L'assistenza sociale e sanitaria pubblica in Italia

G. Merlo, La programmazione sociale: principi, metodi e strumenti, Carocci 2014

Capitolo: 2.4 La programmazione pubblica: perché e quando

BOX DI APPROFONDIMENTO  n.12

N.B. I riferimenti bibliografici si riferiscono alla sito bibliografia del testo. Nel caso di citazione si consiglia la seguente notazione: “Merlo G., La programmazione sociale: principi, metodi e strumenti”, allegato web box n.12, Carocci, 2014

INDICE ANALITICO GENERALE

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Borzaga e Fazzi (2005) sistematizzano la storia delle politiche sociali del secolo scorso in cinque fasi: la sperimentazione (1870- anni 20 del secolo scorso), il consolidamento (anni trenta – cinquanta), di espansione (cinquanta – sessanta), istituzionalizzazione (sessanta – settanta), rallentamento (ottanta – novanta)[1], descrivendola come “una parabola che ha raggiunto già il suo apice e si ritroverebbe ora in una fase di discesa irrefrenabile (ivi, p. 278)”.

Con la proclamazione dell’Unità d’Italia per la prima volta si pone all’attenzione pubblica il tema dell’assistenza fino ad allora concepita come attività di mera beneficienza di tipo privatistico, fondata su motivazioni quasi esclusivamente etico-religiose, attraverso Enti ed Istituzioni (Opere pie) che gestivano ospedali, cronicari, infermerie, orfanotrofi, istituti di ricovero, mense popolari, asili notturni e fondazioni dotalizie per fanciulle, povere, puerpere e vedove (Degani e Mozzaniga 2009 cap. 2).

Dal punto di vista sanitario la preoccupazione è quella della profilassi delle malattie infettive[2] (evitare e rimuovere la diffusione di malattie epidemiche e contagiose o che comunque presentino una particolare pericolosità) (Catelani A., 2010, cap. 1), così come sul versante sociale l’attenzione è sul controllo sociale delle emarginazioni e delle povertà, finalizzata a contenere reazioni sociali. 

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La legge Rattazzi[3] del 1862 istituì in ogni Comune la Congregazione di carità con lo scopo di curare l'amministrazione dei beni destinati all'erogazione di sussidi e altri benefici per i poveri, nonché la vigilanza sulle preesistenti Opere Pie, mentre con la L 2248 del 1865 si definisce come tra le spese obbligatorie del Comune vi siano quelle per l’assistenza sanitaria per i poveri (e il mantenimento degli esposti) che porterà ad una prima istituzione del cosiddetto registro comunale degli indigenti.

Nei trent’anni successivi all’Unità d’Italia cominciano ad affermarsi alcuni istituti di beneficienza svolti da organismi pubblici, tra cui: per gli indigenti un minimo di assistenza sanitaria (Comune), i patronati scolastici della scuola primaria ed il gratuito patrocinio; nonché il mantenimento e la cura dei malati di mente (Province) e la tutela dei bambini illegittimi (Provincia e Comune) (Guiducci P. G., 2009 parte prima).

La Legge “Crispi” del 1890[4] segna il primo vero passaggio dalla fase della carità privata a quella della beneficienza pubblica: le oltre 20.000 Opere Pie, pur mantenendo la loro natura privatistica, vengono trasformate in Istituzioni di Pubblica Assistenza e Beneficienza (IPAB) sotto la sorveglianza del Ministero dell’Interno.

È in quegli anni che sul versante sanitario nascono grandi sanatori, dotati di migliaia di posti letto, per curare ed isolare i malati di malattie contagiose, mentre su quello sociale agli asili e ricoveri, nonché opere pie elemosiniere e confraternite (Russo R. M., 1974 cap.1), trovano la loro massima espansione le Società Operaie di Mutuo Soccorso[5] (esperienze di associazionismo come forma di autodifesa).

Pertanto fino fascismo il quadro della assistenza pubblica risulta delineato nel seguente modo: in prima istanza sono le istituzioni di beneficienza a provvedere in base alle loro risorse finanziarie; nei casi di loro assenza o per un’eventuale impossibilità economica, intervengono le Congregazioni di carità, istituite in ogni Comune; altrimenti subentra il Comune competente per domicilio di soccorso, cioè quello nel quale il cittadino che chiede assistenza vi dimori da almeno 5 anni; qualora neanche il Comune sia in grado di intervenire, è lo Stato che se ne deve occupare (Villa F., 2000 cap.3).

Il ventennio fascista ereditò dall’Italia liberale un sistema costituito essenzialmente da una miriade di istituzioni non coordinate ed uno scarsissimo intervento pubblico, mentre “la concezione assistenziale fascista prevedeva un intervento più esteso rispetto alla mera carità privata (volta esclusivamente al conforto contro la miseria e la malattia del singolo) e all’intervento dello stato liberale (mirante ad assistere unicamente i più poveri e disagiati per ragioni di ordine pubblico). Lo Stato sociale fascista può infatti essere considerato come «un processo di progressiva trasformazione del sistema di protezione sociale creato in età liberale», finalizzato a realizzare un preciso disegno politico e ideologico” ed “alla ricerca del consenso (Pipino M. G., 2010)”.

In questa direzione, a partire dagli anni ’30, vengono progressivamente istituiti sistemi di assicurazione obbligatoria contro le malattie la cui gestione è affidata a quasi duemila di appositi Enti pubblici, denominati Enti Mutualistici, con una netta separazione tra lavoratori ed indigenti. I primi sono protetti dalla propria cassa «Mutua» (ciascuna preposta ad una determinata categoria di lavoratori e con differenti sistemi, meccanismi e livelli di protezione), mentre gli iscritti nei registri comunali degli indigenti restano in capo a ciascun Comune (attraverso i «medici condotti» e rimborso agli ospedali) e, pertanto, alle sue disponibilità finanziarie, nonché attenzione e sensibilità.

Nel frattempo (1937) gli Enti Comunali di Assistenza (ECA) vanno a sostituirsi alle Congregazioni di carità nel soccorso e assistenza ai poveri del Comune, agli orfani, ai minori abbandonati, ai ciechi e sordomuti poveri, con una assistenza generica, in un ruolo complementare alle IPAB.

Vengono, inoltre, creati una serie di nuovi enti nazionali, ciascuno con differenti e specifiche competenze, tra cui: l’Unione Italiana dei Ciechi (1923), l’Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia (1925), i Consorzi Provinciali Antitubercolare (1927), l’Opera Nazionale per gli Orfani di Guerra (1929), l’Ente Nazionale per la Protezione ed Assistenza ai Sordomuti (1932), l’Istituto Nazionale per le Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro (1933), l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (1935), l’Ente per l’Assistenza degli Orfani dei Lavoratori Morti per Infortunio sul Lavoro (1941), l’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per i Dipendenti Statali (1942), l’Istituto Nazionale per l’Associazione contro le Malattie (1943). 

Nel stesso periodo il corporativismo fascista spingeva le imprese a creare servizi che cementassero tra operai e datori di lavoro uno spirito di collaborazione capace di superare gli “egoismi di classe”, contrapposti ai “superiori interessi della nazione” creando anche l’Opera nazionale dopolavoro (OND) come coordinamento delle iniziative. A partire dai grandi gruppi industriali (Fiat, IRI, etc.) nascono così le “provvidenze sussidiarie e integrative” (mutue) che troveranno ulteriore grande sviluppo dopo la seconda guerra mondiale con il cosiddetto miracolo economico[12].

Le logiche di fondo del disegno complessivo sono quelle della categorizzazione degli assistiti (categorie del bisogno), del corporativismo (appartenenza alle differenti attività economico produttive) e del centralismo (i diversi enti sono “Opere Nazionali”), logiche che resteranno a lungo, anche in età repubblicana. 

Con la caduta del fascismo la Carta Costituzionale diviene il nuovo punto di riferimento per la strutturazione delle politiche di assistenza, ma ci vorranno decenni perché trovino concreta attuazione gli articoli 2, 3, 32 e 38 (diritti del cittadino e responsabilità dello Stato verso il loro benessere) e 117, 118 (attribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo).

Sul fronte sanitario, solo nel 1958 viene istituito il Ministero delle Sanità, scorporandolo da quello degli Interni, con il compito di provvedere alla tutela della salute, in una situazione in cui alla settorializzazione e parcellizzazione dei sistemi di protezione si aggiungeva il fatto che gli ospedali dipendevano di volta in volta da una miriade di Enti di assistenza e beneficienza quali Ipab, Inps, Inail, Inam, Cri, Comuni, Province, Consorzi provinciali antitubercolari, ciascuno con un proprio ordinamento, una propria gestione e regole di accesso differenti.

Dieci anni dopo la legge Mariotti[6] trasforma tutti gli ospedali[7] in Enti ospedalieri, cioè in Enti dotati di personalità giuridica pubblica sottoposti al controllo del Ministero della Sanità e dei suoi organi periferici, li divide in zonali, provinciali e regionali, definisce alcuni livelli strutturali e gestionali, conferendo loro l’incarico di partecipare alla difesa della salute ed alla promozione dell’educazione igienico-sanitaria del malato e della propria famiglia. Quasi contemporaneamente viene varato un programma per lo sviluppo dell’edilizia ospedaliera[8].

Nel 1978 viene, infine, istituito il Servizio Sanitario Nazionale[9] che sopprime tutto il complesso sistema precedente in un’ottica universalistica di assistenza sanitaria per tutti i cittadini e con l’obiettivo di garantire in tutto il territorio nazionale il diritto a tutti i cittadini alle medesime condizioni di salute e gli identici servizi, finanziato attraverso la fiscalità generale (e quote di contribuzione individuali come i tickets), definendo altresì i livelli di responsabilità nell’articolazione dello Stato.

Da allora molte sono state le modifiche e le innovazioni nelle strutture organizzative e gestionali, ma l’impianto è restato fondamentalmente lo stesso.

In campo specificamente sociale un primo punto di svolta arriva nel 1977 con il DPR 616[10] che attribuisce ai Comuni tutte le funzioni amministrative relative all’organizzazione e all’erogazione dei servizi di assistenza e beneficenza, ma si dovrà attendere ancora fino al 2000 con la legge 328[11] per avere un impianto universalistico ed unitario.

In ambedue i campi, la riforma della Costituzione del 2001 modificherà i livelli di competenza nell’articolazione dello Stato.


Approfondimenti:

Dal Passo F., Storia dell’assistenza. Nascita, evoluzione e futuro del Welfare State, Edizioni Accademiche Italiane, Milano, 2015. 


[1] Per una trattazione della storia delle politiche sociali in Italia, ma anche dei differenti modelli visti in una dimensione internazionale, nonché delle riforme nei settori previdenziale, sanitario, del lavoro e socio assistenziali, vedasi Borzaga e Fazzi 2005
[2] L 2248/1865 che prevede l’affidamento della salute pubblica al Ministro dell’Interno ed alle sue articolazioni territoriali.
[3] LN 3 agosto 1862 n. 753
[4] Legge n. 6972 del 17 luglio 1890 “Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”
[5] L 3818/1886 “ Costituzione legale delle Società di Mutuo Soccorso”. Nel 1884 erano 6722 (Ministero Agricoltura 1898) e nel 1904 sono censiti 926.000 soci ((Ministero Agricoltura, 1906).
[6] LN 132/1968 ““Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera”
[7] Per gli ospedali dipendenti da Ordini religiosi sono previste clausole per cui, pur restando soggetti privati, possano entrare nella programmazione delle rete ospedaliera pubblica. 
[8] LN 383/1969 “Concessione di contribuiti per opere ospedaliere”
[9] LN 833/1978 “Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale”, la cosiddetta “Riforma sanitaria”.
[10] Decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. Attuazione della delega di cui all’art 1. della legge 22 luglio 1975, n. 382
[11] LN 328/2000 "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali"
[12] Per un approfondimento: Musso S., I servizi sociali aziendali, Storiaindustria.it http://www.storiaindustria.it/repository/fonti_documenti/biblioteca/testi/Testo_Servizi_sociali_aziendali.pdf

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