Bartleby lo scrivano (di Herman Melville)

Proposto da Marisa

Riferimenti: IBS, Wikipedia, Ad alta voce

Discussione di aprile 2020

Sì: Alessandro, Luisella, Marinella, Marisa, Oscar, Pierpaolo

Nì: Alessandra Co., Sonja

Marisa (proponente, sì): La locuzione ricorrente nel racconto di Melville “I would prefer not to” non è propriamente un rifiuto, ma può considerarsi come quello che gli inglesi chiamano understatement, cioè un’espressione che minimizza, attenua la realtà, ma nello stesso tempo vuole affermare o negare senza enfasi un fatto, un concetto. Qui il fatto si riferisce a un moto sorprendente di volontà del taciturno e mite scrivano Bartleby che aggira l’ordine ricevuto dal suo datore di lavoro con l’intenzione di scambiarlo per un invito e in quanto tale declinabile. “Preferirei di no” nella sua forma gentile ma inderogabile denota forse una manifestazione di individualismo che rivendica il valore e il diritto del singolo di ribellarsi alle regole di una società tipicamente borghese fondata sui principi dell’utilitarismo e della produttività. Si tratta quindi di libera scelta, di autonomia di pensiero che, se portate all’estremo, possono arrivare all’emarginazione dell’individuo e alla negazione della realtà. Melville ci ha lasciato questo piccolo gioiello letterario che, oltre a mantenere sveglia (e insoddisfatta) fino all’ultimo la curiosità del lettore attorno alla figura tanto insignificante quanto emblematica e indecifrabile dello scrivano, descrive con grande humour gli altri personaggi ridicolizzandoli con nomignoli ben azzeccati e tratteggiandoli con chiaroscuri che mettono in risalto la complementarietà e insieme il contrasto fra le loro personalità, distanti a loro volta da quella di Bartleby.

Alessandra Co. (nì): All’inizio il racconto mi tediava, anche per la sovrabbondanza di particolari. Gli ultimi momenti prima del nostro incontro ho ascoltato la sua lettura e mi è venuto in mente il teatro dell’assurdo. Il tutto ha finito per innervosirmi. Questo racconto mi ha richiamato anche "Il gigante egoista" di Oscar Wilde. Qui forse Bartleby rappresenta il doppio del suo datore di lavoro, l’avvocato, il padrone che si rende conto di sfruttare i suoi dipendenti e che prova, accanto alla repulsione, un sentimento di compassione verso lo scrivano, tanto da assicurarlo della propria disponibilità ad aiutarlo. Alla fine la prigione sarà per Bartleby il luogo dove potrà cogliere il bello, libero paradossalmente da ogni restrizione. Nell’insieme il racconto, pur riconoscendo che ha posto dei semi di riflessione, mi ha annoiato.

Alessandro (sì): Il racconto risale al 1853 ed è incredibile il fatto che quasi 170 anni dopo noi possiamo apprezzarlo in tutta la sua modernità. Qui l’evento assurdo di uno scrivano che si rifiuta di lavorare oltre i confini delle sue strette mansioni va a inceppare la normalità, mettendo in subbuglio l’andamento e le abitudini che si svolgono nello studio legale situato nella Wall Street di New York. Dopo vicissitudini caratterizzate da insensatezze inesplicabili, la fine è drammatica e il carcere viene inteso come la ovvia conclusione derivata dalla responsabilità non di Bartleby ma degli altri: il suo disagio psichico non viene mai rilevato come tale. Da notare che lo scrivano precedentemente era stato impiegato in un ufficio della corrispondenza non giunta a destinazione, cioè delle lettere smarrite, ed era stato licenziato in seguito a un rimpasto politico. Questa storia pregressa, scoperta in ultimo dal narratore - l’avvocato - può essere un tassello determinante per avvicinarsi alla personalità di Bartleby?

Luisella (sì): "Bartleby lo scrivano" mi è piaciuto moltissimo e ringrazio Marisa per la proposta. Mi è piaciuto per diverse ragioni. La prima è la commistione tra momenti ironici, quasi comici, che fanno sorridere, e momenti tristi e infine drammatici. La seconda è che sappiamo pochissimo dei protagonisti. E questa è una caratteristica che sempre mi conquista. Come diceva Abraham Yehoshua in una intervista di tanti anni fa, lo scrittore non deve raccontare tutto, deve “fidarsi” del lettore, deve lasciargli degli spazi vuoti che il lettore andrà a colmare con la sua immaginazione, con una sua personale collaborazione che lo farà sentire partecipe dell'opera. Qui sappiamo assai poco sia dell'avvocato narratore (chi è, come vive al di fuori dell'ufficio, ha famiglia?) sia di Bartleby. Cosa capita nella sua mente, qual è il “granello” che inceppa la sua vita? Che cos'era la sua esistenza, prima che entrasse in ufficio, e quali sono i suoi sentimenti? Questo non sapere è una voragine di domande che come lettrice trovo molto intrigante. Inoltre apprezzo che - come ogni buon libro dovrebbe fare - mi abbia fatto venire in mente altri libri, diversissimi per cultura ed epoche. Un racconto del Bestiario di Cortazar (libro del 1951) in cui due abitanti di una casa, fratello e sorella, sentendosi minacciati da oscure presenze, decidono via via di ritirarsi e di limitare il proprio spazio (chiudono il soggiorno, chiudono le camere, chiudono la cucina, fino a ritrovarsi nell'ingresso...). Alla fine escono, attraversano il giardino e abbandonano definitivamente la casa lasciandola in mano ai fantasmi. Bartleby, pur non essendo una presenza paranormale, riesce ad avere lo stesso effetto sull'avvocato che, non riuscendo a cacciare Bartleby, preferisce abbandonare i suoi uffici. È ovvio che in una vicenda realistica questo non accadrebbe: il datore di lavoro sarebbe molto più brutale e reagirebbe diversamente. Il fatto che l'avvocato rinunci al suo ufficio, invece, denota chiaramente che siamo in una storia surreale e assurda. Poi mi ha fatto venire in mente un romanzo proposto da Oscar tanti anni fa, “L'uomo che dorme” di Georges Perec del 1967. Uno studente, che si è messo la sveglia una mattina per recarsi a sostenere un esame, decide di punto in bianco di non andare all'Università e di non fare più assolutamente niente, se non passeggiare inutilmente lungo le vie di Parigi. Un atteggiamento di passiva ribellione al sistema molto simile a quello di Bartleby. Infine, ovviamente, il racconto di Melville fa venire in mente Kafka, Ionesco... Un altro punto interessante è dato dal sottotitolo che Melville ha voluto dare, “una storia di Wall Street”, e se l'ha fatto era per rimarcare fortemente qualcosa. La vicenda poteva essere ambientata dovunque, in un qualsiasi ufficio. Perché proprio Wall Street? Cuore pulsante della New York che cresceva e si formava, rappresentava il luogo delle ambizioni, della competizione. Forse non nei modi esasperati di oggi, ma comunque un luogo di intraprendenza e di ricerca del successo finanziario. E allora, il pallido smunto grigio passivo rinunciatario Bartleby vi appare ancora più dissonante e sovversivo. Forse in questa scelta, pesa il fatto che il padre di Melville, commerciante, fosse stato travolto da un tracollo economico che aveva portato la famiglia alla rovina, una esperienza che aveva segnato molto il giovane Melville. Wall Street, dunque, rappresenta (ben prima del drammatico 1929...) il posto in cui si poteva passare dalla fortuna alla disgrazia totale? Mi ha colpita anche la storia delle lettere smarrite, morte, che potrebbero forse aver influito sulla depressione di Bartleby, come ritiene l'avvocato. La cosa mi ha fatta amaramente sorridere perché nel mio lavoro un buon sessanta, settanta percento delle lettere che spedisco torneranno indietro, e io già lo so, perché le spedisco a gente che ha fornito indirizzi falsi... Non si tratta di lettere smarrite, ma anche qui il paradosso “kafkiano” è curioso e dolente. Perciò, mi sono sentita un po' Bartleby anch'io!:-) Ultima nota: mi ha colpita il modo in cui Bartleby esprime il suo rifiuto, che pure è un rifiuto ostinatissimo, fermo, invalicabile. Ma il suo non è un “no”, è un “preferirei di no” che suona quanto mai gentile morbido e mite. Questa difformità, tra quello che dice e il modo in cui lo dice, rende Bartleby ancora di più sfuggente e misterioso.

Marinella (sì): È stata la mia prima esperienza in Audiolibri e devo dire che ho goduto molto dell’ascolto. Trovo che l’attore-lettore abbia dimostrato grande bravura come quando lo si sente proferire con l’intonazione giusta la frase ricorrente “Preferirei di no”. Per il resto, è difficile capire cosa esattamente volesse trasmettere Melville. Questo genere di scrittura anticipa le opere di Kafka e di Ionesco e tutto il filone del teatro dell’assurdo.

Oscar (sì): Qui Melville mi ha richiamato alla memoria un altro autore, Twain, di cui anni fa abbiamo letto il saggio "Che cosa è l’uomo?". Twain teorizzava che alla base di molte delle azioni che riteniamo mosse da generosità e altruismo ci sarebbe invece un desiderio istintivo di fuggire dai propri sensi di colpa. Mi sono appunto chiesto cosa ci fosse dietro alla presunta bontà dell'avvocato, cosa gli impedisse di licenziare Bartleby, e se le sue azioni fossero davvero mosse da affetto e premura verso una persona debole e vulnerabile. L’ascolto dell'audiolibro è reso molto piacevole dalla voce e dall'interpretazione di Elia Schilton.

Pierpaolo (sì): Sì perché:

• un libro che è stato pubblicato nel 1853 ma ancora leggibilissimo;

• un libro che dimostra che spesso la via maestra per diventare un "classico", un testo che sopravvive alla propria epoca, è quello di scrivere in levando, piuttosto che tentare di inscrivere nel testo tutto il proprio mondo, nello sforzo di consegnarlo intero al futuro (come forse ha fatto Melville in Moby Dick), lasciare al lettore spazio per lavorare con la fantasia sui particolari che mancano;

• uno stile che unisce tratti umoristici o quasi comici, legati soprattutto all'avvocato e ai suoi collaboratori, ad aspetti enigmatici, tragici e commoventi, di cui ovviamente è portatore Bartleby;

• una traduzione di Flavio Santi, che aumenta l'effetto tragicomico del testo con delle scelte post moderne, magari discutibili, ma che mi sono piaciute, come quando sceglie di citare apertamente il meriggiare pallido e assorto di Montale per rendere la descrizione di un assolato pomeriggio fatta da Melville;

• la descrizione di una New York di 170 anni fa che ancora non è che il germe della megalopoli di oggi, ma di cui riconosciamo Wall street, già cuore allora pulsante, come la tratteggiata descrizione di alcuni sobborghi, allora oggetto di gite col calesse e oggi quartieri arcinoti della Big Apple;

• l'importanza del libro nella storia della letteratura, facendo da caposcuola ad alcune tematiche e filoni costitutivi del '900 (la figura dell'inetto, Kafka, il teatro dell'assurdo, l'esistenzialismo);

• il suo prestarsi a molteplici letture, ciascuna utile, ma incapace di esaurirne l'interpretazione: quella psicologica, psicanalitica, sociologica, politica – come la lettura di Marisa, che condivido.

Un racconto che ancora non avevo letto e che sono proprio felice di aver avvicinato, anche in un momento così particolare come quello che stiamo vivendo.

Sonja (nì): Trovo che questo racconto sia uno dei tanti cammei sparsi nella letteratura. Qui il racconto verte sulla tragedia umana, sulla tragedia di questa figura di scrivano, che vive la sofferenza di una vita trascorsa in gran parte svolgendo un lavoro a dir poco noioso, quello di smistare le lettere smarrite. Forse non si era trattato solo di un lavoro noioso, ma di un’incombenza che aveva in sé un carattere di morte, poiché in effetti Bartleby si trovava a essere depositario di notizie drammatiche. E ora, dopo un primo momento, aveva deciso di non adempiere oltre alla sua mansione di scrivano presso questo studio legale: viceversa, si sarebbe tragicamente rinnovata quell’intima grande sofferenza già provata nel suo precedente lavoro.


Prossimo libro: "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" di Philip Dick (preferito a "Il diario" di Anna Frank e a "Tempo di uccidere" di Ennio Flaiano)

Prossimo incontro: 29 maggio