inginocchia alla Mangiatoia di Betlemme. La vecchia casta sacerdotale d’Oriente fa atto di sottomissione al nuovo Signore che manderà i suoi annunziatori verso Occidente; i Sapienti s'inginocchiano dinanzi a colui che sottometterà la Scienza delle parole e dei numeri alla nuova Sapienza dell’Amore.

I Magi a Betlemme significano le vecchie teologie che riconoscono la definitiva rivelazione, la Scienza che si umilia dinanzi all’Innocenza, la Ricchezza che si prostra ai piedi della Povertà.

Essi offrono a Gesù quell'oro che Gesù calpesterà: non l'offrono perché Maria, povera, potrebbe averne bisogno per il viaggio ma per ubbidire prima del tempo ai consigli dell’Evangelo: vendi quel che possiedi e dallo ai poveri. Non offrono l’incenso per vincere il puzzo della Stalla ma perché le loro liturgie stanno per finire e non avranno più bisogno di fumi e profumi per i loro altari. Offrono la mirra che serve a imbalsamare i morti poiché sanno che questo fanciullo morirà giovane e la madre che ora sorride, avrà bisogno di aromi per imbalsamare il cadavere.

Inginocchiati, dentro ai sontuosi mantelli reali ed ecclesiastici, sulla paglia dello strame, essi, i potenti, i dotti, gl’indovini, offrono anche sé stessi come pegni dell'obbedienza del mondo.

Gesù ha ottenuto ormai tutte le investiture alle quali aveva diritto. Appena partiti i Magi, cominciano le persecuzioni di quelli che l’odieranno fino alla morte.

OTTAVIANO

Quando Cristo apparì tra gli uomini i criminali regnavano, ubbiditi, sulla terra. Egli nasceva soggetto a due padroni — uno, più forte e lontano, a Roma; l'altro, più infame e vicino, in Giudea. Una canaglia avventuriera e fortunata aveva arraffato, a prezzo di stragi, l’Impero; un'altra canaglia avventuriera e fortunata aveva arraffato, a prezzo di stragi, il regno di David e di Salomone.

Tutti e due erano arrivati in alto per vie perverse illegittime; attraverso guerre civili, tradimenti, crudeltà e massacri: erano nati per intendersi; erano, difatti, amici e complici per quanto lo permetteva il vassallaggio dello scellerato subalterno verso lo scellerato principale.

Il figliolo dello strozzino di Velletri, Ottaviano, s’era mostrato vigliacco in guerra, vendicativo nelle vittorie, traditore nelle amicizie, crudele nelle rappresaglie. A un condannato che gli chiedeva almen sepoltura rispondeva: Codesta è faccenda degli avvoltoi. Ai Perugini massacrati che domandavan grazia gridava: moriendum esse! Al pretore Q. Gallio, per un semplice sospetto, volle strappar gli occhi da sé prima di farlo sgozzare. Avuto l’impero, spenti e dispersi i nemici, ottenute tutte le magistrature e le potestà, s’era messo la maschera della mansuetudine e non gli era rimasto, dei vizi giovanili, che la libidine. Si raccontava che in gioventù aveva per due volte venduta la sua verginità: la prima volta a Cesare, la seconda, in Ispagna, a Irzio, per trecentomila sesterzi. Ora si divertiva nei molteplici divorzi, nelle nuove nozze colle mogli che portava via agli amici, negli adulteri quasi pubblici e nel recitar la commedia di restauratore della pudicizia.

Codesto sozzo e malaticcio uomo era il padrone dell'Occidente quando nacque Gesù e non seppe mai ch’era nato chi doveva, alla fine dissolvere quel che aveva fondato. A lui bastava la facile filosofia del piccolo, grasso, plagiario Orazio: godiamo l'oggi, vino ed amore; la morte, senza speranza, ci aspetta; non si perda un giorno. Invano il Celta Virgilio, l’uomo della campagna, l’amico dell'ombre, dei placidi manzi, dell’api dorate, colui ch’era disceso con Enea a contemplare i suppliziati d’Averno, e sfogava la sua inquieta malinconia colla musica della parola, invano Virgilio, l'amoroso, il religioso Virgilio, aveva annunziato una nuova età, un nuovo ordine, una nuova schiatta, un Regno dei Cieli, più laico e stinto di quello che Gesù annunzierà, ma tanto più nobile e puro del Regno dell’Interno che stava preparandosi. Invano, perché Augusto aveva visto in quelle parole una fantasia pastorale e aveva forse creduto, lui, il corrotto padrone di corrotti, d’essere il Salvatore annunziato, il restauratore dei regno di Saturno.

Ma un presentimento della nascita di Gesù, del vero Re che veniva a soppiantare i Re del Male, l'ebbe torse, prima della morte, il grande cliente orientale d’Augusto il suo vassallo di Giudea, Erode il Grande.

ERODE IL GRANDE

Erode era un mostro: tino de’ più perfidi mostri scaturiti dall’arsura dei deserti d'Oriente, che pure ne aveva generati più d'uno, orribili a vedersi.

Non era Ebreo, non era Greco, non Romano. Era un Idumeo: un barbaro che serpeva dinanzi a Roma e scimmieggiava i Greci per meglio assicurarsi il dominio sugli Ebrei. Figlio d’un traditore, aveva usurpato il regno ai suoi padroni, agli ultimi sciagurati Asmonei. Per legittimare il suo tradimento sposò una loro nipote, Mariamne, che poi, per ingiusti sospetti, ammazzò. Non era al suo primo delitto. Aveva fatto, prima, affogare a tradimento il cognato Aristobulo; aveva condannato a morte l’altro cognato, Giuseppe, e Ircano Secondo, ultimo regnante della dinastia vinta. Non contento di aver tatto morire Mariamne fece ammazzare anche la madre di lei, Alessandra e perfino i figlioli di Baba, soltanto perché lontani parenti degli Asmonei. Nel frattempo si divertiva a far bruciare vivi Giuda di Sariteo e Mattia di Margaloth insieme con altri capi farisei. Più tardi ebbe timore che i figli avuti da Mariamne volessero vendicare la madre e li fece strangolare; vicino a morte dette ordine di uccidere anche un terzo figlio, Archelao. Lussurioso, sospettoso, impietoso, avido d’oro e di gloria, non ebbe mai pace, né in casa, né in Giudea, né dentro di sé. Perché scordassero i suoi assassinii fece al popolo di Roma un donativo di trecento talenti da spendersi in feste; si umiliò dinanzi ad Augusto perché tenesse il sacco alle sue infamie e morendo gli lasciò dieci milioni di dramme e, in più una nave d’oro e una d’argento per Livia.

Questo soldataccio rifatto, quest’Arabo mal rincivilito, pretese conciliarsi e conciliare Elleni ed Ebre: riuscì a comprare i degenerati posteri di Socrate, che in Atene giunsero al punto di innalzargli una statua, ma gli Ebrei l’odiarono fino alla morte. Inutilmente riedificò Samaria e restaurò il Tempio di Gerusalemme: egli era sempre, per loro, il pagano e l’usurpatore.

Tremebondo come i malfattori che invecchiano e i principi nuovi, ogni stormir di foglia, ogni sbatter d’ombra lo facevano sobbalzare. Superstizioso come tutti gli orientali, credulo dei presagi e dei vaticini, poté agevolmente credere ai Tre che venivano dal fondo della Caldea, condotti da una stella verso il paese da lui rubato colla frode. Ogni pretendente, anche fantastico, poteva farlo tremare. E quando seppe dai Magi che un re della Giudea era nato il suo cuore di barbaro inquieto sussultò. Non vedendo tornare gli Astrologi a insegnargli il luogo dove era apparso il nuovo nipote di David ordinò che tutti i fanciulli di Betlemme fossero uccisi. Giuseppe Flavio tace quest’ultima gesta del Re: ma colui che aveva fatto uccidere i suoi propri figlioli non era forse capace di spergere quelli non generati da lui?

Nessuno seppe mai quanti fossero i fanciulli sacrificati alla paura d’Erode. Non era la prima volta che in Giudea venivan passati a fil di spada anche i lattanti attaccati alla poppa delle madri: lo stesso popolo evreo aveva gastigato, negli antichi tempi, le città nemiche col massacro dei vecchi, delle spose, dei giovani e dei fanciulli: non serbava che le vergini per farsene schiave e concubine. Ora l’Idumeo applicava la legge del taglione sul popolo che l’aveva accettata.

Non sappiamo quanti fossero gl’Innocenti ma sappiamo — se Macrobio merita fede — che fra loro vi fu un figlio piccino d’Erode ch’era a balia in Betlemme. Per il vecchio monarca, uxoricida e figlicida chissà neppure se fu codesta una vendetta, chissà se neanche patì quando gli portaron la notizia dell’errore. Poco dipoi egli stesso dové lasciar la vita, assalito da schifosi mali. Il corpo, da vivo, marciva: i vermi gli consumavano i testicoli; aveva i piedi infocati, il fiato corto, l’alito insopportabile. Repugnante a sé stesso tentò d’uccidersi a tavola con un coltello e finalmente morì, dopo aver ordinato a Salomè di far uccidere molti giovani ch’era chiusi nelle prigioni.

La Strage degli Innocenti fu l’ultima gesta del puzzolente e insanguinato vecchio. Quest’immolazione d’Innocenti intorno alla culla di un Innocente; quest’olocausto di sangue per un nascituro che offrirà il suo sangue per il perdono dei colpevoli; questo sacrifizio umano per colui che a sua volta sarà sacrificato, ha un senso profetico. Migliaia di migliaia d’innocenti dovranno morire, dopo la sua morte, per il solo delitto di aver creduto nella sua Resurrezione: nasce a morir per gli altri ed ecco migliaia di nati che muoion per lui, quasi ad espiar la sua nascita.

V’è un tremendo mistero in questa offerta sanguinaria di puri, in questa decimazione di coetanei. Appartenevano alla generazione che lo doveva tradire e crocifiggere. Ma quelli che furono scannati dai soldati d’Erode codesto giorno non lo videro, non arrivarono a veder uccidere il loro Signore. Lo salvarono colla loro morte — e si salvaron per sempre. Erano Innocenti e son rimasti Innocenti in eterno. I loro padri e i loro fratelli superstiti un giorno li vendicheranno — ma saranno perdonati «perché non sanno quello che fanno».

Di sera, appena le case di Betlemme affondano nel buio e si accendono le prime lucerne, la Madre parte di nascosto come una fuggitiva, come una ladra, come un’inseguita. Ruba una vita al re; salva una speranza al popolo; si stringe al petto il suo maschio, la sua ricchezza, la sua pena.

Volge verso Occidente; traversa la vecchia terra di Canan e arriva a piccole tappe — le giornate son corte — in vista del Nilo, in quella terra di Mizraim che tante lagrime era costata ai suoi padri quattordici secoli innanzi.

L’Egitto terriccio di tutte le infamie e le magnificenze delle Prime Epoche, India Africana dove le ondate della storia venivano a disfarsi nella morte — Pompeo e Antonio da pochi anni avevan finito sopra le sue spiaggie il sogno dell’impero e la vita — questo paese prodigioso, generato dall’acqua, bruciato dal sole, annaffiato da tanti sangui di popoli diversi, abitato da tanti dei in forma di bestie, questo paese assurdo e sovrannaturale era, per ragion di contrasto, l’asilo predestinato del fuggitivo.

La ricchezza dell’Egitto era nel fango, nel grasso limo che il Nilo rovesciava ogni anno sul deserto insieme ai rettili; il pensiero fisso dell’Egitto era la morte; il grasso popolo d’Egitto non voleva la morte, negava la morte; pensava di vincer la morte colle simulazioni della materia, colle imbalsamazioni, coi ritratti di sasso conformi ai corpi di carne che scolpivano i suoi statuari. Il ricco, il grasso egiziano, il figlio della mota, l’adoratore del bue e de cinocefalo, non voleva morire. Egli fabbricava per la seconda vita le immense necropoli, zeppe di mummie fasciate e profumate, d’immagini in legno e marmo, e innalzava piramidi sopra i suoi cadaveri perché la mota delle pietre li salvaguardasse dalla consumazione.

Gesù, quando potrà parlare, pronunzierà la sentenza contro l’Egitto: l’Egitto che non è soltanto sulle sponde del Nilo, l’Egitto che non è ancora sparito dalla faccia della terra insieme ai suoi re, ai suoi sparvieri, ai suoi serpenti. Cristo darà la risolutiva ed eterna risposta al terrore degli egiziani. Condannerà la ricchezza che vien dalla mota e torna alla mota, e tutti i feticci dei ventruti rivieraschi del Nilo; e vincerò la morte senza casse scolpite, senza reggie mortuarie, senza statue di granito e basalto. Vincerà la morte insegnando che il peccato è più vorace dei vermi e che la purità dello spirito è l’unico aroma che preservi dalla corruzione.

Gli adoratori del Fango e dell’Animale, i servitori della Ricchezza e della Bestia, non potranno salvarsi. I loro sepolcri, sian pur alti come montagne, ornati come ginecei di regine, non serberanno che Cenere: melma che cambia di posto come le carogne degli animali. Non si trionfa della morte copiando col sasso o col legno la vita: il sasso si sbriciola e torna polvere, il legno imporrisce e torna polvere e tutt’e due son fango, eterno fango.