Montevecchio

Localizzato alla convergenza tra SP66 e SP68, a 4 km ca. a NO di Arbus e 5 km ca. a ONO di Guspini, il compendio minerario di Montevecchio consta di diversi cantieri di estrazione e lavorazione dei minerali, di un centro abitato (Genna Sinapis), sede dei principali servizi e delle sedi della dirigenza, e di alcuni villaggi operai (fig. 1).

L’attività mineraria si è sviluppata su più cantieri articolati in due zone: a est di Gennas Serapis (cantieri di levante) e a ovest (cantieri di ponente). 

I cantieri principali sono quelli di Piccalinna e Sant'Antonio appartenenti alla zona est. In questa parte del compendio si trovavano diversi villaggi operai: tra essi, il più importante è senza dubbio il Villaggio Righi, sulla strada che da Gennas porta ad Arbus (SP68). 

Tra i cantieri di ponente il principale è il cantiere Sanna facente parte già della concessione originaria del 1848.

Fig. 1 - Area mineraria di Montevecchio vista dal satellite (fonte GoogleEarth)

Geologia e giacimentologia

Nel distretto di Guspini-Arbus la cosiddetta “Unità Arburese”, costituita da rocce sedimentarie e vulcaniche con basso grado di metamorfismo di età Cambriano-Ordoviciana (500 Ma ca.), è sovrascorsa da NNE a SSO sul basamento autoctono durante l’orogenesi ercinica (320÷280 Ma).

Successivamente, l’intrusione di un complesso plutonico ha dato luogo alla formazione di un’aureola metamorfica estesa per circa 1 km nel complesso incassante e, durante le ultime fasi dell’orogenesi ercinica, a una serie di fratture radiali riempite da dicchi magmatici acidi e basici, da quarzo e da vene metallifere (Pb, Zn, Ag), che costituiscono il giacimento minerario di Montevecchio-Ingurtosu (fig. 2).

Gli affioramenti cenozoici sono costituiti da un complesso sedimentario (conglomerati, marne, calcari), di ambiente fluviale e palustre datato Oligocene Superiore- Miocene Inferiore (30 Ma ca.), e uno vulcanico (basalti, brecce e lave), noto come complesso di Monte Arcuentu, intersecato da numerosi dicchi con composizione basaltica.

La copertura quaternaria è costituita da dune eoliche lungo la costa (il complesso dunale di Piscinas) e da depositi fluviali e detritici all’interno.

Il sistema di filoni mineralizzati che costituisce il giacimento di Montevecchio e Ingurtosu ha direzione prevalente NE-SO, si estende per 10 km ed è stato sfruttato fino a grandi profondità; lo spessore dei filoni varia da 1.5 a 7-8 metri, con una cintura metamorfosata la cui ampiezza totale che non è mai inferiore a 6 metri.

I principali minerali metalliferi presenti sono blenda e galena, accompagnati da argentite, pirite, calcopirite, anglesite, cerussite, arsenopirite, pirrotina, tetraedrite ed altri di minore entità, mentre la ganga [1] è costituita da quarzo con barite, siderite, calcite e fluorite.

La mineralizzazione è prevalentemente continua con proporzioni variabili dei due solfuri principali.

Le porzioni più superficiali dei filoni sono caratterizzate da una zona di alterazione, di ampiezza tra 10 e 80 metri, con presenza di ossidi di ferro, piombo e rame.

La galena è di solito associata a una ganga quarzo-baritica, mentre la blenda con minerali carbonatici.

I principali filoni coltivati a Montevecchio sono, da Est a Ovest: S. Antonio, Piccalinna, Sanna, Telle e Casargiu. [2]


Filone S. Antonio


È il filone più importante, sviluppato per 1,500 metri in lunghezza e circa 600 metri in profondità, con spessori medi di 15 metri fino a un massimo di 30 metri e una pendenza di circa 80° verso N (fig. 2a).

Presenta una zonizzazione verticale, prevalentemente a galena con ganga quarzosa fino a quota +240 m slm.

A tale quota si incontra un filone porfirico con pendenza 50° verso N, con ricca mineralizzazione blendosa a tetto e a letto, probabilmente successiva alla messa in posto del filone, vista la sua mancanza nella massa porfirica.

Sotto quota +240 comincia a prevalere la blenda, mentre diminuisce il quarzo nella ganga e aumentano i carbonati (siderite, ankerite e dolomite).

Da quota -40 a -130 il filone si insterilisce assumendo una tessitura vacuolare con quarzo, barite e una varietà ferrifera di smithsonite a sostituire la blenda.

Sotto -130 riappare la galena in quantità coltivabili con abbondante quarzo nella ganga.

Filone Piccalinna


Posto a N del filone Sant’Antonio, è sviluppato in lunghezza per circa 1,200 metri, ha spessore medio di 12 m e una pendenza simile al precedente, di cui è mediamente più ricco di piombo e con cui condivide la zonalità verticale con aumento della blenda in profondità (fig. 2b).

La ganga è più ricca in quarzo e contiene anche della barite, mentre la mineralizzazione è distribuita in modo irregolare con sovrapposizione di più vene.

Tale filone tende a sfrangiarsi in profondità e a collegarsi verso ovest con il filone Sanna tramite sottili venette sterili.

Filone Sanna


Ha direzione N70°E con pendenza N-NO, con lunghezza di 300 m circa e spessori medi di 15-20 metri (fig. 2c)

A differenza dei due precedenti filoni, è interessato da un forte sviluppo dei fenomeni di ossidazione che interessano il filone per una profondità di circa 50 m, con ulteriori propaggini colonnari spinte fino a 200 m di profondità.

La mineralizzazione tende ad essere più zincifera, la ganga è poco quarzosa, con prevalenza di siderite e poca barite alle quote più elevate.

Filoni Tella e Casargiu


Il filone Telle, quasi un prolungamento occidentale del filone Sanna, è principalmente piombifero, molto irregolare, con ganga di quarzo, calcite, siderite, costituito da numerose piccole vene mineralizzate a galena.

Il filone Casargiu, ultimo a direzione E-O, è simile al filone Sanna e può essere  considerato  come  una propaggine del filone Brassey, il più orientale dei filoni di Ingurtosu.

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[1] La ganga è il complesso dei minerali sterili, di scarto, che si trovano associati ai minerali utili di un giacimento minerario; viene eliminata, parzialmente o totalmente, durante l’arricchimento dei minerali.

[2] Le sezioni nelle figg. 2, 3, 4 sono tratte da www.associazioneminatorinebida.it/download/storia_miniere_progemisa.pdf

Fig. 1 - Blocco diagramma delle mineralizzazioni di Montevecchio 

Fig. 2a - Sezione verticale del filone S. Antonio

Fig. 2b - Sezione verticale del filone Piccalinna

Fig. 2c - Sezione verticale del filone Sanna

Cenni storici

Similmente alle altre principali miniere metallifere sarde, la storia di Montevecchio affonda le radici nella preistoria, sebbene siano stati i romani a sfruttarla con sistematicità.

Dopo una pausa succeduta alla caduta dell’Impero Romano, l’attività estrattiva continuò nel medioevo e nel primo periodo dell’annessione della Sardegna al Ducato di Savoia (XVIII e primi decenni del XIX secolo) senza, peraltro, raggiungere livelli significativi.

Fu grazie all’intuizione del prete tempiese Giovanni Antonio Pischedda [3] che si iniziò da un lato ad effettuare i primi scavi organizzati alla ricerca del minerale, dall’altro a individuare imprenditori interessati alla realizzazione di una società con cui poter fare domanda di concessione per lo sfruttamento minerario del territorio.

Attratto dagli affari, il Pischedda aveva seguito il padre a Guspini per commerciare in sughero e pelli. Qui, parlando con gli anziani del posto, venne a conoscenza della ricchezza dei filoni minerari presenti nell’area di Montevecchio, attivandosi per ottenere nell’ottobre del 1842 un permesso di ricerca e di scavo per 25 quintali di galena.

Era consapevole, tuttavia, che per far fruttare l’impresa, avrebbe dovuto trovare dei capitali adeguati. A tale scopo, essendo ben addentro all’ambiente affaristico marsigliese, in quanto per la società paterna vi esportava sugheri e pellame, decise di recarsi nella città francese.


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[3] Poiché don Pischedda era più occupato dalla ricerca dei minerali che a svolgere il ruolo di “pastore delle anime” ed era introvabile in canonica, a chi lo cercava i compaesani indicavano l’ampia valle a sud del monte Arcuentu, dove sorsero le miniere di Montevecchio e Ingurtosu, denominandola scherzosamente “la Valle delle anime”.



Dalla prima concessione alla morte di Giovanni Maria Sanna (1844÷1875)


In quello stesso periodo, era emigrato a Marsiglia il venticinquenne sassarese Giovanni Antonio Sanna (fig. 3), che era riuscito a ben inserirsi nell’ambiente mercantile cittadino.

Il Sanna, interessato agli affari in ambito minerario, ricevette da un amico l’informazione che in quei giorni del giugno 1844 era a Marsiglia un prete che cercava soci per sfruttare una miniera in Sardegna.

Attivatosi, riuscì a sapere il luogo dove avrebbe potuto incontrare il Pischedda, cui propose di entrare come socio nell’affare.

Colpito dall’intelligenza e dalla spigliatezza del Sanna, il Pischedda lo mise a conoscenza dello stato dell’affare, che avrebbe richiesto l’apporto di notevoli capitali per ottenere una concessione adeguata all’impresa vagheggiata dal Sanna.

Utilizzando le sue conoscenze, il Sanna riuscì a costituire il 19 novembre 1844 nello studio notarile Blanc et Borrel una nuova società con capitale sociale di 50,000 franchi.

A differenza del Sanna, il Pischedda non risultava tra i sottoscrittori delle azioni societarie, avendo ricevuto un pacchetto di azioni gratuite come procacciatore dell’affare.

Il versamento delle azioni della società, tuttavia, era condizionato all’ottenimento della concessione per un periodo non inferiore a 40 anni.

La pratica di concessione, affidata al Pischedda, dette però risultati negativi, per la cattiva impressione suscitata dal prete tempiese, considerato dalle autorità sabaude poco affidabile.

L’intervento del Sanna, attraverso conoscenze familiari e personali, riuscì, però, a modificare il responso, ottenendo la disponibilità del Re a una concessione per 50 anni a fronte della disponibilità di appropriati capitali.

Ormai la presenza del Pischedda rappresentava un peso per la buona riuscita dell’affare e anche i vecchi soci marsigliesi non sembravano in grado di garantire i capitali necessari all’ottenimento della concessione.

Sanna decise, quindi, di ricominciare da zero affidandosi al ricco capitalista francese e confratello massone Pierre Rigolet de Saint Pons, nel cui studio privato l’11 dicembre 1845 viene firmato l’accordo per la costituzione di una nuova società con avrebbe dovuto raccogliere un capitale di 500,000 lire piemontesi, come richiesto dalle autorità sabaude.

L’anno successivo, il 28 ottobre, il Sanna riuscì ad avere un incontro personale direttamente con il Re Carlo Alberto, cui espose lo stato dell’affare minerario e delle sue grandi potenzialità ricevendo, se non una formale certezza, una concreta promessa, fortemente condizionata alla presenza nel progetto di forti capitali sardo-piemontesi.

Si bloccava così il progetto con Rigolet de Saint Pons, che, peraltro, aveva raccolto un capitale insufficiente di sole 350,000 lire piemontesi, e occorreva cercare nuovi finanziatori. Li trovò a Genova, la vera capitale finanziaria del Regno sabaudo, aperta ai commerci via mare e al mondo industriale.

Qui, riuscì a stabilire un accordo con Bartolomeo Migone, banchiere genovese, per costituire una società anonima con capitale totalmente sottoscritto dal Migone e dai suoi soci.

Il 26 giugno 1847, nello studio del notaio Gorgoglione, venne quindi costituita la Società in accomandita per azioni per la coltivazione della Miniera di Piombo Argentifero di Montevecchio (fig. 4), con un capitale sottoscritto di 600,000 lire suddiviso in 1,200 azioni paganti, mentre al Sanna spettavano 800 azioni industriali.

Meno di un anno dopo, con Regio Decreto 28 aprile 1948 [4], la Società di Montevecchio ottenne la concessione perpetua per lo sfruttamento del giacimento di galena argentifera, per una superficie totale di 1,200 ettari, articolata in tre porzioni quadrate di 400 ettari (2 km di lato) [5] denominate I (Miniera Sant’Antonio), II (Miniera Sanna) e III (Miniera Telle).

Oltre alla titolarità della concessione, al Sanna spettò l’incarico di Ispettore generale, mentre a dirigere la miniera furono nominati Emanuele Fercher, capo minatore, e Giulio Keller, ingegnere del corpo montanistico ungherese, che nei primi anni dell’attività estrattiva si limitarono allo sfruttamento dei filoni affioranti a Gennas Serapis e Casargiu, per poi spostarsi più a est con l’apertura della prima galleria a giorno, la Galleria Anglosarda (fig. 5).

Nel 1852, il Keller lasciò la direzione di Montevecchio per assumere quella di Monteponi, sostituito da Giuseppe Galletti, profugo della Repubblica Romana, che in precedenza aveva ricoperto la stessa carica proprio nella miniera di Monteponi.

L’anno successivo, la necessità di arricchire i minerali di piombo impose la costruzione, di una laveria semi-meccanica, la Laveria Rio a Levante, alimentata con le 2e e 3e scelte provenienti dalle laverie manuali dei piazzali e servita da due caldaie generatrici di vapore a 3.5 atm.

Alla fine del 1857 lo sviluppo delle gallerie aveva raggiunto i 2,150 m. Tutte le gallerie sboccavano a giorno: l’orografia dell’area si prestava, infatti, ad attaccare il filone in più punti con gallerie che servivano contemporaneamente al carreggio e allo scolo delle acque.

Quello stesso anno Giovanni Antonio Sanna fu nominato Senatore del Regno d’Italia, schierandosi su sponda progressista a difesa degli interessi isolani.

Nel 1862, dopo 10 anni di direzione, Galletti fu sostituito dal giovane ingegnere Eugenio Marchese, proveniente dall’ufficio del Corpo Reale delle Miniere d’Iglesias.

In breve tempo le aree coltivate, che come già ricordato venivano chiamate Levante e Ponente in funzione della loro posizione rispetto a Gennas Serapis, si estesero a tutta la superficie della concessione, localizzata tra Guspini e Ingurtosu.

Nel 1865 Montevecchio era ormai una realtà produttiva di rilevante importanza, rappresentando con oltre 1,100 operai (tab. 1b) il maggiore impianto estrattivo italiano.

L’anno successivo, l’ingegner Giorgino Asproni sostituì Marchese come direttore della miniera e diede inizio alla sua riorganizzazione, sia dotandola di ferrovie Decauville che favorirono i trasporti del minerale estratto, sia razionalizzandone il trattamento, proponendo a tal fine la realizzazione di tre impianti di laveria da ubicare in ognuna delle tre concessioni.

La prima laveria ad essere iniziata, nel novembre del 1867, fu quella della seconda concessione, nel fondo della valle del rio Montevecchio, che fu chiamata prima Eleonora d’Arborea e poi Sanna.

Progettata dallo stesso Asproni, fu completata il 1° gennaio 1868 e incontrò molte difficoltà per entrare in esercizio a causa di conflitti insorti tra l’Asproni, sostenuto dal Sanna, e la gerenza retta da Francesco Michele Guerrazzi, genero di Giovanni Antonio Sanna per averne sposato la secondogenita Amelia.

Vantando, in combutta con lo zio Francesco Domenico Guerrazzi, noto politico e scrittore livornese, il possesso della maggioranza delle azioni - in realtà di proprietà del Sanna che le aveva affidate ai Guerrazzi solo in custodia per facilitarne l’ascesa all’interno della società - quello stesso anno l’assemblea societaria deliberò la decadenza del Sanna dalla titolarità della concessione e dall’incarico di Ispettore generale, la nomina di Francesco Michele Guerrazzi a gerente inamovibile per 10 anni e quella dell’ingegner Chiostri a Ispettore Generale.

A seguito di queste decisioni si dimisero il Direttore Asproni e il suo Vice, l’antico capo-operaio Emanuele Fletcher. Ne derivò una situazione di sbando che il nuovo Ispettore Chiostri non era in grado di controllare.

A fine maggio del 1869 la miniera fu visitata da Quintino Sella, accompagnato da Eugenio Marchese, già direttore della miniera.

Nella conseguente relazione presentata alla Camera il 3 maggio 1871, riguardo al giacimento di Montevecchio affermerà: «... Per il suo sviluppo, la sua regolarità, la sua potenza, la grandiosità dei suoi affioramenti, la grandezza delle masse metallifere che vi si trovano, il filone di Montevecchio è certamente uno dei più grandiosi e dei più interessanti che si conoscano...», mentre a commento della situazione gestionale della miniera dichiarerà che: «... Buona può dirsi in genere la condotta dei lavori sopra e sotto terra. Debbo citare con encomio le opere dell’ingegnere Asproni, e lo ricordo con molta soddisfazione poiché egli è sardo e dimostra coll’esempio l’utilità che vi ha pei sardi nel rivolgersi agli studi minerari. Sarebbe Montevecchio una miniera modello da mostrarsi con orgoglio agli stranieri, se gravissimi dissensi non avessero diviso i principali proprietari della medesima, tanto che si vuole abbiano messa parte notevole del lucro dato da Montevecchio in spese di lite! Confidiamo che in un modo od in un altro tutto sia finito, e che la direzione tecnica non abbia a mutarsi secondo che muta la prevalenza di questo o di quello...».

Il contrattacco del Sanna, per niente disposto a lasciare impunita la truffa, provocò un furioso scontro non solo giudiziario, culminato con un’aggressione fisica dei due Guerrazzi al Sanna, che si difese impugnando un revolver a scopo di difesa.

Qualche settimana dopo, a fine 1869, il tribunale dette ragione al Sanna restituendogli 1106 azioni delle 1500 reclamate, mentre le restanti gli furono assegnate successivamente dalla Corte di Appello di Lucca.

Così, il 22 marzo 1870 l’assemblea straordinaria della società lo reintegrò nel ruolo di Ispettore generale, conferendogli anche l’incarico di nominare il nuovo gerente nella persona di Gianmaria Solinas-Apostoli, un altro dei suoi generi.

Tornerà fisicamente a Montevecchio il 16 aprile, accolto trionfalmente e accompagnato da Giorgino Asproni richiamato come Direttore.

L’attività in miniera potè, quindi, riprendere a pieno ritmo e nel 1873, per facilitare il trasporto del minerale e ridurne il costo da 40 a 10 lire/ton, si avviò anche la costruzione della ferrovia a scartamento ridotto Montevecchio Sciria - San Gavino Monreale, lunga 23 km e completata nel 1878 durante la gestione del nuovo direttore, l’Ingegnere Alberto Castoldi.

Il 9 febbraio 1875, Giovanni Antonio Sanna morì a Roma all’età di 56 anni, dopo una malattia che lo aveva debilitato sia fisicamente che psichicamente dall’anno precedente.


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[4] Si deve notare che appena un mese prima, il 23 marzo, il Piemonte aveva dichiarato la 1a Guerra d’Indipendenza all’Impero Austro-Ungarico. Il Re, quindi, era a Peschiera, accampato nei pressi del campo di battaglia, quando il Sanna lo raggiunse per farsi firmare l’atto di concessione perpetua.

[5] Si ricorda che secondo il RD 1840, allora in vigore, una concessione non poteva superare i 400 ettari.



La gestione di Alberto Castoldi (1875÷1904)


Pochi mesi dopo, a maggio, Zely la figlia di Sanna sposò il ventisettenne cagliaritano Alberto Castoldi (fig. 6), ingegnere minerario che, come già visto, subentrerà nel ruolo di direttore della miniera, dando avvio alla discendenza Sanna-Castoldi cui sarà legata la storia della Montevecchio fino al 1933.

Già laureato nel 1871 in Matematica pura, tre anni dopo il Castoldi si era laureato con lode anche in Ingegneria mineraria presso l’università di Freiberg, la città dell’argento in Sassonia, una delle più importanti città minerarie tedesche.

Divenuto Direttore generale delle miniere di Montevecchio nel 1877, iniziò una serie di lavori che dettero sviluppo al villaggio minerario di Montevecchio (già Genna Serapis): oltre alla già citata strada ferrata Montevecchio - San Gavino Monreale, si costruì l’ospedale (1877), entrarono in funzione le laverie Principe Tomaso (1877) e Generale Alberto La Marmora (1882) e fu terminato il Palazzo della Direzione (1886).

Vennero, inoltre, acquistate per 200,000 lire le concessioni Genna Sciria e Piccalinna (1886), fu introdotta l’aria compressa per migliorare le tecniche estrattive in miniera e, in generale, fu dato grande impulso alla meccanizzazione, con l’introduzione di macchine a vapore alimentate con carbone di Cardiff.

Tutto ciò fu reso possibile grazie alle rese elevate di piombo e argento nei concentrati di galena, passati dalle 7,400 del 1877 alle 11,150 ton del 1887, diventate 14,595 nel 1907, quando furono prodotte anche 7,085 ton di blenda, cui venne estesa la concessione di estrazione con RD del 18 agosto 1902, ma che veniva estratta già dal 1892 (tab. 1a).

Un ruolo positivo fu svolto anche dal buon rapporto stabilito tra direzione e lavoratori, la cui efficienza crebbe a fronte di migliori condizioni di lavoro.

Si tenga conto che in quegli anni la professione di minatore era tra le più ambite, essendo considerata come un invidiabile posto fisso.

Fu anche per questo che gli spazi dedicati ai loro alloggi si ingrandirono sempre più, fino a prendere la forma di villaggi poi convertiti nelle frazioni ancora oggi abitate vicino ai siti di scavo.

Il vecchio secolo si chiuse con l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, in cui la Società di Montevecchio si presentò come una delle maggiori produttrici mondiali di piombo e zinco e ne ottenne importanti riconoscimenti.

È significativa la descrizione della miniera fornita all’epoca da Celso Capacci nel suo studio sulle principali miniere sarde: «I lavori interni di questa prima concessione sono tutti compresi nel grande filone principale di Montevecchio e sono veramente grandiosi. Si compongono essenzialmente di comode gallerie di carreggio armate di ferrovie, le quali seguono il filone talvolta al muro talvolta al tetto a seconda della posizione delle lenti metallifere. Raggiunte queste vi si pratica il lavoro di abbattimento per gradini rovesci ed anche diritti a seconda dei casi, portando il minerale alle gallerie di carreggio mediante apposite tramogge cui vengono a caricarsi direttamente i vagoncini di miniera, che poi spinti sulla via di carreggio giungono al pozzo maestro e quivi introdotti nelle gabbie vengono estratti al giorno e vanno a scaricarsi direttamente alla cernita a mano o alla laveria. Le escavazioni interne raggiungono talvolta a Montevecchio una grandiosità raramente altrove veduta. Date le condizioni favorevoli dell’ossatura del filone, tutto il quarzo che si sostiene da sé, ne segue che alle escavazioni si può dare una ampiezza rispondente a quella della lente mineralizzata, e così ne nascono delle camere o caverne grandissime... Quivi si poté ammirare una escavazione grandiosa di bellissima e compatta galena».

Nel 1904 l’Ingegner Castoldi lasciò la guida della miniera all’ingegner Sollmann Bertolio, che anche in questo caso era suo genero [6], avendone sposato la figlia Enedina.


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[6] A questo proposito, tra gli ingegneri minerari dell’Iglesiente circolava la battuta secondo cui «a Montevecchio la miniera si perpetua per ‘generi’ piuttosto che per generazioni».



La gestione di Sollmann Bertolio (1904÷1923)


Bertolio (fig. 7), uomo di grande cultura e tecnico esperto, essendo Professore incaricato di Metallurgia e Miniere nel Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano e autore del Manuale Hoepli sulla “Coltivazione delle Miniere” (fig. 8), era nato a Casale Monferrato nel 1868, laureato in ingegneria nel 1891 e, nello stesso anno, vincitore di concorso per il Reale Corpo delle Miniere con destinazione Iglesias.

Brillante protagonista della vita mondana locale e frequentatore del circolo di tecnici ed esercenti minerari, fu all’origine della proposta, lanciata il 22 dicembre 1895, di fondare quella che l’anno successivo sarebbe diventata l’Associazione Mineraria Sarda, di cui divenne il primo segretario.

Sotto il suo impulso si diffuse l’energia elettrica in tutta la miniera, nel 1905 si avviò la costruzione della nuova laveria a Piccalinna dove era stato ripreso il IV livello verso levante, si ampliò la laveria Sanna per adattarla al trattamento dei minerali blendosi e si diede grande impulso alle ricerche che superarono i 4,000 m/anno di avanzamento in galleria.

Inoltre, furono ampliati e resi più moderni i locali dell’officina meccanica, della falegnameria, della forgia e della piccola fonderia. 

Dal 1° luglio del 1910 il Bertolio assunse, oltre alla carica di Direttore, anche quella di Gerente della Società Montevecchio.

Negli anni successivi venne ancora di più esteso l’uso della perforazione pneumatica con l'introduzione in galleria di un nuovo compressore di 45 HP azionato da un motore elettrico. Ciò comportò un immediato aumento delle produzioni che nel triennio 1911÷1913 rimasero nell’intorno di 15,000 ton di galena, arrivando a sfiorare le 7,000 ton di blenda (tab. 1a).

Nel 1915, con lo scoppio del primo conflitto mondiale, l’attività mineraria si ridusse drasticamente, sia per il richiamo alle armi di molti minatori [7], sia perché la società non possedeva una fonderia e i permessi di esportazione del minerale erano stati limitati.

Le produzioni vennero messe a stock e i lavori si limitarono alla sola manutenzione dei cantieri della miniera.

Per ragioni economiche, la centrale elettrica della miniera fu fermata e sostituita dalla linea proveniente dalla centrale termica di Portovesme, passante per Ingurtosu.

Lo stesso Bertolio fu richiamato alle armi, insieme al dottor Attilio Mariani che dal 1907 dirigeva l’ospedale della miniera.

Alla fine della guerra, l’attività produttiva riprese progressivamente a salire di pari passo col reintegro dei minatori, il cui numero era sceso a 470 unità nel 1918, anche se continuò il periodo di crisi dell’industria del piombo e dello zinco, cui si accompagnarono le proteste degli operai per l’aumentato costo della vita.

Stabilizzatasi, infine, la crisi, Montevecchio riprese i ritmi normali, con produzioni che tornarono ai livelli anteguerra e oltre a partire dalla seconda metà degli anni ’20.

Nello stesso periodo due gravi lutti colpirono la miniera: la morte di Alberto Castoldi, avvenuta il 16 maggio 1922, e di Sollmann Bertolio, l’8 aprile 1923 a soli 55 anni.


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[7] Negli anni della guerra la produzione di galena scese sotto le 8,000 ton mentre quella di blenda fu praticamente azzerata. Nello stesso periodo il personale scese sotto le 600 unità (tabb. 1a e 1b).


Dal 1923 alla fine della 2a guerra mondiale


Alla direzione fu, quindi, chiamato Amedeo Righi che, come vice, aveva già sostituito Bertolio richiamato alle armi.

Sotto la guida del Righi iniziò un periodo di forte espansione della società, che acquistò miniere sparse in tutta la Sardegna: S’Acqua Bona, Candiazzus e Malfidano nell’Iglesiente, Bacu Abis nel Sulcis, le argentifere del Sarrabus e le antimonifere del Gerrei.

Furono acquisiti consistenti pacchetti azionari di altre società, italiane e straniere, tra le quali l’Elettrica Sarda e la Monteponi.

In questo periodo la produzione si aggirava intorno alle 20,000 ton/anno di galena e 6,000 ton/anno di blenda.

Gli effetti della crisi del 1929 cominciarono a sentirsi nelle miniere sarde dall’anno successivo, bloccando la politica espansiva della Montevecchio e portando alla sospensione dell’attività di alcune miniere, tra cui Malfidano e Candiazzus.

Nello stesso anno il Righi lasciò la direzione: morirà nel 1934 anch’esso a 55 anni.

Sempre nel 1930, la Montevecchio decise di realizzare una fonderia di piombo, associando nell’impresa la Monteponi per costituire la Società Italiana del Piombo con capitale sociale 10 milioni di lire, di cui 7 spettavano alla Montevecchio e 3 alla Monteponi.

La fonderia, progettata dall’Ingegner Rolandi, già progettista dell’impianto per lo zinco di Monteponi, fu ubicata a San Gavino Monreale, terminale della ferrovia a scartamento ridotto realizzata tra il 1873 e il 1878, ed entrò in funzione nel 1932, contribuendo ad aumentare la produzione del piombo.

Tale incremento indotto dalla nuova fonderia non fu, tuttavia, sufficiente a compensare le perdite causate dalle 33 miniere sarde consociate e la Montevecchio si trovò sull’orlo del fallimento, per evitare il quale il 5 luglio 1933 si costituì a Milano la Montevecchio Società Anonima Mineraria, con capitale suddiviso a metà tra la Montecatini e la Monteponi, con Presidente il senatore Eugenio Rebaudengo e vicepresidente Guido Donegani, che assunse subito il potere decisionale, ricoprendo anche la carica di presidente della Italpiombo.

Fig. 3 - Giovanni Antonio Sanna

Fig. 4 - Atto costitutivo della Società per la coltivazione della Miniera di Piombo Argentifero di Montevecchio

Fig. 5

La Galleria anglo-sarda prende il nome dalla società “La Piemontese - Compagnia Reale Anglosarda”, cui fu affidato l’incarico di scavarla. I lavori iniziarono nel 1852, verso l’estremità a levante del grande giacimento, sul filone S. Antonio.

Sin dal principio gli scavi incontrarono concentrazioni eccezionali di galena, tanto che, per razionalizzare il trattamento del minerale prodotto, nel 1867 fu costruito in prossimità dell’imbocco un impianto meccanizzato di trattamento del grezzo proveniente da questa galleria.

Non si trattava, quindi, di una semplice galleria di carreggio o stoccaggio, ma aveva anche funzione di galleria di estrazione del minerale. 

Fig. 6 - Alberto Castoldi

Fig. 7 - Sollmann Bertolio

Fig. 8 - Manuele Hoepli di Coltivazione mineraria

Fig. 9 - L’annuncio della nascita della Sogersa

Fig. 10 - L’abbraccio tra i minatori a fine occupazione in un quadro di Cici Peis

Dopo 85 anni di fervida operosità scompariva la Montevecchio dei Sanna, dei Migone, dei Castoldi e dei Bertolio, rimaneva la miniera, con ancora un gran patrimonio di minerale da scoprire e valorizzare.

A gestirla fu chiamato l’Ingegner Elvino Mezzena, capo dei servizi minerari della Montecatini, che era già stato a Montevecchio trent’anni prima senza lasciare un buon ricordo per il suo carattere duro e imperioso.

Coadiuvato dall’ing. Luigi Valsecchi come direttore, il Mezzena lanciò un forte programma di sviluppo in tutti i cantieri della miniera, senza peraltro ottenere i risultati sperati.

A pagarne il prezzo fu il direttore, sostituito dall’ing. Carlo Zaccagnini, destinato anch’esso a durare un solo anno per essere stato chiamato a dirigere la neonata e autarchica AMMI.

Il 31 marzo 1936 cominciò, così, la direzione dell’Ingegner Filippo Minghetti che sarebbe durata per ben 25 anni.

Intanto, nel 1935 la carica di amministratore delegato della nuova società era stata assegnata a Francesco Sartori, per 35 anni nello stesso ruolo alla Monteponi, che continuò nel progetto del Mezzena di rivitalizzazione della miniera, ammodernando gli impianti, soprattutto la laveria Principe Tomaso, dove entrarono in funzione 3 nuove sezioni di frantumazione e cernita e un impianto di flottazione.

Fu, inoltre, costruita la nuova laveria Sanna al posto della vecchia La Marmora e si approfondirono i pozzi, oltre a sviluppare le strutture sociali: spaccio aziendale, asilo nido, nuove case per i minatori.

Infine, il nuovo impianto elettrolitico per la produzione dello zinco a Porto Marghera garantì lo sbocco per le blende estratte da Montevecchio.

Tutto ciò garantì una ripresa della produzione, che arrivò a superare le 30,000 ton di galena nel 1938, pur essendo per la prima volta minore della produzione di blenda, arrivata a 36,230 ton (tab. 1a).

Il 27 novembre 1939 la Montevecchio Società Anonima Mineraria fu incorporata nella Società Italiana del Piombo e dello Zinco, che assunse il nome di Montevecchio Società Italiana del Piombo e dello Zinco: la crisi economico-finanziaria era ormai alle spalle e la posizione della Montevecchio era tornata solida.

In quello stesso anno si raggiunse il massimo, nella storia passata e futura della miniera, della produzione annuale con l’estrazione di 519,731 tonnellate di grezzo, di cui 33,109 di galena, al 60% di Pb pari a 20,000 ton ca., e 49,271 di Blenda, al 59.7% di Zn pari 29,500 ton ca. (tab. 1a); contemporaneamente la manodopera era arrivata a 2,816 unità (tab. 1b).

La guerra incombente, tuttavia, frenò lo sforzo espansivo della Montevecchio e di tutta l’industria mineraria sarda e l’improvvisa morte di Francesco Sartori (13 agosto 1941) contribuì ad aggravare la situazione, solo in parte risollevata dalla richiesta di piombo e zinco per esigenze belliche, esigenze che vennero sostanzialmente meno dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, avviando l’attività estrattiva alla sostanziale sospensione. 


Dal 2° dopoguerra alla chiusura della miniera nel 1991


Solo la fine della guerra segnò l’inizio della ripresa, fino alla riapertura quasi totale dei cantieri a fine anni ‘40, raggiungendo nel 1949 la massima occupazione della miniera con circa 3,500 unità, di cui 3,271 minatori e operai (tab. 1b).

Come già ricordato, il 1949 fu anno di lotte sindacali che coinvolsero anche la miniera di Montevecchio, terminate dopo 47 giorni di sciopero con la sconfitta sindacale e la sottoscrizione del cosiddetto “Patto Aziendale”, con il quale la Direzione non aveva più come interlocutori le organizzazioni sindacali ma Commissioni Interne che si riunivano alla presenza del Direttore della miniera, in un’ottica di sostanziale sottomissione della rappresentanza operaia da scambiare con benefici di tipo economico.

Nel 1950 furono completate la Centrale Minghetti, per la produzione e la distribuzione di aria compressa in miniera, e il bacino Donegani [8], per la raccolta delle acque necessarie alle lavorazioni.

Nonostante nuove ricerche [9], migliorie tecnologiche all’interno e fuori dalla miniera, interventi di natura sociale a sostegno delle famiglie dei minatori, a metà degli anni ‘50 si cominciarono ad avvertire le conseguenze dell’impoverimento dei filoni metalliferi, in particolare per il tenore in piombo, oltre a quelle legate all’andamento delle quotazioni di mercato [10] del piombo e dello zinco e all’eliminazione dei dazi protettivi seguita alla nascita della CEE.

Per far fronte alla nuova crisi si decise di fondere in un’unica società la Montevecchio e la Monteponi: nacque così, alla fine del 1961, la Monteponi e Montevecchio S.p.A., in cui la Montecatini continuava a mantenere la maggioranza delle azioni (54%).

Presidente fu nominato Carlo Faina e amministratore delegato Giovanni Rolandi; a dirigere Montevecchio fu chiamato l’ingegner Aldo Sodi, a Monteponi l’ingegner Giorgio Nissardi, mentre Filippo Minghetti lasciò la direzione di Montevecchio dopo 26 anni per assumere la carica di ispettore generale.

Nonostante un piano di ripresa ambizioso e l’incorporazione, il 9 settembre 1965 [11], delle miniere Ingurtosu e Gennamari rinunciate dalla Pertusola, la miniera si avviò irrimediabilmente sulla strada della chiusura.

Nel 1966 la Montecatini si fuse con la Edison, società dotata di molti capitali provenienti dalla nazionalizzazione delle centrali elettriche ma con pochi interessi nel campo minerario, a formare la Montedison SpA, con interessi prevalenti nel campo finanziario e dell’industria chimica.

Nel 1967 la nuova società dette un taglio ai lavori di ricerca mineraria e negli anni successivi ci fu una drastica riduzione del personale, sceso sotto le 1,000 unità operaie all’inizio degli anni ’70, mentre la produzione diminuì a meno di 7,000 ton di galena e  20,000 ton di blenda (tabb. 1a e 1b).

Nel luglio del 1971, dopo una lunga serie di lotte sindacali e la rinuncia delle concessioni da parte della Monteponi-Montevecchio, nacque la Sogersa (fig. 9), Società ricerche gestione ristrutturazione miniere sarde, con capitali pubblici, AMMI (Gruppo EGAM) ed EMSA, e privati, Montedison.

Tuttavia, nonostante la ripresa delle ricerche, già nel 1973, esaurite le coltivazioni al cantiere Sanna, si fermò l’impianto di Ponente e il personale si ridusse a 864 unità.

Chiusa l’EGAM il 28 febbraio1977, tutte le attività minerarie dell’AMMI furono assorbite dall’ENI tramite la nuova società SAMIM che gestì la miniera fino al 1985, quando l’ENI procedette alla separazione dell’attività metallurgica da quella mineraria e per la gestione delle miniere nacque la SIM (Società Italiana Miniere).

Nonostante alcuni investimenti in ricerche, durante il periodo di gestione SAMIM non erano state trovate nuove zone mineralizzate, se non a profondità molto elevate.

Già nel 1980 si arrivò, quindi, a una prima fermata della miniera, nonostante la consapevolezza dell’importanza occupazionale di una forza lavoro che comprendeva più di 400 unità, tra minatori e impiegati, in un territorio ad elevata disoccupazione.

L’avvento della SIM non modificò la situazione che, anzi, andò sempre più precipitando anche perché l’ENI non reinvestì nel settore minerario i 600 miliardi di lire di guadagno fiscale derivanti dall’operazione di separazione delle attività della SAMIM.

Nel 1987 la sorte della miniera era segnata: di ricerche non si parlava più, si facevano solo le manutenzioni obbligatorie per legge, ma con sempre maggiore difficoltà per mancanza di personale.

Tutti - politici, sindacalisti, cittadini, intellettuali - erano contro la SIM a favore delle attività minerarie sarde.

Ma incontri, convegni, scioperi, marce di minatori, non cambiarono le cose in miniera, la cui fine non ufficiale fu decretata con la chiusura di tutti i pozzi, salvo il pozzo Amsicora, che fu occupato dai minatori il 22 aprile 1991 come forma di lotta estrema.

L’occupazione (fig. 10) terminò dopo 27 giorni, il 18 maggio, il giorno dopo la firma di un accordo tra ENI, Regione e Sindacati, che sanciva la chiusura definitiva della miniera e prevedeva: un parco tecnologico a Ingurtosu, iniziative di reindustrializzazione per il reinserimento dei minatori, la forestazione anche produttiva da impiantare su terreni di proprietà ENI per 2,500 ettari, la creazione del Parco geominerario sardo.

Dal 21 marzo 2000 con Det. n. 385 la concessione è stata trasferita a IGEA SpA per le attività di messa in sicurezza e bonifica.


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[8] Con capacità pari a 300,000 m3, era dedicato a Guido Donegani, deceduto il 16 settembre 1947.

[9] Nel 1953 l’inventario delle gallerie percorribili dette come risultato una lunghezza totale di 64 km.

[10] Il rilancio delle quotazioni di mercato del piombo e dello zinco collegato allo scoppio della guerra in Corea fu contingente e temporaneo.

[11] Ratificata con Decreto Assessoriale n. 333 del 4 ottobre 1965.

Tab. 1a - Produzioni a Montevecchio (fonte: Marzocchi, 1995) [12]

Tab. 1b - Occupazione a Montevecchio (fonte: Marzocchi, 1995) [12]

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[12] Giuliano Marzocchi è stato Direttore della miniera di Montevecchio dal 1968 al 1974

Donne e bambini a Montevecchio

Tra la metà del XIX e gli anni ‘40 del XX secolo, la presenza di donne e bambini nelle miniere sarde è stata notevole.

La miniera di Montevecchio non faceva eccezione e in essa, a fine ‘800, lavoravano 172 donne e un centinaio di bambini e bambine tra 10 e 15 anni.

Si trattava di manodopera richiestissima, perché più paziente, diligente e a minor costo degli uomini, se utilizzate in lavori che non richiedessero una particolare forza fisica.

In generale erano occupate come cernitrici (fig. 11), ossia lavoratrici che avevano il compito di separare il minerale utile dallo sterile, vagonare, caricare, spaccare, insaccare il prodotto da spedire alle fonderie, pulire i bacini di decantazione.

Molte di queste donne erano vedove di minatori morti per incidente o malattia, madri con figli a carico, adolescenti di famiglie numerose, tutte motivate da un bisogno primario: lavorare per mangiare.

La baracca, camerone o dormitorio che dir si voglia, era l’ambiente in cui alloggiavano le donne e le bambine che restavano in miniera dopo una estenuante giornata di lavoro, quando era troppo lunga la strada da percorrere per tornare a casa: come per quelle che non abitavano a Guspini o Arbus, costrette a stare in miniera intere settimane lontano dalle loro famiglie.

Baracche molto affollate, umide, senza servizi, con un piccolo focolare. Per letto un pagliericcio infestato di pulci, cimici e pidocchi, dov’era difficile dormire sonni tranquilli.

L’inverno era duro, le notti lunghe, il freddo pungente, le coperte insufficienti, le malattie sempre in agguato. E ammalarsi significava perdere la giornata, pagare una multa o venire licenziate per inefficienza.

Come già accennato, i salari delle donne occupate in miniera erano nettamente inferiori (da 2 a 4 volte) a quelli degli uomini, nonostante svolgessero mansioni pesanti e avessero un orario di lavoro pari al loro. La manodopera femminile era più conveniente anche dal punto di vista umano, perché più malleabile, docile, soprattutto poco sindacalizzata.

ln genere le donne sposate che lavoravano in miniera, alla sera tornavano in paese chiamate da doveri e incombenze familiari.

Un’ora di cammino per coprire i 6 km di distanza da Arbus, un’ora e mezza per i 9 km da Guspini; strade sterrate, impervie, polverose d’estate, fangose d’inverno.

Ad attenderle il lavoro di ogni donna di casa: accudire i figli, preparare da mangiare, pulire casa.

Andare a letto stremate e svegliarsi presto al mattino, ancora quasi notte, che c’era almeno un’ora di cammino per tornare alla miniera. Forse era meglio rimanere alla baracca!

E lavorare in miniera, anche all’esterno, era comunque un mestiere pericoloso, la possibilità di un incidente sempre presente, come quello del 4 maggio 1871, il giorno che viene ricordato come l’8 marzo sardo.

Erano circa le 18:30 quando una trentina di donne e bambine che svolgevano l’attività di cernitrici si ritirarono nel dormitorio di Montevecchio, dopo dieci ore di faticosissimo lavoro, trascorse a spaccare pietre e selezionare il materiale, sotto il severissimo controllo dei caporali, per una paga misera e nettamente inferiore rispetto a quella di un uomo, per un lavoro comunque faticosissimo e svolto spesso all’aperto, esposte alle intemperie o al massimo in baracche di fortuna.

A monte dell’edificio che ospitava le donne, era stato costruito un serbatoio di 80 m3 d’acqua, necessario al funzionamento della vicina laveria. Durante la notte il muro perimetrale del serbatoio franò e l'enorme massa d'acqua travolse e distrusse il dormitorio, schiacciando le lavoratrici sotto le macerie: undici di loro rimasero uccise (10 anni le più giovani, 50 la più anziana) e quattro ferite (fig. 12).

L’ispettore del Corpo delle Miniere biasimò la modalità di costruzione e l’ubicazione del bacino proprio sopra al dormitorio, ritenendola decisamente insicura.

La direzione della miniera rispose scusandosi, sostenendo però che «non vi era luogo più comodo e adatto per la ricostruzione sia del bacino che della baracca rovinata. Si dovettero perciò ricostruire queste due opere nello stesso punto usando tutte le precauzioni atte ad impedire qualunque sia il pericolo di ulteriori disastri» (sic!).

Alla fine la vicenda fu archiviata, senza che la responsabilità dell’accaduto fosse attribuita a nessuno. Per quelle vite nessuno pagò!

Delle vittime restano i nomi: Elena Aru e Caterina Pusceddu, di Arbus (10 anni); Anna Melis e Anna Atzeni (11 e 12 anni); Anna Peddis e Anna Pusceddu (14 anni); Rosa Gentila e Luigia Vacca (15 anni); Luigia Murtas e Antioca Armas, di Arbus (27 e 32 anni); Rosa Vacca, di Guspini (50 anni).

Fig. 11 – Cernitrici al lavoro a Montevecchio negli anni ’30 del XX secolo (Foto S. Piras)

Fig. 12La lista delle vittime del 4 maggio 1871 nel Rapporto del Sottoprefetto di Iglesias