Educare è introdurre alla realtà

di Don Alberto Gastaldi

EDUCARE E’ INTRODURRE ALLA REALTA’

Nell’accompagnamento dei giovani è fondamentale mettersi in ascolto del bene presente nella quotidianità.

E’ capitato a molti di noi, forse a tutti, che qualcuno ci indicasse di rivolgere il nostro sguardo verso una realtà bella con questa espressione: “Guarda!”. Un’esperienza che racchiude tutta la grandezza e la concretezza dell’educare. Lev Vygotskij, psicologo e pedagogista russo, descrive l’educazione come la “funzione del dito indice”: nella crescita di una persona c’è il dito che indica una realtà e lo sguardo che segue questo dito fino ad arrivare al contenuto che quest’ultimo indica. Passando il tempo, diventa qualcosa di più invisibile: la funzione del dito si trasforma in insegnamento. Un bambino cresce perché accanto a lui trova un adulto che gli mostra ciò che accade di significativo. In questi ultimi mesi, di fronte alla pandemia, abbiamo compreso quanto sia stato importante stare accanto ai giovani in una situazione inedita indicando segni di luce pur in una notte oscura.
Nel Vangelo c’è un episodio suggestivo che ci propone uno stile educativo che parte dall’aver occhi capaci di riconoscere “il mondo”. Gesù prende per mano un cieco e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impone le mani e gli chiede: «Vedi qualcosa?». L’uomo, alzando gli occhi, risponde: «Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano». Gesù con un gesto esprime la sua presenza amorevole (prende la mano) e con un invito mette in gioco la risposta di chi gli sta accanto (vedi?). L’uomo, incontrando Gesù, riceve il dono di aprire lo sguardo: “Vedo…”.
Allora gli impone di nuovo le mani sugli occhi ed il malato viene guarito completamente e vede a distanza ogni cosa.
La prima reazione di chi è accompagnato è lo stupore per quello che accade. In questo ultimo periodo, messi da parte i programmi e liberati dalla frenesia degli impegni, abbiamo percepito che ciò che avviene non è solo un susseguirsi di episodi o situazioni, ma è lo svolgersi di una realtà che mi interpella “adesso qui e oggi” (S. Francesco di Sales). Che cosa rivela questo stupore che mi raggiunge? Gli antichi greci dicevano che “la meraviglia è l’inizio della conoscenza”. Posti davanti alla realtà, riconosciamo, prima di tutto, un'evidenza che si impone a noi come un dono.
Ma non basta. Il soggetto si educa nella misura in cui, entrando in contatto con ciò che accade, impara a porsi l’interrogativo «perché?». Neil Postman, sociologo americano, afferma che una delle cause della crisi dell'educazione consiste proprio nel fatto che la scuola non educa più all’arte della domanda. Non possiamo rinunciare a mettere al centro dell’esperienza educativa il senso dell’esperienza umana e il rapporto che noi stabiliamo con gli altri e con il mondo. Un detto ebraico racconta che «in principio Dio creò il punto di domanda e lo pose nel cuore dell’uomo. […] Siamo creature di domande e di ricerca, con punti interrogativi germogliati nel cuore». Questo permette di cogliere il sapore di quello che succede: nel linguaggio biblico questa esperienza è definita “sapienziale”. La parola “sapienza” indica, a differenza della conoscenza analitica delle singole realtà in quanto tali, uno specifico atteggiamento morale dell’uomo, in virtù del quale egli conosce ogni singolo oggetto sempre all’interno della totalità della realtà creata da Dio. Attraverso la conoscenza sapienziale si va “oltre” le cose come esse ci appaiono, ci confrontiamo con aspetti “non misurabili” come il mistero e il significato.
In questa apertura, l’uomo sfugge dall’affrontare la vita come un susseguirsi di esperienze senza fine e senza gerarchie di valore. “Educare cristianamente è portare avanti i giovani, i bambini nei valori umani in tutta la realtà, e una di queste realtà è la trascendenza. Oggi c’è la tendenza ad un neopositivismo, cioè educare nelle cose immanenti, al valore delle cose immanenti... E questo non è introdurre i ragazzi, i bambini nella realtà totale: manca la trascendenza. Per me, la crisi più grande dell’educazione, nella prospettiva cristiana, è questa chiusura alla trascendenza”.
L’azione educativa porta quindi a maturare, nell’intreccio di intelligenza e volontà, perché il pensiero, l’azione e la speranza dell’uomo si svolgano in una dimensione unitaria, arrivando a sperimentare il suo momento più alto. La persona, dotata di responsabilità e capace di operare delle scelte, può così accogliere la promessa di Dio e mettersi in gioco.
Alcuni aspetti della nostra vita possono essere meglio compresi solo con l’aiuto di altri. È quello che comunemente indichiamo con l’espressione “fidarsi di un altro”. L’icona biblica di questa fiducia è Giacobbe. Nel ritorno dall’esilio incontra Dio che, dopo una turbolenta lotta nella notte, gli preannuncia il suo destino: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». Giacobbe accetta il rischio di fidarsi di Dio e da quel momento la sua vita avrà un altro significato.
Il mettersi in gioco non è però solo prerogativa di chi cresce. C’è anche il rischio che è chiamato a compiere il genitore e l’insegnante. L’educatore indica una “proposta” e poi deve lasciare al giovane la libertà della scelta. Il ritirarsi dell’adulto è accompagnato, in uno stile paterno, dall’attesa fiduciosa e dalla premurosa sollecitudine. Gli educatori che ottengono fiducia sono credibili in quanto non propongono solo delle parole ma dimostrano che è possibile vivere quello di cui si parla. Gli adulti però oggi non sanno fare proposte oppure non vivono niente di significativo da proporre? Oppure, a causa di un malinteso senso di protezione, non si vogliono assumere il rischio di far crescere i giovani? Succede, ad esempio, che i genitori sottraggono al figlio l’esperienza del dolore o della morte: è come se volessero far sì che i ragazzi non percepiscano tutta la realtà intera, sottraendogli quella parte che è più faticosa. L’incertezza attuale dei giovani nelle scelte definitive è legata alla precarietà di una presenza adulta. Chi cresce ha bisogno di qualcuno che dia testimonianza di sé. Da soli non si va da nessuna parte.
Il cammino è mostrato efficacemente da un brano del Vangelo: lungo la strada per Emmaus, Gesù si fa maestro a due discepoli disorientati per gli avvenimenti accaduti a Gerusalemme. “Mentre i discepoli parlano Gesù li ascolta e li fa parlare. Questo è il compito del vero animatore: ascoltare e fare in modo che l’altro possa esprimere le proprie ansie e possa spiegarsi bene… Gesù dà rilievo alla libertà dei discepoli, che dapprima scoraggiata e rinunciataria, viene via via rigenerata e aperta alla speranza, alla fiducia nel disegno di Dio sulla storia dell’uomo. Gesù fa questo senza dire cose nuove. Ma sono cose che avevano bisogno di sentirsi ridire e che assumevano un significato nuovo”. Se ci lasciamo stupire e interrogare dalla realtà, possiamo approdare, guidati dal Signore, al cammino della gioia.
(pubblicato sulla rivista VOCAZIONI, N. 02 ANNO XXXVIII, Marzo- Aprile 2021)