Merlo G., Bordone G., “Guida alla programmazione sociale. Teorie, pratiche, contesti”, Carocci faber 2025
BOX n. 69
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Elementi dalla Tesi di Laurea Magistrale in Politiche e servizi sociali, Università di Torino, A.A. 2017-18
“La dimensione analitica dei modelli di programmazione. Il Piemonte: un caso-studio” Testo in allegato
di Luca Oliva
Riedizione a cura di Giorgio Merlo agosto 2025
“Per modello intendiamo una rappresentazione concettuale, astratta e semplificata del mondo reale, o di una sua parte, cioè “costringiamo” la realtà in uno schema interpretativo, anche quando essa è più variegata. Proviamo a fare questo esercizio in riferimento agli approcci teorici che definiscono come procede e si costruisce la programmazione” (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 188)
I modelli di programmazione si sono evoluti e sviluppati nel tempo seguendo filoni di pensiero istituzionale e sul ruolo dello Stato, concezioni della società, approcci alle politiche sociali, contesto, ruoli dei possibili attori e sviluppi del pensiero scientifico. Pertanto, il tema è piuttosto complesso: si tratta di confrontare modelli diversi, spesso in evoluzione e mal definiti, con dimensioni analitiche che partono da punti di vista differenti. Proviamo a definirne alcune dimensioni.
Per comprendere quale sia il modello utilizzato in un determinato contesto o per conoscere quale sia il più efficace da applicare date le circostanze contestuali e/o gli obiettivi da raggiungere, storicamente è stato utilizzato lo schema proposto da Thompson & Tuden alla fine degli anni Cinquanta. La notorietà e applicabilità di questa rappresentazione è però da ricondurre a Christensen K.S. che lo utilizzò per la prima volta in un saggio comparso su “APA Journal” nel 1985 in campo urbanistico.
Lo schema prende in considerazione due variabili:
1. il grado di consenso sugli obiettivi tra gli attori del processo
2. il livello di conoscenza sulle strategie e sulle tecniche per conseguire gli obiettivi.
Da cui nasce uno schema semplificato e riduttivo (in quanto non prevede valori intermedi tra presente/assente delle variabili).
Nei quadranti A e C il modello di programmazione appare definito, mentre nelle condizioni B e D, lo schema non individua una forma specifica, ma rimanda ad una maggiore definizione delle variabili. (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 200)
Esistono, però, anche altre variabili da considerare per la scelta del modello. Vediamo le principali.
Il principio ha due differenti articolazioni: quella cosiddetta “orizzontale”, quando ci si riferisce a bisogni dei cittadini che vengono soddisfatti dai cittadini stessi, magari in forma associata e/o volontaristica, e quella “verticale”, quando questi vengono soddisfatti dall’azione degli enti amministrativi pubblici man mano più distanti dal cittadino.
In questo senso, se la sua applicazione può essere semplice e lineare in campo di gestione e offerta di servizi, appare piuttosto problematica in campo di programmazione, in una logica di valori, diritti, obiettivi e azioni da mettere in campo per la riduzione delle differenze sincroniche e diacroniche.
Dal punto di vista delle dimensioni analitiche dei modelli di programmazione, ci si può chiedere se e quanto il principio sia perseguito ed applicato nei diversi modelli. (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 54).
La programmazione sinottica, modello indiscusso fino ai primi anni Settanta del ‘900, parte essenzialmente da alcuni assunti di base (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 195):
1. vi è un’unica entità di programmazione che definisce gli obiettivi, assicura la piena coincidenza dell’interesse collettivo con quello individuale e quindi anche i criteri valutativi;
2. tale entità possiede una conoscenza completa, complessiva, sintesi dei differenti punti di vista (appunto sinottica);
3. si assume che sia possibile identificare precisi nessi di causalità tra le problematiche sociali, permettendo così di progettare interventi mirati a modificare la realtà in base a disegni predeterminati;
4. i beneficiari sono visti come soggetti passivi.
Un modello essenziale per standardizzare le azioni, garantendo interventi omogenei nei vari territori: lineare, logico-deduttivo, semplificatorio e teoricamente efficiente.
Il presupposto è che la conoscenza della realtà sia assoluta e detenuta nelle mani di un ente superiore, il quale costruirà il processo in un’unica volta sulla base della propria “visione”. La sua attuazione avverrà poi per mano dei livelli inferiori in un rapporto di sostanziale dipendenza e obbedienza e mera trasposizione delle direttive.
Tuttavia i modelli di programmazione si sono evoluti e sviluppati nel tempo seguendo filoni di pensiero istituzionale, concezioni della società, approcci alle politiche sociali, ruoli delle parti sociali e sviluppi del pensiero scientifico.
In questo senso l’approccio incrementale, progressivamente autonomo e alternativo, si è distinto come critica al modello programmatorio razionalista, ed ha generato, in campo sociale, una “famiglia” di modelli articolati (Siza, 2004). A livello generale ed economico si è parlato di superamento della pianificazione centralistica, statalista, “coercitiva” (Martini, 2002) che ha caratterizzato i sistemi a economia pianificata in opposizione a quelli a economia di mercato.” (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 196)
Pertanto, nelle famiglie incrementali si parte da nuovi presupposti:
1. la razionalità è limitata (Simon anni ’60 – 2000) e la conoscenza è un processo di progressivo avvicinamento alla realtà;
2. la programmazione viene fatta poco alla volta, si adatta alla realtà e al mutare delle circostanze, assumendo forme diverse;
3. si riconosce l’importanza di più attori tra pubblico e privato in un tentativo di mutuo accomodamento tra le parti;
4. i beneficiari sono visti come attori del cambiamento.
Negli ultimi venticinque anni si è iniziato a parlare molto di sistemi di programmazione bottom up e top down, senza che di essi sia stata fornita una chiara e approfondita definizione e, spesso, con una certa retorica, una forma di etichettamento, che spesso travisa i contenuti reali dei due approcci, raffigurando il bottom up come legato ad un concetto positivo inclusivo, mentre il top down tendenzialmente negativo.
In generale, per bottom up si intende un processo che inizia dal basso e prosegue verso l’alto per influenzarne e definirne le scelte, ovvero, meglio, dal livello locale o più decentrato a quello più ampio (viceversa top down), coniugando la sussidiarietà con il superamento dell’approccio sinottico. (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 201)
Sibilla (2008, p. 18) individua il primo come una forma di “coscientizzazione” della società civile, in quanto «gli interventi realizzati dalle istituzioni politiche partono dalle istanze mosse dai cittadini, ossia da parte di chi vive il problema in prima persona o ne è più vicino», distinguendo tra “principio di prossimità”, tanto usato in ambito sociale (deve essere coinvolto chi è più vicino al problema perché nessuno lo conosce meglio), e “principio di sussidiarietà” (nelle sue dimensioni di verticalità e orizzontalità).
Alcuni elementi distintivi di tendenza.
Nei modelli bottom up la sussidiarietà trova più facilmente la sua espressione in quanto il processo di individuazione delle priorità viene affidato all’Ente più prossimo al cittadino e poiché la gestione del potere è localizzata e decentralizzata. In questo senso la concertazione, premessa nelle programmazioni bottom up, non è solo “un invito alle rappresentanze dei livelli istituzionali regionali e locali a partecipare ad un tavolo già definito nelle procedure e nei contenuti, ma costituisce l’inizio di un nuovo ciclo della politica”: un momento di partecipazione e confronto allargato già dall’avvio del processo in cui sono favorite dinamiche locali (raccolta delle informazioni, conoscenza della realtà, individuazione degli interventi, etc.) funzionali alla selezione delle priorità da raggiungere.
Diversamente nei processi top down la relazione tra i vari attori nella definizione degli obiettivi si struttura in modo più gerarchico e centralizzato, a volte anche appropiandosi di competenze che in realtà spetterebbero ai livelli sottostanti, erodendo, compromettendo o riducendo in questo modo il principio di sussidiarietà.
Resta il problema della definizione degli ambiti territoriali di programmazione (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 35) che in un approccio top down è chiaramente espresso dalla autorità emanante. Mentre in un approccio rigidamente bottom-up, la programmazione del livello “superiore” (o di area più vasta) sarebbe solo la sommatoria di quanto definito al livello “inferiore” (area più ristretta). In questo modo, ciascuno si occuperebbe esclusivamente delle problematiche del proprio livello, senza porre attenzione a quelle generali. Verrebbe meno il fine ultimo della programmazione, che è la riduzione delle differenze sincroniche e diacroniche, poiché ciascuno si concentra sul particolare e nessuno sul generale (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 202, si veda la scheda Multi level governance).
Quando si parla di formalità ci si riferisce al fatto che vi sono degli atti normativi che prevedono la messa in opera di un corollario di procedure da compiere, riconosciute e riconoscibili da tutti e funzionali al raggiungimento di determinate obiettivi/azioni: procedure standardizzate e trasparenti, tali da garantire il rispetto dei poteri, ruoli e mansioni. La formalizzazione delle procedure che danno vita al processo programmatico, in sintesi, determina ciò che si può fare e ciò che non si può fare, e al contempo dice chi fa che cosa (Merlo G., Bordone G., 2025 p. 203)
Quando si parla di informalità non si esclude la presenza della burocrazia con al seguito “una serie di uffici e status gerarchici”, o che non vi siano delle procedure formali da rispettare. Piuttosto che queste vengano aggirate, ignorate, per procedere attraverso le frange dell’informalità, non riconosciute, non standardizzate. Pertanto le azioni compiute, funzionali al raggiungimento di determinate azioni/obiettivi, non prevedono un set riconoscibile di sequenze e divisioni dei ruoli che permangono nel tempo.
Un’informalità portata all’estremo rischia di non rendere chiaro e trasparente il processo decisionale, i ruoli e mansioni dei diversi attori coinvolti, lasciando ai decisori (spesso i politici) un eccessivo grado di discrezionalità. Inoltre, dal punto di vista relazionale, si rischia di dare vita a “fenomeni di favoritismo, nepotismo, servilismo, ecc.”
Di contro il rischio di una programmazione sociale fortemente basata su una struttura formale di interazione/azione, sfocia facilmente nei difetti della burocrazia. Un’eccessiva burocratizzazione, formalizzazione delle azioni da compiere, un’esasperata conformità ai regolamenti, non permetterebbe una sufficiente duttilità alle circostanze, contingenze, rischiando di rendere l’azione, cieca dinanzi ai particolarismi, poco flessibile ai mutamenti sociali e di contesto. Questo formalismo potrebbe “essere a tal punto esagerato da provocare una situazione in cui la conformità alle norme, diventa interesse primario, ostacolando il raggiungimento degli scopi dell’organizzazione, e cosi si hanno i fenomeni piuttosto comuni del tecnicismo”. (Merlo G., Bordone G, 2025 p. 163)
Pertanto sono numerosissime le possibili caratteristiche che compongono il quadro. Di seguito una prima analisi.
In sintesi.
Un quadro estremamente articolato (e non esaustivo) che pone l’attenzione anche su caratteristiche non autoescludentesi.
Per questo al fine di rintracciare la natura di un processo programmatico in atto occorre prendere in considerazione simultaneamente diverse caratteristiche. Un’analisi di questo tipo ci condurrà a scoprire che nella realtà si trovano modelli ibridi, senza una applicazione rigida di modelli teoricamente definiti che risultano dalla composizione delle diverse dimensioni prese in considerazione.
Tuttavia, dato che le connessioni sono sistemiche, si possono rintracciare due approcci dicotomici vedi la scheda: Approcci rigidi e flessibili:
approcci rigidi: il modello sinottico e l'approccio top-down trovano la loro espressione più compiuta nel concetto di government, che privilegia una struttura centralizzata e decisioni uniformi calate dall'alto, pensate per garantire coerenza strategica e controllo;
approcci flessibili: i modelli incrementali e l'approccio bottom-up sono i pilastri del concetto di governance, che abbraccia la complessità, la partecipazione, la negoziazione continua, il consenso nella co-costruzione delle soluzioni tra una pluralità di attori.
Approfondimenti:
Balducci A., Incertezza e azione di Piano. Un possibile uso pratico della planning theory, in Critica della Razionalità Urbanistica, 5, 1996
Christensen K.S., Coping with Uncertainty in Planning, Apa Journal, Winter, 1985
Lindblom C., “The Science of ‘Muddling Through.’” Public Administration Review 19, no. 2 (1959): 79–88
https://www.jstor.org/stable/973677Merlo G., Bordone G., Guida alla programmazione sociale, Carocci 2025
Merton R. K., Teoria e struttura sociale. vol II. Studi sulla struttura sociale e culturale, Il Mulino, Bologna, 2000
Monge F., Entrepreneurship, Giappichelli Editore, Torino, 2016
Pressman, J. L. & Wildavsky, A., Implementation, University of California Press 1973
https://archive.org/details/implementationho00pres?Siza R, Progettare nel sociale. Regole, metodi e strumenti per una progettazione sostenibile, FrancoAngeli, Milano, 2003
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