Rassegna stampa

Studentessa bendata durante l'interrogazione:

"Mi sono sentita umiliata"

È il giorno dopo l’ennesima manifestazione degli studenti contro la didattica a distanza. I ragazzi sono stanchi di seguire le lezioni dietro al monitor, vogliono tornare sui banchi. Ma finché i dati sui contagi da Covid non migliorano gli studenti più grandi restano in dad. Una studentessa di 15 anni di secondo liceo, interrogata in tedesco - come raccontano Repubblica e Il Corriere del Veneto -, se la cava bene, è forse un po’ troppo preparata e la sua insegnante ha il dubbio che stia leggendo dai libri. In questi mesi i professori hanno imparato a riconoscere i trucchi usati dagli studenti, che oggettivamente sono stati tanti e fantasiosi: suggeritori nascosti nelle camere, appunti e libri sbirciati sotto la tastiera se non anche finte interruzioni di linea quando non sapevano cosa rispondere.

Così la docente ha chiesto alla studentessa di bendarsi gli occhi e la ragazza lo ha fatto sotto lo sguardo imbarazzato dei compagni collegati. Ma la notizia è rimbalzata prima sulle chat, poi tra gli adulti infine è arrivata alla stampa.

A fine lezione la studentessa, 15 anni, si sarebbe confidata con alcuni compagni manifestando disagio. «Mi sono sentita umiliata, mi hanno accusato di imbrogliare». A distanza di alcuni giorni, però, emerge il fatto che almeno altre due persone, nel corso della stessa interrogazione, hanno subito lo stesso trattamento. Un «modus operandi»? La convinzione di alcuni genitori della classe è che ci fosse il «legittimo sospetto» che gli studenti potessero barare in qualche modo e che, di conseguenza, fosse necessario prendere provvedimenti.

COMMENTO: l'episodio in sé è più che deplorevole ma il mio ragionamento va oltre:...una docente così avrà sicuramente usato tecniche vessatorie particolari e molto raffinate anche in classe, umiliando di continuo i ragazzi. Questo episodio ci dà poi un altro segnale di come il nostro sistema scolastico sia allo sbando: ...tanti insegnanti (forse sempre più) pensano che quando chiudono la porta dell'aula possono fare quello che vogliono, non si sentono parte di un sistema, non conoscono le regole del suo funzionamento e non usano il buon senso...

Ciò che la scuola fu per i contadini

di Gian Antonio Stella

da "Il Corriere della Sera"

Mette il magone, quasi un secolo e mezzo dopo, rileggere quanta fiducia riponevano allora le classi più povere nella scuola e nella sua funzione di crescita, liberazione dalla servitù ancora in vigore in tanta parte del Mezzogiorno, di riscatto sociale.
In Calabria «le scuole, da spopolate che erano, diventano un anno più dell’altro frequentate. Bisogna vedere lo zelo che mettono le mamme popolane per far accogliere i figli a scuola e nel vigilare i piccoli progressi! Il fanciullo viene ripulito, vestito e accompagnato a scuola e raccomandato con viva espressione di calore alla diligenza del maestro...», si legge negli atti della monumentale Inchiesta sulle condizioni della classe agricola in Italia, nata nel 1872 e conclusa, sotto la guida di Stefano Jacini, nel 1885. E perché tanto zelo da parte di quelle donne nella stragrande maggioranza contadine e analfabete? «Perché il padre scrive dall’America che suo figlio deve essere istruito, perché ora soltanto egli si accorge del danno del non sapere...»

Ancor più mette il magone rileggere quelle parole oggi, mentre crescono le denunce sul rischio che la pandemia e le difficoltà di quanti non sono in grado di tener il passo con la scuola in remoto (ritardi non recuperabili in tempi brevi) facciano schizzare ancora più su i dati dell’abbandono scolastico, già drammatici in tanta parte del Sud. A partire dalla Campania.

Straordinario fu per decenni, come ricordava mezzo secolo fa Tullio de Mauro nel saggio Storia linguistica dell’Italia unita, proprio il ruolo degli emigrati siciliani e veneti, abruzzesi o piemontesi. Un esempio? «L’inchiesta nelle campagne siciliane constatava che gli iscritti nelle scuole elementari, dal 54,50 % nel 1901-1902, erano saliti al 73,50% appena cinque anni più tardi: la ragione va cercata nell’anima stessa del popolo il quale, nonostante le ostilità e le difficoltà dell’ambiente, è persuaso che la scuola rappresenta per lui un’arma di lotta e di conquista». Per dirla con lo statistico Francesco Coletti, «vanno via bruti e tornano uomini civili». Valeva per i nostri nonni che partivano per l’America, vale per quegli immigrati che sono venuti in Italia a «catàr fortuna», vale per i ragazzi italiani di oggi ai quali, come ai loro nonni, viene chiesto di avere la testa aperta a un mondo più grande. Col quale possono dialogare davvero solo crescendo, crescendo, crescendo.

COMMENTO: questo contributo è stato inserito in primo luogo perché G. A. Stella è una delle migliori penne nel nostro panorama giornalistico; il suo modo di scrivere è efficace, pulito e leggero. Fa bene ogni tanto rievocare il significato dell'esperienza scolastica in una dimensione storica. Ha ragione Stella...viene il magone! E' proprio vero, per il popolo, nonostante le difficoltà della vita quotidiana, la scuola rappresentava un'arma di lotta e di conquista.

Perché si parla poco del costante calo

del quoziente intellettivo della popolazione

di Paolo Ercolani Filosofo, Università di Urbino "Carlo Bo"


Già, il quoziente intellettivo. Al netto di tutte le critiche legittime sui criteri, e sulla pretesa di misurare un fenomeno così complesso come l’intelligenza, se ci atteniamo ai dati degli ultimi cento anni facciamo una scoperta interessante. Per larga parte del XX secolo e fino al 2009 il livello medio di intelligenza della popolazione è aumentato. Ciò è dovuto a vari fattori, tra cui un ambiente sociale e intellettuale più stimolante, il protrarsi e l’intensificarsi degli studi scolastici, le sfide intellettuali lanciate quotidianamente dalla società (attraverso libri, giornali, inchieste eccetera), i progressi della Scienza dell’educazione e, infine, la maggiore attenzione dei genitori nel curare il livello e la qualità dell’apprendimento dei loro figli.

Insomma, la società lavorava per l’intelligenza della popolazione. Fino alla notizia shock del 2016, a cui stranamente si dette scarsa risonanza. Un nuovo studio condotto da R. Flynn e da un suo collega mostrò che tra il 1990 e il 2009 il Q.I. aveva cominciato lentamente ma inesorabilmente a calare. Un calo costante che, oggi, è diventato vero e proprio tracollo, se pensiamo alla percentuale di persone afflitte dal cosiddetto analfabetismo funzionale (sanno leggere, ma non capiscono il senso né sono in grado di rielaborarlo e spiegarlo). Le cause di questo tracollo sono molteplici, come sempre, ma una emerge su tutte le altre: la comparsa di nuove tecnologie digitali che, specialmente nel caso dei più giovani, rappresentano un potentissimo e pervasivo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotive e relazionali.
E dire che l’uomo, fra le creature più deboli fisicamente e povere di istinti di tutto il pianeta, ha un bisogno fondamentale della propria intelligenza, perché è con essa che riesce a sopperire ai limiti di cui sopra e adattarsi alle insidie del mondo esterno. Il processo che consiste nell’immagazzinare dati, creando così la memoria, per poi elaborarli creando un ordine di senso con cui “afferrare” le cose del mondo, si chiama apprendimento. Il fatto che ogni individuo impari il processo di cui sopra in maniera funzionale e singolare, rende possibile la formazione di un pensiero “autonomo e critico”, che significa non meccanicamente generato da dogmi superiori né passivamente omologato alle “leggi” imposte da un regime.
Il guaio è che oggigiorno è l’Intelligenza Artificiale a occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati, con l’intelligenza umana ridotta a svolgere un ruolo ausiliario e sempre più ininfluente. Ecco cosa scrive a tal proposito il neurobiologo L. Alexandre: “Laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, Internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti d’informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta”.

COMMENTO: il contributo di P. Ercolani può essere letto come la continuazione, in prospettiva evolutiva, dell'articolo di G. A. Stella; quando lo sviluppo era più arretrato " la società lavorava per l'intelligenza della popolazione". Nel nostro mondo di oggi, probabilmente, la società lavora per altri fini, meno visibili e sconosciuti quasi a tutti. Il pensiero autonomo e critico è usato sempre meno, non solo dai giovani. L'esperienza scolastica, forse, doveva affiancare meglio l'uso delle tecnologie all'uso costante e produttivo del libro, vera fonte della crescita personale e creativa di ogni essere umano.

Simohamed, insegnante a Genova: "Mi avevano cacciato dalla scuola perché non italiano."

Simohamed ha 39 anni, un leggero accento genovese. Insegna educazione civica, cultura e lingua araba al liceo internazionale Deledda. E’ arrivato da bimbo, con mamma e sorelline: “Ricordo il viaggio in treno, papà era venuto a prenderci a Roma. Un signore anziano e gentile sedeva di fronte, per comunicare aveva fatto alcuni disegni e ce li aveva regalati: sul mio c’era un pallone da calcio”.
Era il 1991. “La mia prima immagine di Genova è stata l’orologio della stazione Brignole, a mezzanotte”. Il padre, Hassan, lucidava l’acciaio. “Un appartamento nel quartiere di Marassi, vicino allo stadio. Il Genoa. I compagni di scuola erano simpatici, ma non conoscevo ancora l’italiano. C’era un ragazzino che mi ripeteva: ‘Negro!’, gli altri ridevano. Non capivo. Me lo ha spiegato il mio amico Idrissa, che aveva il padre del Burkina Faso: ‘Non farci caso, non sono cattivi’. Ora Idrissa fa il cuoco, ha un bel ristorante a Bergamo”.
Liceo scientifico, laurea in lingue, specializzazione a Ca’ Foscari in diritti umani. Nel 2006 supplente in una scuola media. “Hanno scoperto che non ero italiano, credevo bastasse il permesso di soggiorno. Mi hanno cacciato male, il preside ha pure chiesto di togliermi dalle graduatorie”.
Tre anni di battaglie legali prima di riavere il posto, e la cittadinanza. Ha fondato l’associazione Nuovi Profili, è presidente del Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane: “Il nostro futuro è certo: lo dicono i numeri. Il presente un po’ meno: c’è uno scollamento tra la politica e le esigenze reali della comunità nel riconoscere la sua pluralità. Non è solo la questione della cittadinanza. Ma la scuola, il lavoro, i media: tutto va ripensato, offrendo anche a chi ha un background di immigrazione la possibilità di diventare protagonista”.

COMMENTO: una bella storia di lotta e di tenacia; molto diversa da quella della prof. che ha fatto bendare la ragazza prima dell'interrogazione...sicuramente, come dice Simohamed c'è uno scollamento, sempre più ampio, tra la politica e le esigenze reali di una comunità sempre più plurale.