Presenti: Marinella (che è arrivata in taxi dopo aver rinunciato a una cena luculliana pur di non mancare - esempio che deve servire da esempio e monito ai latitanti con non adeguate giustificazioni), Maddalena (che ha rinunciato ad un concerto rock), Alessandra (che ha rinunciato a un'intervista su RAI 3), Pierpaolo (che ha rinunciato a una premiere cinematografica), Massimo (che ha rinunciato al solito pisolino preserale), Tomas (supercontento perché ha la lavatrice nuova e ha rinunciato a provarla subito).
(ndr. due affermazioni sono vere, una parzialmente, le altre sono false ma servono come propaganda e per instillare sensi di colpa)
La discussione inizia su fornitura di lavatrici, mancanza di ascensori, negozi, consegne ritiri e acegas, poi si entra nel merito.
Massimo dichiara: “Non so perché l'ho proposto. E' un tipico esempio dell'importanza di un titolo e di quanto esso possa essere fuorviante, infatti mi sono deciso a comprarlo solo perché dovevo cambiare un regalo e non trovavo nessun altro libro in libreria ma non ne ero convinto poiché “Giorni in Birmania” sembrava, dal titolo, un resoconto di viaggi alla Chatwin (genere che personalmente trovo noiosissimo), ma invece è un romanzo vero e proprio, anche ben strutturato. Un interessante spaccato dell'epoca, siamo negli anni '30. Spiega il senso di superiorità degli inglesi, ricordate “il fardello dell'uomo bianco” di Kipling?, con il comune intercalare ”divino padrone” usato dagli indigeni verso gli europei, che la dice lunga. Il narratore padroneggia lo stile. La trama è avvincente, quasi cinematografica e ogni capitolo si conclude in modo quasi da far pensare che sia stato pubblicato a puntate (si usava all'epoca oltretutto). Ero curioso di sapere cosa ne pensate voi.”
Sì: Marinella, Maddalena, Massimo I.
Nì: Tomas, Alessandra Co., Pierpaolo
Si inizia per ordine alfabetico. (AleA, curatrice delle note, fa giustamente notare che mancano le creative modalità di Giuseppe per dar ordine all'esposizione.)
Alessandra Co. (nì): Il mio libro iniziava con due brevi racconti. Il primo narrava l'esecuzione di un uomo: terribile (scritta bene, ma davvero non mi rallegrava), mi faccio forza e leggo il secondo racconto, narra l'uccisione di un elefante imbizzarrito. Terribile (scritto bene, ma nuovamente lo stato d'animo che mi ritrovo dopo la descrizione dei pensieri del protagonista e i comportamenti della massa, mi indigna e mi scoraggia, (penso con disperazione a come sia davvero difficile che le persone assumano coscienza e si muovano per difendere buon senso, giustizia, diritti calpestati (grazie Ghandi). Penso: non ho proprio voglia di leggere, ma il continuo disperato appello al mio senso del dovere mi sostiene nel proseguire. Ho letto un bel pezzo dell'inizio. Non sono arrivata a metà libro e davvero ho sofferto per la cattiveria, l'egoismo crudele, le bassezze umane, il continuo perpetrarsi di ingiustizie ignobili e orribili che abbruttiscono di gran lunga più chi le compie oltre a chi le subisce. Non riesco a stare ferma e leggere di soprusi, offese e quant'altro. Preferisco attivarmi rapidamente per fare qualche cosa per migliorar la situazione e non perdere altro tempo. Anche perché quel che viene descritto nel libro, in altro modo, lo ritrovo presente nell'uomo e nel potere quotidianamente. Si emargina chi è diverso e non parlo solo di evidenze come il razzismo, ma di senso del gruppo e di giudizi presuntuosi che tagliano fuori l'altro e che ritrovo ovunque, persino all'asilo (ma lì posso perdonarlo e cercare di intervenire). Decido di leggere la fine, e scopro che Orwell non dà via di scampo. Nessun cambiamento. Comportamenti tristissimi. Decido che per me può bastare. Ringrazio ancora l'esistenza di uomini come Ghandi che riscattano l'umanità. Il libro è senz'altro ben scritto, ma per leggerlo devo davvero forzarmi.
Maddalena (sì): Mi è piaciuto tantissimo. Avevo un libro che doveva contenere tutte le opere dell'autore, ma questa non era presente. Così ho letto per la prima volta "Viaggio in Birmania". Credo che Orwell fosse un idealista seriale: è andato a combattere e ha fatto il barbone, ha viaggiato. Rispetto una persona che ha molto vissuto prima di scrivere. Nel libro emergono il cinismo inglese e le assurdità e le ingiustizie delle convenzioni sociali. Comprendo la terribile Elisabeth: la sua cultura, le convenzioni la costringono a "salvarsi" a questo modo. Il contesto del colonialismo è esposto con chiarezza. Appaiono evidenti le contraddizioni e queste fanno riflettere. Il libro non si conclude con il suicidio del protagonista, e si può osservare ancora dove possono portare i comportamenti e le bassezze dei protagonisti.
Marinella (sì): E’ un libro che non avrei mai letto perché non conosco e non amo l’Oriente. All’inizio ho avuto una certa difficoltà per l’ambientazione che per me non è interessante. Poi mi è piaciuto. E’ un’analisi spietata della società coloniale inglese. Orwell esprime la sua indignazione umana per le ingiustizie e il razzismo. Descrive personaggi squallidi, senza alcuna dignità. Lo stesso Flory, che non condivide il razzismo degli altri inglesi, non fa nulla per opporvisi. I personaggi femminili sono i peggiori.
Pierpaolo (nì): "Nì", perchè l’ho trovato noioso e un po’ manierista (alla maniera della letteratura coloniale), ma trovo anche che la denuncia del razzismo sia purtroppo ancora attualissima. La vicenda: il titolo fa pensare a un diario, e infatti pare che la storia riprenda fatti venuti a conoscenza dell’autore durante il suo soggiorno in Birmania come membro della Polizia Imperiale. I personaggi: tutti i personaggi, inglesi e birmani, sono profondamente negativi, alcuni sono delle macchiette o bozzetti, ma i protagonisti sono assai ben delineati. La penna dell’autore è particolarmente spietata nei confronti delle donne, inglesi e birmane, dominate dall’ambizione all’ascesa sociale e pronte a qualsiasi cosa pur di non dover lavorare per vivere. Il protagonista: John Flory, è una specie di eroe tardo decadente, un inetto che si culla in una falsa idea di sè nutrita da un eccesso di letture ed è così incapace di accettare la realtà da finire per suicidarsi. Il messaggio: la critica del colonialismo è coraggiosa e si allarga a una considerazione desolante sulla natura dell’uomo e del suo vivere in società. Due realtà, quella birmana e quella inglese, che si confrontano senza che vengano segnalati elementi positivi, due ipocrisie che vengono svelate e ci lasciano davanti un quadro di desolazione morale e abiezione. Lo stile: la scrittura del giovane Orwell, malgrado abbia letto la pessima edizione Longanesi del 1975, è molto elegante, impreziosita ma anche appesantita da esotismi “coloniali” e da un certo humor britannico, molto diversa da quella semplice e diretta degli apologhi della maturità. Ogni capitolo è dedicato principalmente a un protagonista, o antagonista. Ho trovato molto moderno l’ultimo capitolo, quasi cinematografico, che ci presenta il destino dei comprimari della vicenda dopo il suicidio di Flory.
Tomas (nì): Mi piaceva lo stile, però ho letto altro Orwell. Questo romanzo mi risulta molto più convenzionale. Non ho confidenza con la cultura convenzionale. Intuivo come finiva e il fatto di saperlo non mi aiutava. Sono felice di averlo letto, ma non era quello che volevo leggere. Tomas ci parla anche di un libro dal titolo "Io sono un gatto" regalato da Giuseppe.
Prossimo libro: "Kallocaina" di Karin Boye (preferito a "Balzac e la Piccola Sarta Cinese" di Dai Sijie e a "Il problema Spinoza" di Irvin D. Yalom)
Prossimo proponente: Pierpaolo
Prossimo incontro: 30 settembre