Le miniere italiane dal 1870 al 2019: Prefazione


«Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è così esageratamente orribile, ma anche perché è così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene»

(George Orwell: La strada di Wigan Pier)

Quando nell’ottobre del 2002 ho ricevuto l’incarico di realizzare il “Censimento dei siti minerari italiani abbandonati”, pensavo che me la sarei sbrigata in fretta. Pur essendo ingegnere minerario, in realtà più da scrivania che da campo, avevo una consapevolezza assai limitata dell’argomento: nella mia testa giravano i nomi delle principali miniere italiane degli anni ’70 del secolo scorso, non più di una decina: Monteponi, Montevecchio, Masua e Funtana Raminosa in Sardegna, Abbadia S. Salvatore, Gavorrano e Niccioleta in Toscana, Pasquasia in Sicilia, Salafossa in Veneto, Raibl in Friuli. Di conseguenza, stimavo di raccogliere dati per poche centinaia di miniere; alla fine ne sono state censite 3015, pur limitando il database alle sole miniere attive nell’Italia post Unità e concessionate ufficialmente .

Il fatto è che, anche a livello universitario, l’attività mineraria viene studiata soprattutto dal punto di vista tecnico-scientifico ed economico-industriale, molto meno, se non per niente, da quello storico-culturale e sociale. Ma mentre i primi aspetti sono effimeri e, infatti, l’attività mineraria in Italia, quella delle grandi miniere in sotterraneo di minerali metalliferi, si è sostanzialmente esaurita a partire dalla fine di quegli anni ’70 già citati, schiacciata dalla concorrenza dei mercati esteri e da una globalizzazione che nel campo delle materie prime era già arrivata tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, i secondi hanno forgiato il carattere, le tradizioni, la cultura di gran parte del territorio italiano al di fuori delle aree urbane.

Da nord a sud, dalle montagne alle pianure, le miniere sono state storicamente un fulcro intorno al quale si è realizzata la sopravvivenza economica delle popolazioni locali, prima, la formazione della cultura e delle tradizioni, poi.

Ancora nel 1946 l’Italia, uscita prostrata dalla guerra e in cerca di riscatto, firmò un protocollo d’intesa con il Belgio (fig. 1) in cui si stabiliva che «per ogni scaglione di 1000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2500 mensili di carbone se la produzione sarà inferiore a tonn. 1.750.000 tonn.; 3500 mensili per 2 milioni di tonn; 5000 mensili per più di 2 milioni di tonn». Minatori in cambio di carbone, così il nostro Paese ottenne l’energia necessaria al successivo sviluppo industriale degli anni ’50, salendo sulle spalle di quei minatori per vedere il proprio futuro di paese industriale, come un bambino su quelle del genitore.

Fu un “patto scellerato”, come afferma nel suo libro (La catasfrofa) sul disastro di Marcinelle il giornalista Paolo Di Stefano? Certo costò, tra il 1946 e il 1963, 867 morti, 136 solo nel disastro di Marcinelle. Un prezzo assai salato, che i minatori italiani erano adusi a pagare come dimostra il fatto che nei principali disastri minerari avvenuti nel mondo occidentale nel XX secolo, su oltre 1000 morti, più di 470 erano italiani, provenienti prevalentemente da Abruzzo, Molise e Calabria.

Ma il mondo minerario, duro, pericoloso, faticoso significa anche fascino, avventura, bellezza (Fig. 2). Mi ha sempre colpito, nelle visite guidate in miniera, l’atteggiamento dei vecchi minatori che ricordano il loro lavoro con un senso di nostalgia e di orgoglio, che non si riferisce solo alla giovinezza ormai andata; come se - al di là delle fatiche, dei pericoli, delle malattie professionali, di una retribuzione relativamente ridotta in rapporto all’ambiente di lavoro - si sentissero partecipi di una storia eccezionale che vale la pena di raccontare.

È la stessa sensazione che mi ha spinto a provare a scrivere questa storia, a raccontare questo viaggio nel mondo minerario che prosegue da quasi 20 anni, prima a tempo pieno per realizzare il censimento, poi nei ritagli di tempo per tenerlo aggiornato, fino agli ultimi anni, da pensionato, a cercare di georeferenziare quanti più siti possibili, incrociando i dati storici, le località indicate nei decreti di concessione e i toponimi del Geoportale italiano, per ricostruire un pezzo importante della nostra storia.

Un viaggio a ritroso anche del “mio” tempo che mi ha fatto riscoprire le ragioni di quella scelta compiuta nel 1970, quando con un “triplo salto mortale logico” decisi di rinunciare al “nucleare” per iscrivermi a “Ingegneria mineraria”.

Carlo Dacquino

Fig. 1 – Manifesto di reclutamento nell’ambito del protocollo Italia-Belgio

Fig.2 - Stalattiti nella grotta di Santa Barbara (Miniera di San Giovanni, Iglesias)