ulteriori contributi

DICEMBRE 2020

ANCORA SULL’EDUCAZIONE AMBIENTALE :

Riprendiamo i contenuti del numero precedente che è stato molto apprezzato, pubblicando due graditi contributi :

- il primo è di A. Olivieri e interviene in merito all’eventuale possibilità di costruire un curricolo di educazione ambientale ;

- il secondo è di V. Sanguineti , collaboratore di Pedagogia 20.20 e presenta un’ipotesi, già sperimentata nelle scuole superiori di utilizzo della robotica in agricoltura

Ecco cosa scrive Anna Olivieri :

alla domanda se ci può essere un curricolo di educazione ambientale risponderei senz'altro di sì, le condizioni per me erano e restano le seguenti:

>> primo: l'accordo fra gli insegnanti che agiscono sulla classe, infatti non può essere relegato ad una singola disciplina data la sua natura interdisciplinare.

>> Secondo: la formulazione di una programmazione chiara e trasversale con tempi, metodologie e modalità di lavoro per alunni.

>> Terzo: insisto sulla decisione sofferta del tempo scuola da dedicare, perché specialmente nelle Medie viene visto come erosione alle spiegazioni della singola disciplina.

>> Quarto: aver bene in chiaro gli eventuali interventi di esperti esterni e/o la collaborazione di esperti (nel nostro caso era Parco Aveto e non solo) .

>> Quinto: informare nei dettagli i genitori e colleghi di altre classi di un curricolo di " Educazione Ambientale", passatemi il termine romantico.

Sesto: passione ed entusiasmo.

Riportiamo ora il racconto di Valerio Sanguineti :

Aspettando Farmbot - Considerazioni sul ruolo della robotica nel recupero produttivo e paesaggistico dei territori svantaggiati

Bisogna partire dal prendere atto del fatto che la Liguria è la prima regione boscata d’Italia in rapporto alla superficie coltivabile . Tale “primato” è figlio dell’incuria generale del territorio: si tratta quindi di una vegetazione spontanea che ha preso il posto dei terreni coltivati soprattutto in collina; questo fenomeno continua a progredire e, in complicità con uno sviluppo edilizio ed infrastrutturale affatto lungimirante, porta inevitabilmente al dissesto idrogeologico, alla presenza di un sempre

maggior numero di frane, alla diffusione degli incendi.

La manutenzione dei terrazzamenti in pietra a secco, caratteristici del paesaggio ligure e così tanto vulnerabili all’abbandono, richiede una grandissima quantità di lavoro ed un presidio costante che devono trovare una giustificazione economica. Per secoli ciò non è stato un problema: un mix indovinato di coltivazioni impossibili in altre aree del Paese e di strategicità delle vie di comunicazione ha permesso il mantenimento del plusvalore necessario. Oggi, invece, non è più così. Nel secondo dopoguerra il modo di fare agricoltura è cambiato profondamente. I progressi nella meccanizzazione e nella chimica agroalimentare hanno messo a punto tecniche in grado di garantire produzioni abbondanti con un impiego di manodopera ridotto, ottimizzate tuttavia per il campo aperto e la coltivazione intensiva. Coltivare i campi terrazzati è quindi un’impresa sempre più ardua

e perdente rispetto all’agricoltura fatta in pianura.

A questo punto mi sono fatto una domanda ben precisa…..c’è un modo per interrompere questa catena così pericolosa?

Secondo me sì, cerco di spiegare il procedimento da adottare :

>> in primo luogo bisogna liberare i terrazzamenti dalla vegetazione boschiva spontanea che nel tempo ha preso il posto delle coltivazioni, minando le strutture dei muretti a secco. Si tratta tuttavia, di un’attività onerosa e “a perdere”, il cui costo può erodere pericolosamente il margine ottenibile dai prodotti agricoli coltivati in seguito. Occorre quindi condurla in modo che sia vantaggiosa in sé e non vada a compromettere la competitività della coltivazioni successive. Un modo economicamente

sostenibile per farlo, per fortuna, c’è e consiste nel valorizzare la biomassa legnosa, trattandola come una risorsa e non come uno scarto ed avviandola a procedure di recupero. Con gli sfalci e le ramaglie, passando per un procedimento di bio-triturazione, si può produrre terriccio da impiegare nuovamente in loco; il legno, invece, può essere ridotto a scaglie per alimentare caldaie e centrali termiche.

Il cippato di legno, infatti, quando prodotto “a chilometri zero” può risultare per l’utilizzatore finale più conveniente di altre forme di energia ed ha pertanto un mercato interessante;

>> a questo punto, visto che il terrazzamento non è coltivabile con le macchine usate in pianura, entra in campo la robotica, che ben si presta ad essere impiegata in spazi confinati (si pensi ad esempio all’impiego in microchirurgia). Esistono infatti soluzioni nate per automatizzare in maniera quasi completa le coltivazioni orticole amatoriali, che, per certi versi, sono molto simili alle classiche “fasce” liguri, che possono essere paragonate al classico orto casalingo, spesso coltivato in cassoni di legno fuori terra. Una di queste è “Farmbot” : una macchina a controllo numerico computerizzato in grado di occuparsi autonomamente di un determinato appezzamento di terreno: gli metti a disposizione un “letto di semina” (preparato, magari, con il terriccio ricavato sul posto nella fase precedente) e lui lo coltiva dalla semina alla raccolta, svolgendo tutte le fasi che quotidianamente fa il

buon agricoltore. A questo punto, mentre il robot lavora, il contadino può andare avanti nel recupero del territorio ed occuparsi di altro che possa incrementare il proprio reddito.

La principale virtù di Farmbot, tuttavia, non risiede tanto nelle sue capacità tecniche, quanto nella natura “a sorgente aperta” del progetto. Il concetto di “open source”, familiare a chi si occupa di informatica, prevede che gli autori di una soluzione mettano a disposizione del pubblico tutte le istruzioni necessarie per realizzare il prodotto, ad una sola condizione: che ogni miglioria apportata al progetto originario venga resa pubblica nella stessa forma. Così facendo chi ha un’esigenza simile

ad altre già affrontate può risolvere il proprio problema senza partire da zero e reinventare l’acqua calda e concentrarsi piuttosto sulle personalizzazioni.

Il suo lavoro confluirà poi nel progetto originario, arricchendolo ed agevolando coloro che lo utilizzeranno

dopo, e così via.

Per questa ragione, oltre che all’impiego in maniera massiccia nei terrazzamenti (che resta una sfida non facile, necessitando ad oggi di acqua, energia elettrica e collegamento al web), FarmBot si presta moltissimo alle attività educative ad ogni livello: non solo nelle università e negli istituti tecnici (dove gli allievi ed i ricercatori possono contribuire allo sviluppo), ma anche nelle scuole del primo ciclo, all’interno di un percorso che preveda tanto visite in azienda quanto la coltivazione dell’orto scolastico. Anche le attività con i disabili e con gli alunni più problematici potrebbero essere ricche di spunti e di obiettivi validi.

Per le attività didattiche ho pensato di coinvolgere anche lo staff genovese di Scuola di Robotica , che ha accolto l’idea con entusiasmo e sta predisponendo progetti e proposte didattiche ad ogni livello.

In conclusione, quindi, la robotica potrebbe contribuire sia alla ripresa dell’agricoltura nei nostri paesaggi terrazzati, sia alla difesa e al ripristino di un territorio così particolare e affascinante.

Chi desiderasse maggiori informazioni può scrivere a valerio@verderam.com

Sitografia di riferimento:

http://www.pianetapsr.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2161

https://www.aielenergia.it/public/rassegna_stampa/854_3%20agosto%202020%20qualenergia.it.pdf

https://farm.bot/

https://www.scuoladirobotica.it