Cozzo Disi - Serralonga

Cenni storici

L’economia di Casteltermini, che prima era fondata sull’agricoltura, dalla seconda metà del XIX secolo è passata da agricola a prevalentemente mineraria.

Il territorio non gode di ampie pianure, per cui Casteltermini non ha avuto mai un’agricoltura fiorente o da esportazione, e il passaggio dall’attività agricola quella mineraria è stato quasi obbligato.

Le piccole miniere di Serralonga, Scironello, San Giovannello Lo Bue, Frate Paolo e Mandravecchia sono state in attività fino agli anni ‘60 del XX secolo, ma è stata soprattutto la miniera di Cozzo Disi, tra le più grandi e produttive di tutta la Sicilia, posta quasi a fondovalle a 4.5 km a SE di Casteltermini e a 700 m a O della Stazione di Campofranco, a caratterizzare l’economia dell’all’area.

Dal punto di vista giacimentologico, le miniere Montelongo, Scironello, che della precedente è la continuazione in sotterraneo, Serralonga e Cozzo Disi, queste ultime due accorpate in un’unica concessione dal 1958, appartenevano a un unico giacimento, articolato in più concessioni a causa dei differenti proprietari della corrispondente superficie.

Stando alla documentazione che si trova negli archivi di Agrigento, Caltanissetta e Palermo, la miniera Montelongo, sita nell'ex feudo Chipirdia oggi contrada Serralunga, iniziò l’attività di produzione dello zolfo fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, risultando dal 1805 un contenzioso fra il Comune di Campofranco e il Conte della Bastiglia Francesco Gaetani, proprietario della miniera, che ne aveva affidato l’esercizio in gabella fino al 1843 ai fratelli Salvatore e Vincenzo Pace.

Per tutta la durata di tale gestione, la coltivazione venne fatta in superficie o a poca profondità, mantenendo produzione e manodopera a livelli bassi, ma provocando, comunque, un forte inquinamento atmosferico, come si deduce dal fatto che nel 1833 don Giuseppe Sorce, sindaco di Campofranco, convocò in seduta straordinaria il consiglio comunale per discutere in merito al contenzioso ancora in corso, avente come oggetto il bruciamento degli zolfi dalla miniera Montelongo, per i danni che creava alla agricoltura e ai cittadini che lavoravano la terra nelle vicinanze.

Nel 1843, passata per successione la proprietà della miniera ai cinque figli del conte Francesco Gaetani, questi interruppero il contratto di gabella con i fratelli Pace,  decidendo di sfruttare autonomamente la potenzialità estrattiva della miniera Montelongo. Negli anni successivi, sempre a causa di passaggi ereditari, la proprietà venne ulteriormente frammentata con l’ingresso dei fratelli Francesco e Luigi San filippo [1], eredi della quota dello zio e tutore Ferdinando Gaetani di Bastiglia, fino all’acquisizione di una parte del feudo da parte dell’avvocato Tommaso Pintacuda che, negli anni ’70 e ’80 del XIX secolo, assumerà più volte direttamente la gestione in gabella della miniera.

All’inizio del XX secolo, la scoperta di un nuovo ammasso solfifero a maggiore profondità provocò l’apertura della miniera di Cozzo Disi, aggregata alla già esistente miniera di Montelongo.

La nuova miniera, aperta per diritto di proprietà e citata dal Repertorio delle miniere pubblicato nel 1921 tra le principali miniere di zolfo in attività al 1° gennaio 1903, ottenne il riconoscimento ufficiale solo con Decreto Ministeriale di concessione perpetua del 12 gennaio 1932, in favore dei condòmini rappresentati dalla signora Laura Perrier Pintacuda (GU 41/1932).

Intanto, nel 1891, era stata introdotta una nuova tecnologia per la fusione dello zolfo, che fino ad allora avveniva con il tradizionale metodo dei calcheroni.

Al fine di aumentare il rendimento della zolfara, furono realizzati, infatti, dei forni in batteria, dotati di un unico canale per la ventilazione dei fumi: una struttura poderosa quanto affascinante dal punto di vista architettonico.

Costituita dai forni di fusione a vapore, prodotto dalla combustione del carbon fossile o della legna, caratterizzava fortemente, e caratterizza tuttora, il sito minerario con i suoi mulini di frantumazione e con tutte le strutture meccaniche annesse, che costituivano il sistema di separazione del minerale dall’inerte.

L’impianto di fusione a vapore (fig. 1) della miniera di Cozzo Disi è stato l’unico in esercizio fino agli anni ‘50 in tutta l’Italia zolfifera, comprese Marche e Romagna.

Nel 1901 furono introdotti in miniera anche i forni Gill che operarono insieme ai forni a vapore fino al 1954, anno in cui fu inaugurato l’impianto di flottazione, il primo del genere in Sicilia, con una capacità di trattamento giornaliera pari a 400 tonnellate di minerale di zolfo, che garantì un abbattimento dei costi di produzione e, soprattutto, il miglioramento delle condizione igienico-sanitarie dei minatori addetti ai forni, tutti ammalati di bronchite a causa delle esalazioni di anidride solforosa.

Tornando agli inizi del XX secolo, la miniera di Cozzo Disi, che aveva registrato un grande incremento della produzione passando dalle 18,700 tonnellate del 1891 alle 131,000 del 1912 con un’occupazione che aveva superato le mille unità, fino a un massimo di 1,136 nel 1903 (tab. 1 e fig. 2), fu sede del peggiore incidente minerario in galleria della storia italiana  che, il 4 luglio 1916, causò la morte di 89 minatori.

Il successivo processo terminò con l’assoluzione degli imputati, avendo il Tribunale ritenuto non provata la cattiva gestione della miniera e la sua intrinseca instabilità e attribuito la tragedie a cause naturali, citando persino, come concausa, un’eruzione dello Stromboli [2] avvenuta un’ora prima del disastro.

A seguito dell'evento, tuttavia, sorse una lite tra i Pintacuda, che imputavano alla cattiva gestione della miniera le cause del disastro, e i Gaetani e Sanfilippo che si concluse solo nel 1919 con la costituzione della Società Condomini Cozzo Disi, la quale oltre alla proprietà assunse anche la gestione dell'esercizio della miniera.

Ne erano condomini cinque gruppi familiari con le seguenti quote:


Il Consiglio di amministrazione della Società era formato da 5 membri, uno per ogni gruppo, tranne per quello Pintacuda che ne aveva due, mentre il gruppo Francesco Sanfilippo non ne aveva nessuno data la bassa percentuale di proprietà detenuta.

Il primo Presidente nominato fu il conte Pietro Gaetani di Bastiglia, ma già nel 1920 il mutamento degli equilibri portò alla presidenza un’erede di Carlo Pintacuda, la contessa Laura Perrier che, come è già stato ricordato, avrebbe rappresentato il condominio al momento della prima conferma della concessione post RD 1443/1927, mantenendo la carica fino al 1954, anno in cui fu sostituita nella carica da Enrico Perrier.

Durante tale periodo, la gestione della miniera fu affidata prevalentemente all’ing. Giuseppe D’Ippolito, che rimase in carico dal 1937 al 1950.

In questo periodo riemersero le questioni già evidenziate dall’incendio del 1916, quando, nel 1938, venne pubblicata una nota dell’ing. De Lisi, vice direttore della miniera Cozzo Disi ai tempi in cui era direttore l’ing. Verderame (1925), in cui si citava “la coltivazione della miniera al 1°, 2° e 3° livello con il vecchio metodo per archi e colonne e pasture senza riempimenti”. L’ing. De Lisi citò anche il tragico incidente del 4 luglio 1916 mettendo in risalto che “un focolaio d’incendio era già preesistente nel 1913, nelle zone alte della miniera. Le cause furono ufficialmente attribuite a scoppio di grisou, ma a prescindere dall’incendio che provocò la catastrofe, la proporzione che assunse fu la conseguenza del modo con cui era stata coltivata la miniera”.

Sembra, quindi, che gli incendi fossero piuttosto frequenti a Cozzo Disi!

Come ricorda Franco D’Ippolito, figlio dell’ing. Giuseppe, la prima questione con cui dovette confrontarsi il nuovo direttore fu un problema minerario con la P maiuscola: il 3° ed il 4° livello della miniera erano incendiati dal 1919!

«Il programma era semplice: spegnerlo! Il fuoco si alimentava dello zolfo contenuto nel minerale, e l’ossigeno per la combustione, per fortuna molto limitato nella quantità che raggiungeva l’area incendiata, proveniva da piccole fratture dovute ai continui assestamenti della miniera, che era impossibile identificare, nonostante una completa chiusura delle già esistenti gallerie sottostanti, con continua sorveglianza per evitare crepe ed escluderne l’entrata. Non si pensi a fiamme o a produzione appariscente di anidride solforosa. Le caratteristiche della combustione erano grossomodo simili a quelle dei calcheroni ... Di fatto, da alcune fessure nei monti che sovrastavano l’area incendiata, uscivano dei vapori solforosi che, a causa del vento, sempre presente da quelle parti, venivano dispersi rapidamente. Nessuno dei tecnici che diressero la miniera prima di mio padre ritennero di affrontare il problema, e non ne conosco il motivo; quasi certamente perché i livelli più bassi, abbastanza ricchi, permettevano una buona estrazione, concentrando le forze operative più sulla produzione che nella soluzione di problemi che, però, d’altra parte, promettevano una ampia remunerazione: il recupero dello zolfo puro, colato dal “calcherone” interno e che aveva invaso e colmato tutte le gallerie esistenti nel 3° e nel 4° livello. Mio padre... raccolse la sfida. Non conosco la tecnica usata... Ricordo appena come gli operai che dovevano aprire delle rimonte dentro la roccia calda, usando i martelli perforatori, avevano dei guanti per reggere i manici evitando le ustioni ed erano costantemente innaffiati da acqua fresca sotto pressione, che i loro compagni lanciavano dal basso. I lavori in queste zone duravano dieci minuti (!!) seguiti da trenta di intervallo. C’era un rinnovamento continuo nell’attività e numerose squadre si alternavano al lavoro che non poteva avere pause: ogni ora che passava corrispondeva ad una quantità di ossigeno che andava ad alimentare la combustione... L’incendio fu domato, portando grandi utili all’azienda con la vendita dello zolfo “gratuito” che usciva dalle gallerie pronto per essere venduto, e la fama di mio padre assurse al livello dal quale non doveva più scendere...». [3]

L’8 luglio 1943 gli americani sbarcarono in Sicilia, tra Gela e Licata, a circa 70 km da Cozzo Disi.

«Tra le truppe che attraversarono il distretto dello zolfo, ci fu un capitano dell’esercito “invasore” che, da civile, nel suo Paese, era un qualificato ingegnere minerario. Con la disinvoltura tipica degli americani, e l’autorità del vincitore, si presentò a mio padre, chiedendo di visitare la miniera e scambiare opinioni tecniche per mezzo di un interprete “paisà”... Difficilmente si può immaginare un incontro più proficuo di quello avvenuto tra i due tecnici, che, dimentichi della reciproca posizione di vinti e vincitori, si addentrarono in scambi di esperienze e pareri, durante i quali fu pronunziata, forse per la prima volta in Sicilia, l’espressione “flottazione dello zolfo”!» [3]

Due anni dopo arrivò a Cozzo Disi un primo impianto di flottazione della Denver Colorado, che rappresentò la prima applicazione di tale metodo di arricchimento in Sicilia e aprì la strada al succitato grande impianto di flottazione del 1954, cui seguirono quelli di Trabia Tallarita (1955), Montagna Mintina (1957) e Trabonella (1957), quest’ultimo al servizio anche della miniera di Gessolungo.

Con Decreto Assessoriale del 5 marzo 1958 la miniera Cozzo Disi incorporò la vicina concessione Serralonga, dando luogo alla concessione unificata “Cozzo Disi-Serralonga”.

Dopo il trasferimento della proprietà dallo Stato alla Regione Sicilia con DPR 1713/1965, le vicende della Cozzo Disi seguirono quelle già citate, essendo questa una delle 8 miniere rimaste in attività in conformità alla L.R. n. 42 del 6 giugno 1975 (art. 4), chiuse definitivamente con L.R. n. 34 dell’8 novembre 1988.

In realtà Cozzo Disi fu oggetto di presidi e manutenzione, in particolare per l’eduzione delle acque, fino al 1992, sebbene nel novembre 1990 l’Ente Minerario Siciliano consegnò la miniera alla Regione Sicilia, il che comportò la cessazione di ogni tipo di gestione e la miniera fa condannata all’abbandono, ad atti di vandalismo e all’allagamento.

Significativamente, il documento di passaggio fu siglato il 12 novembre 1990 all’11° dei livelli in cui era articolata la miniera, per una profondità di 400 metri circa.

Due settimane prima, il 31 ottobre 1990, una messa celebrata davanti agli ultimi 36 lavoratori della Cozzo Disi ne aveva sancito la chiusura.


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[1] A questo proposito, dagli archivi risulta che, a causa delle difficoltà incontrate nell’estrazione dello zolfo con il solo piccone, il 24 maggio 1871 fu fatta domanda per essere autorizzati a usare la polvere di sparo a nome di Luigi Sanfilippo e degli altri eredi del fu Conte della Bastiglia, autorizzazione concessa il 7 giugno 1871.

[2] Si consideri che tra Stromboli e Cozzo Disi ci sono 200 km verso NE, di cui 80 in territorio siciliano.

[3] Michele Curcuruto: I signori delle miniere (2012), pagg. 449-451.

Fig. 1 - Impianto per la fusione a vapore dello zolfo a Cozzo Disi

Tab. 1 - Estrazione, produzione e manodopera nella miniera Cozzo Disi (Sciarrabone, 2013)

Fig. 2 - Estrazione, produzione e manodopera della miniera di Cozzo Disi (Sciarrabone, 2013)

Il tragico incidente del 4 luglio 1916


Verso 13.30 del 4 luglio 1916, mentre gli oltre 500 operai delle due miniere di Cozzo Disi e Serralonga lavoravano, si udì un primo formidabile boato che causò un violento colpo d’aria, con contemporaneo sviluppo di idrogeno solforato e grisou, il quale a contatto delle lampade a fiamma libera degli operai diede luogo a ripetute esplosioni.

Gli operai che lavoravano al primo e al terzo livello della Cozzo Disi, spaventati fuggirono; molti di essi riuscirono a mettersi in salvo per la via di sicurezza e gli altri che presero vie diverse vennero fuori per lo più ustionati dal grisou. I 66 operai che lavoravano nella sezione Giambrone perirono a causa di ustioni, asfissia, avvelenamento prodotto dall’idrogeno solforato e traumi. Altri 23 operai che lavoravano nella vicina e comunicante miniera di Serralonga, al primo fragore della Cozzo Disi, fuggirono per il piano inclinato e percorsi appena 90 metri incontrarono il grisou dal quale furono investiti e perirono. In tutto le vittime furono 89, e i feriti 34.

I soccorritori accorsi non poterono procedere oltre la sezione Giambrone per la presenza di idrogeno solforato. Tra i primi a scendere nella miniera e avventurarsi nella zona da dove provenivano le grida di aiuto fu il capomastro Giovanni Todari, che pagò con la vita quel suo coraggioso gesto.

Continuarono per ore i boati ed un’alta colonna di fumo si levò dal ciminiere di Serralonga.

Alle ore 15.00 si formò una prima squadra di salvataggio, ma anche questa si fermò al secondo livello perché si avvertì chiaramente la presenza di idrogeno solforato. Ma alle 17.00, poiché qualcuno della squadra riferì che nel fuggire aveva udito dei lamenti, si formò una seconda squadra che entrò per la galleria principale e stava per introdursi nella direzione della settima traversa, quando, aperta la porta, avvenne una forte esplosione di gas grisou che ustionò i componenti la squadra, due dei quali morirono successivamente in conseguenza delle ustioni riportate. Infine, quello stesso giorno un ultimo tentativo venne fatto dai minatori della vicina zolfara Scironello, che accorsero appena uditi i boati, anche questo vano.

Il giorno seguente giunsero a Cozzo Disi i funzionari dell’Ufficio minerario di Caltanissetta, fra cui il direttore l’ing. Pompei e l’ing. Mazzelli, ispettore superiore delle miniere. Venne allora organizzato un nuovo tentativo di salvataggio e finalmente vennero trovati vivi due operai. Uno di questi però nelle ore successive spirò. Nove giorni dopo i tecnici capirono che si era sviluppato nella miniera un incendio e da allora si ritenne inutile organizzare altri tentativi di salvataggio. Pertanto il 13 luglio fu eseguita la chiusura della bocca della miniera per impedire che l’incendio prendesse proporzioni più ampie e pericolose.

Un ragazzo, certo Vutera Vincenzo, che era riuscito a passare dalla Cozzo Disi alla Serralonga si era rifugiato nella sala caldaia, praticando un foro nella muratura dell’imbocco, all’undicesimo giorno, uscì fuori miracolosamente vivo.

I testimoni ascoltati nel processo pronunciarono pesanti accuse contro gli esercenti della miniera che “per ingordigia di lauti guadagni non avevano condotto la miniera a regola d’arte ed eseguiti i necessari riempimenti dove si lavorava ad esaurimento”, per cui “da qualche tempo si erano fatte sinistre previsioni”.

Venne ricordato tra l’altro che tre mesi prima, in aprile, si era staccato un blocco di minerale per un crollo, tredici operai erano rimasti feriti e uno di essi pochi giorni dopo era morto. Ma numerosi testi a discarico vennero in soccorso degli imputati, soprattutto autorevoli esperti come il presidente del Sindacato per gli infortuni delle miniere, gli ingegneri del Reale Corpo delle Miniere, e tutti quegli ispettori che nei mesi precedenti avevano visitato la miniera e durante il dibattimento “hanno unanimemente assicurato che la miniera era condotta regolarmente ed in perfette condizioni di stabilità”, né vi era stato alcun segno premonitore.

Poiché le esplosioni distrussero in gran parte i sotterranei, alterandone la geometria e le vie di ventilazione, le varie relazioni del Regio ufficio minerario (24 luglio 1916) e degli esperti del tribunale (31 dicembre 1917) non riuscirono a fornire una risposta definitiva sulle cause della tragedia, con particolare riguardo alla provenienza del grisou, arrivando alla seguente non conclusione: “è conseguentemente impossibile un sicuro giudizio sulle cause del disastro”. Non era neppure chiaro per gli ingegneri e i geologi se “il grisou fu causa o conseguenza del crollo della miniera” e se il gas si sia sprigionato per “fenditura prodotta dal lavoro di qualche operaio o per franamento generale della miniera”.

Tuttavia, la perizia degli esperti del Tribunale esprimeva molti dubbi sulla gestione della miniera che probabilmente mancava “di una perfetta stabilità” e poteva non avere integri i pilastri e sufficienti riempimenti. Se fosse stata stabile, “gli effetti del grisou non avrebbero potuto essere così disastrosi come furono”

Sostenevano infatti quei periti che “la miniera non era affatto in condizione di perfetta stabilità, che i vuoti erano irrazionali e contro legge e quindi anche ammesso che il disastro fu dovuto a sviluppo di grisou, tale gas non trovò nella miniera quella resistenza che avrebbe dovuto altrimenti trovare e il disastro sarebbe stato più limitato”.

Ma queste considerazioni, secondo i giudici esprimevano solo ipotesi perché i periti che avevano redatto questa relazione non avevano potuto in realtà costatare quali fossero le condizioni della miniera prima del disastro e si erano lasciati forviare dalle testimonianze dei familiari.

I giudici credettero, invece, che il disastro fosse avvenuto per cause naturali in seguito all’abbassamento barometrico e all’elevata temperatura di quel giorno (il bollettino meteorologico indicava nel giorno del disastro una temperatura massima di 43 gradi e mezzo), di modo che molto probabilmente il grisou “dall’alto potè abbassarsi ed accumularsi anche nelle parti alte del piano inclinato della Serralonga, determinando a Cozzo Disi… al contatto colla fiamma libera delle lampade (degli operai), una prima formidabile esplosione, seguita da forte scuotimento della montagna, su cui perciò apparvero nuove fenditure, da boati violenti, colpi d’aria … I cadaveri e i feriti presentavano le tracce dei terribili effetti del grisou, di idrogeno solforato, di violenti atterramenti e di traumi”. Venne ricordato, infine, che un’ora prima del disastro, era avvenuta una violenta eruzione dello Stromboli e ciò avrebbe potuto esercitare “una sua influenza nello sprigionamento del grisou nella miniera di Cozzo Disi”.

In conclusione, quindi, “gli elementi del processo non sono sufficienti a far ritenere che il disastro della Cozzo Disi sia da attribuire ad imperizia, negligenza ed inosservanza di regolamenti da parte di alcuni degli imputati nella sfera delle rispettive mansioni direttive e di vigilanza”.

Gli imputati (Cordaro Giuseppe, di anni 62 di Caltabellotta, direttore della miniera; cav. Parisi Attilio, di anni 67 di Casteltermini, esercente della miniera; Cordaro Antonino, di anni 63 di Casteltermini, capomastro; Papalino Ignazio, di anni 53 di Casteltermini, capomastro; Palumbo Macrì Vincenzo, di anni 68 di Casteltermini, esercente della miniera) vennero assolti per insufficienza di prove.

(Estratto rielaborato della sentenza emessa il 3 luglio 1919 dal Tribunale penale di Girgenti, composto dai signori Argento Salvatore, presidente ed estensore, e dai giudici Bagarella Giuseppe e Alabiso Alfredo).

I metodi di coltivazione


La prima via di accesso all’ammasso ellittico che costituiva il giacimento di zolfo di Cozzo Disi fu costituita dalle “discenderie”, scavate nella stessa roccia e provviste di scale, a due rampe sfalsate, dette a “scalone rotto” (fig. 3). Successivamente tale ammasso fu raggiunto da lunghe gallerie orizzontali di “traverso-banco” collegate a un piano inclinato che sfociava all'esterno.

Ciascun livello di coltivazione era delimitato da una galleria di ritorno d'aria a tetto e da una galleria di carreggio e di ventilazione a letto, mentre la coltivazione avveniva mediante traverse orizzontali.

Fino ai primi anni del XX secolo la tecnica di coltivazione seguita fu quella per “vuoti”, creando delle “camere” e lasciando in posto “pilastri” di minerale che avevano il ruolo di sostegno della massa di roccia sovrastante.

Tale tecnica, oltre ad essere poco redditizia ─ i pilastri rappresentavano una quota di minerale compresa tra 25 e 50% ─ era anche molto pericolosa, dato che spesso i proprietari, nei periodi di prezzi elevati dello zolfo sul mercato internazionale, ricorrevano allo sfruttamento di rapina facendo estirpare lo zolfo anche dai pilastri e causando così crolli che provocavano la morte dei minatori rimasti schiacciati dalla caduta di pesanti blocchi di minerale, oltre che incendi determinati dallo sfregamento dei blocchi di minerale in caduta, in particolare quando le rocce incassanti erano molto silicee.

Soltanto dal primo decennio del XX secolo si cominciarono a riempire i vuoti creati dalla coltivazione con delle ripiene formate dallo sterile.

Nel frattempo era cambiato anche il metodo di coltivazione, utilizzando un sistema a sottolivelli discendenti che oltre ai pilastri lasciava in posto un diaframma di roccia al tetto. Successivamente si ripienavano i sottolivelli in rimonta recuperando contemporaneamente pilastri e diaframma.

Per buona parte del XIX secolo la coltivazione era fatta dai picconieri che, come dice il nome, si servivano solo del piccone. Con il successivo utilizzo dell’esplosivo, i picconieri si occuparono  della realizzazione dei fori per l’esplosivo, attraverso le seguenti fasi:


Terminate le operazioni di preparazione della volata [1], si accendevano le micce che avevano una lunghezza [2] sufficiente a permettere ai picconieri di mettersi al riparo.

La realizzazione delle volate era una della cause più frequenti di incidenti in miniera, per varie ragioni, quasi tutte, con l’eccezione della liberazione del grisou dalle porosità e dalle cavità carsiche [3] delle rocce, ricollegabili alla fretta con cui lavoravano i picconieri, spesso sottoposti a un regime di cottimo [4]: difetti nella realizzazione di fori, forte ritardo nell’esplosione di una carica, riuso di cartocci esplosivi non esplosi.

Realizzata la volata e disperso il fumo e la polvere generati dall’esplosione, i picconieri staccavano dalle pareti i frammenti di roccia ancora attaccati (disgaggio), frantumavano con le mazze i massi più grossi formatisi in seguito alla volata e caricavano il materiale nei sacchi trasportati dai carusi o, negli anni successivi, nei vagoni (fig. 4).

Dagli anni ’60 del XX secolo venne sperimentato una nuova tecnica di coltivazione dei livelli per gradino rovescio con ripiena, che garantiva maggiore efficienza e sicurezza della coltivazione.

Negli stessi anni i cantieri di lavoro subirono un processo di modernizzazione delle attività di lavoro:


 Per quanto riguarda, infine, il trasporto del minerale all’esterno, può essere individuata molto schematicamente la seguente successione temporale:


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[1] La volata è il volume di roccia abbattuta dall’esplosione. Per estensione, la geometria dell’esplosivo che la produce.

[2] La lunghezza delle micce era differente per ottenere uno sfalsamento dell’esplosione dei vari fori in modo da ottenere la voluta geometri della massa abbattuta.

[3] Le cavità carsiche nella miniera di Cozzo Disi erano chiamate garbere. Tra queste, una particolarmente grande diede il nome alla zona di coltivazione denominata “sezione grande garbera o sezione grotte” (fig. 5). Tutti i minatori e i tecnici che lavoravano nei sottosuoli rimasero stupefatti dalla bellezza di questa garbera: si trattava di diverse caverne ricche di cristalli di gesso trasparenti di dimensione metrica ricoperti da migliaia di grossi cristalli di zolfo.

[4] Nel cottimo la paga era commisurata al numero di casse prodotte, dove la cassa era un recipiente che poteva contenere da 4.37 a 6.08 m3 di minerale estratto.

Fig. 3 - Cozzo Disi: discenderia a scalone rotto

Fig. 4 - Picconieri al lavoro

Fig. 5 - Schizzo di una Garbera (da Badino et al., 2015)