La Costituzione secondo Don Milani

DON LORENZO MILANI E LA FORMAZIONE DEL CITTADINO

Per trattare l'argomento, fondamentale riguardo alla riflessione sui temi di questo numero, riportiamo i punti principali di quanto pubblicato da "Associazione XXV Aprile" di Cremona. Il testo è piuttosto lungo ma non ci siamo sentiti di ridurlo, in quanto la sequenza logica è molto ben articolata.

E’ nota la straordinaria rilevanza che la Costituzione della Repubblica ebbe per Don Milani. Si racconta che sul comodino accanto al suo letto, a Barbiana, tenesse stabilmente due testi: la Bibbia e la Costituzione, la profezia religiosa accanto a quella laica e civile (ebbe a dire: “il Vangelo vale solo per i credenti, ma la Costituzione è obbligatorio per tutti rispettarla”…
Lo studio della Costituzione era costantemente presente nell’insegnamento di don Milani. Se ne trovano ampi riferimenti in Esperienze pastorali, nella Lettera ai cappellani militari e in quella ai giudici, in Lettera a una professoressa e nelle lettere pubblicate postume.
Alla scuola di Barbiana vari grafici su temi di educazione civica (il diritto al voto, la storia del Parlamento italiano dal 1921, l’iniquità fiscale, la piramide della selezione scolastica, il diritto al lavoro…) stavano appesi ai muri dell’aula e oggi sono riprodotti nel percorso didattico. La Costituzione era considerata dal Priore un’arma fondamentale di difesa degli ultimi, i figli dei contadini semi-analfabeti ai quali egli voleva fornire la cultura come mezzo per emanciparsi da una situazione di inferiorità economica e sociale. Agli occhi dei barbianesi i valori e le promesse costituzionali apparivano elementi di grande novità con una forte carica innovativa, tesa al riscatto delle persone deboli. È proprio a quel contesto sociale che guarda don Lorenzo e forma i suoi ragazzi ad impegnarsi nella vita per eliminare le disuguaglianze che creano ingiustizie sociali.
L’articolo 3, e gli articoli 11, 34, 52, risulteranno i più “praticati” dal Priore di Barbiana, come ci dimostra una vicenda – cruciale – del 1965, sulla quale, in particolare, bisogna soffermarsi.

L’antefatto

L’11 febbraio di quell’anno (da notare la data, non casuale!) alcuni cappellani militari toscani in congedo sottoscrivono un comunicato (poi pubblicato dal quotidiano La Nazione) col quale si condanna con pesanti espressioni l’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare obbligatorio, stigmatizzata come scelta di persone “vili”.



L’indignazione di don Milani

A quel comunicato il Priore di Barbiana risponde con una lettera, frutto di una discussione con i suoi allievi, indirizzata a quei cappellani militari, ma resa pubblica dal settimanale del Pci, Rinascita, nel numero del 6 marzo. Esaminiamo la lettera.
Poco dopo l’esordio, l’argomentazione prende avvio da due domande:
“ […]-perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo?” [allude ai 31 obiettori detenuti all’epoca nel carcere militare di Gaeta]
“[…]-perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi?” [allude, in particolare, alla parola “patria”, sul cui uso si sofferma ampiamente].


E poi: “Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.
[…] Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. […] Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…».
Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».

Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo?

Scorriamo insieme la storia. Volta a volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.
Poi dal ’39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l’altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia). Era una guerra che aveva per l’Italia due fronti. L’uno contro il sistema democratico. L’altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data.
Ma in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra «giusta» (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altra soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i «ribelli», quali i «regolari»? […]”

Il 18 ottobre del 1965 Don Milani aveva scritto una lunga lettera ai magistrati che avrebbero dovuto giudicarlo, ancora una volta dopo averne discusso con i suoi allievi. Il testo è noto come Lettera ai giudici e merita di essere ripercorso in alcuni passaggi particolarmente significativi:
“[…] da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l’anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme. […]
Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”.

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione). […] Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico. […] E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. […] non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. […] L’Assemblea Costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola alla Carta Costituzionale “al fine di rendere consapevole la nuova generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali” (ordine del giorno approvato all’unanimità nella seduta dell’11 Dicembre 1947). Una di queste conquiste morali e sociali è l’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”.

Che idea si potranno fare i giovani di ciò che è crimine? Oggi poi le convenzioni internazionali son state accolte nella Costituzione (art. 10). Ai miei montanari insegno ad avere più in onore la Costituzione e i patti che la loro Patria ha firmato che gli ordini opposti d’un generale. Io non li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciar vivo un bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti. Ricchi del buon senso dei poveri. Immuni da certe perversioni intellettuali di cui soffrono talvolta i figli della borghesia. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico. […] Allora la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una “guerra giusta” né per la Chiesa né per la Costituzione. […] ”

Si è voluto qui far parlare direttamente il Priore di Barbiana piuttosto che commentare o parafrasare i suoi scritti. Si può giungere, comunque ad una conclusione. Emerge con tutta evidenza, dalle pagine qui riportate, l’idea di cittadinanza e di cittadino coltivata da Don Milani: un cittadino capace di esercitare liberamente il suo pensiero critico e, soprattutto, la personale libertà di coscienza, che prevede, nel rapporto con la legge, obbedienza e disobbedienza, dove la scelta (responsabile) tra l’una e l’altra è orientata – sempre – da una superiore consapevolezza morale.