Pastorale americana (di Philip Roth)

Proposto da Gabriella

Riferimenti: IBS, Wikipedia

Discussione di giugno 2018

Sì: Alessandro, Marinella, Marisa, Oscar

Nì: Gabriella, Alessandra Co.

Gabriella (nì, proponente): Ho proposto il libro perché apprezzo lo scrittore e perché mi è stato consigliato da più persone. Non avendolo letto in precedenza, mi sono basata sulle impressioni positive avute da Nemesi, che per altro ho preferito a questo. Roth ha la capacità di scavare nel profondo dell’animo dei suoi protagonisti, portandone alla luce pregi e zone d’ombra con la dovizia di un medico specialista. E’ giudice impietoso dell’essere umano e della società americana del tempo. Niente gli sfugge ed il periodare è spesso complesso, per cui mi sono trovata più di qualche volta a dover rileggere una frase per coglierne appieno il significato. Ciò che mi ha portato ad esprimere un parere non del tutto positivo è stata l’estrema prolissità e minuzia con cui ha trattato ogni singolo argomento, ponendo quasi allo stesso livello tutti i temi considerati: dalle lotte interiori dello Svedese ed i profondi sensi di colpa che lo animano, alla descrizione della produzione e del trasporto delle albicocche. E’ come se in una ricetta venissero posti mille ingredienti, si perde di vista il sapore predominante.

Marisa (sì): Il titolo evoca un genere letterario di ambiente e di tono bucolico, dove ogni cosa suggerisce la semplicità e la convivialità della vita campestre: ne è un esempio il Giorno del Ringraziamento. Ma la valenza semantica di “pastorale” sta forse nell’ideale di perfezione vagheggiato da Seymour, lo Svedese, campione sportivo, marito e padre amorevole, imprenditore irreprensibile, l’uomo che raffigura il Bene in contrapposizione al Male impersonato dalla figlia adorata: il bene e il male, gli opposti che non possono essere disgiunti. È un romanzo bellissimo e terribile che mi ricorda Furore di Steinbeck per la sua potenza descrittiva e perché suscita quello strazio, quella spinta all’immedesimazione e quella sorta di empatia verso personaggi così distanti dal proprio mondo. Narrazione resa ancora più realistica dall’uso frequente di flashback che pervadono una trama che Roth lascia intenzionalmente senza finale. L’impressione ultima è quella di una parodia feroce del mito americano: di quell’America, tutt’altro che bucolica, confinata in un mondo i cui valori morali e sociali si avviano ormai verso un declino inarrestabile, sempre più dileggiati o, drammaticamente, calpestati da devianze fanatiche e portatrici di distruzione di novelli predicatori pseudo-pacifisti. Infine, l’epopea di questa famiglia “perfetta” è destinata a sgretolarsi miseramente, come è destinata a rimanere senza risposta la domanda che Seymour, lacerato da sensi di colpa, pone a se stesso e che gli si ritorce contro: dove ho sbagliato? E la conclusione sembra racchiudersi nella constatazione che: “...capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”.

Marinella (sì): “Tutti abbiamo una casa, è lì che va sempre tutto storto“. Questa frase definisce il romanzo che Roth costruisce magistralmente con grande profondità di pensiero, nella creazione dei personaggi che si determinano mentre leggiamo, prendendosi il tempo necessario alla loro definizione. Racconta una vita ed è eccezionalmente bravo. Evidente l’ebraicità di Roth ed il discorso della sopportazione, fa venire in mente il libro di Giobbe. E’ un libro meraviglioso che ci dice tutto quello che vogliamo sapere.

Alessandro (sì): Ho provato momenti di arrabbiatura leggendo il libro. Il tema centrale è basato sul rapporto di due perfetti che mettono al mondo una figlia esattamente il contrario di loro. Nessuno è buono o cattivo, l’autore non dà risposte. Il protagonista vive una vita inautentica e non riesce ad arrabbiarsi, il fratello lo accusa di non vivere, lo invita ed essere più autentico e a non voler sempre compiacere gli altri. La figlia lo sbalza, lo proietta nel furore, la violenza, la disperazione e la rabbia cieca dell’America. Sul piano macroscopico si evidenzia una critica feroce alla società. Quesito finale: cosa c’è di riprovevole nella vita dei Levov? Trovo solo ritratti di negatività e nessuna positività. Sarebbe bello se lo scrittore suggerisse delle piste se non proprio delle risposte. Ci sono tante, troppe parole nel libro. Riflessioni profonde sulla contraddizione degli Ebrei che vogliono integrarsi ed allo stesso tempo star fuori, cosa che ritrovo in molte altre minoranze. E’ un libro che pone più problemi piuttosto che dar soluzioni. E’ la parodia dell’integrità umana.

Oscar (sì): Mi riconosco nella tipologia umana dello Svedese: una individuo che cerca di ricoprire un ruolo positivo nella società e che si tormenta quando le circostanze lo allontanano da questo intento. Ma quante delle sue doti positive sono veramente tali e sincere? Ricordo "Che cosa è l’uomo?", il saggio di Twain che abbiamo letto tempo fa, e in cui si teorizzava sui veri motivi che ci spiangono ad agire in modo positivo, onesto, generoso. Di Pastorale Americana mi è piaciuta la parte iniziale in cui la voce narrante (l'alter-ego di Roth) racconta il modo in cui ha conosciuto lo Svedese, la riunione della classe, grottesca nella sua realtà. La storia mi ha fatto riflettere sui diversi episodi di cronaca nera (attachi armati di folli distruttivi e autodistruttivi) che si verificano nei Campus americani. C’è un livello di vittima a cui non si pensa spesso: i genitori di chi compie questi gesti. E’ una catena di dolore, un incrocio di ostilità. Mi ha deluso arrivare all'ultimo capitolo e scoprire che il libro ha un finale aperto, con troppe domande lasciate senza risposta (ultimo capitolo, tra l'altro, in cui si fatica a seguire il filo logico, vista l'alternanza di flussi di pensiero e di fatti reali).

Alessandra Co. (nì): Ho ascoltato l’audiolibro e non l’ho finito: non è il tipo di lettura per questo momento. Può interessare per un’analisi della società americana, la sinistra, la società borghese. Alcune cose potevano essere tagliate: l’autore si perde in dettagli e considerazioni a volte poco utili. In molti punti si sente l’influenza della psicoanalisi. Colgo la profondità di certe osservazioni, ma per altri versi mi tedia. E’ molto bello il capitolo in cui Roth dice che il giudizio che ognuno di noi si fa sull’altro è sempre errato. Per il resto, ammetto di essermi un po' annoiata.


Prossimo libro: "La statua di sale" di Gore Vidal (preferito a "Al Dio sconosciuto" di John Steinbeck e a "Qui è proibito parlare" di Boris Pahor)

Prossimo incontro: 27 luglio

Prossima proponente: Alessandra Co.