Cenni storici sulle principali miniere metallifere venete


La miniera di rame di Val Imperina

Le prime notizie certe di una produzione di rame in Valle lmperina risalgono al XV secolo (1417 e 1483) in relazione a uno dei tanti affioramenti metalliferi coltivati allora nell’area agordina.

Due elementi segneranno, nel secolo successivo, la storia futura del sito: da un lato la ricchezza del giacimento, insolita per le mineralizzazioni dolomitiche, dall’altro l’interesse della Repubblica veneta alla produzione del rame, metallo strategico essenziale sia per la monetazione che per la fabbricazione del bronzo da cannoni.

Nel XVI secolo, quindi, furono numerosi gli imprenditori agordini, bellunesi e veneziani che si susseguirono nella gestione del giacimento, ma verso la fine del secolo l’esaurimento del minerale facilmente accessibile portò con sé il declino dei piccoli e medi sfruttamenti.

Il vero decollo si ebbe, però, nel XVII secolo, sia per l’ingresso di imprenditori dotati di grandi capitali, in grado, quindi, di effettuare gli investimenti necessari per spingere in profondità gli scavi minerari, che per i progressi tecnici nell’attività estrattiva e nella metallurgia del rame.

A partire dal 1615 l’imprenditore di origine lombarda Francesco Crotta acquistò rapidamente una posizione dominante nell’economia della valle, posizione che la sua famiglia manterrà per oltre un secolo.

Nel 1669 all’azienda Crotta si affiancò un’azienda di stato, gestita direttamente dalla Repubblica veneta, che nel giro di un cinquantennio assume dimensioni e importanza analoghe; oltre un secolo dopo, nel 1787, con la rinuncia degli eredi Crotta l’azienda pubblica riunirà in sé quasi tutte le attività minerarie e metallurgiche della valle.

Il villaggio di Riva d’Agordo, oggi Rivamonte Agordino, situato immediatamente sopra la valle lmperina, che grazie alla miniera aveva visto la sua popolazione moltiplicarsi per sette nel corso del XVII secolo, continuò a fornire per secoli la maggior parte dei minatori e dei lavoranti metallurgici.

L’economia del villaggio era un originale intreccio di attività agricole e industriali, dove queste ultime fornivano circa i tre quarti del reddito totale, cosa che consentì il consolidarsi di una comunità mineraria di lunga durata, nella quale il lavoro e la sua cultura si sono tramandati per secoli di padre in figlio.

Nel corso del XIX secolo la produzione di rame si aggirava ormai intorno alle 200 tonnellate annue, ma il declino del prezzo del metallo sul mercato internazionale incise in modo crescente sull’equilibrio economico dell’azienda pubblica, che dopo il 1850 chiuse sempre più spesso i conti in passivo.

Il Regno d’Italia, avendo ereditato nel 1866 una situazione ormai compromessa, pensò ben presto a sbarazzarsene, ma l’anno dopo, a parziale risarcimento, fondò in Agordo un Istituto tecnico minerario destinato a un brillante avvenire, da cui, già nei primi decenni di attività, i diplomati agordini cominciarono a sparpagliarsi per i cinque continenti, ovunque fossero in corso lavori minerari, idroelettrici, di traforo e simili.

La fine del XIX secolo coincise con l’abbandono della produzione del rame, trasformando quella di Val Imperina in una semplice miniera di pirite, utilizzata come materia prima dall’industria chimica, in particolare per la fabbricazione dell’acido solforico.

In questa fase, la concessione passò prima sotto il controllo della ditta Magni di Vicenza (1893), poi della Montecatini che, subentrata nel 1910, modernizzò completamente la miniera sotto il profilo tecnico e organizzativo: si ricorse alla ripiena dei vuoti per evitare i franamenti, venne realizzato il nuovo pozzo di estrazione Donegani, fu adottato un migliore sistema di eduzione delle acque, venne introdotta la perforazione meccanica ovunque, grazie a due compressori d’aria posizionati all’esterno e le carriole vennero sostituite con vagoni su binario Decauville.

Al contempo, all’esterno della miniera fu costruita una centrale idroelettrica per sfruttare le acque del Cordevole e una teleferica che dal 1925, anno in cui fu completata la tratta del treno Bribano-Agordo, permise di scaricare direttamente la pirite nei vagoni merci del treno.

Nel frattempo erano state costruite le infermerie, i bagni e gli spogliatoi per i minatori, che nel 1955 furono dotati di guanti, stivali in gomma e casco.

La gestione della Montecatini continuò nei decenni successivi, fino alla chiusura definitiva del 1962, ratificata dal DM di accettazione della rinuncia del 2 marzo 1963, pubblicato in GU 303/1963.

La Scuola Mineraria di Agordo


La Scuola Mineraria di Agordo (fig. 4), oggi Istituto Tecnico Industriale “Umberto Follador” (fig.5), è stata istituita già nel 1867, all’indomani dell’annessione del Veneto all’Italia, con Decreto del Ministro dell’Industria Quintino Sella, per preparare i futuri periti minerari.

Ma la nascita della Scuola può essere fatta risalire già al secolo precedente con il Decreto che il Senato della Repubblica di Venezia, considerata l’importanza dei giacimenti di Valle Imperina, emanò il 26 settembre 1775, in cui si tratta, specificatamente, dell’istruzione dei giovani da adibire ai lavori minerari.

Con il decreto di regificazione del 15/12/1927 la Scuola è passata dalle dipendenze del Corpo delle Miniere a quelle del Ministero della Pubblica Istruzione.

Il 1° ottobre 1933 la Regia Scuola Mineraria di Agordo è stata trasformata in Regio Istituto Tecnico Industriale a indirizzo Minerario.

Infine, nel 1962 all’indirizzo minerario è stato affiancato quello chimico al fine di soddisfare le richieste di tecnici specializzati avanzate dall’industria agordina, allora in grande sviluppo.

Fig. 4 - Sede storica della Scuola Mineraria di Agordo

Fig. 5 - Sede attuale dell'Istituto Tecnico Industriale "Umberto Follador"

La miniera di argento e piombo dell'Argentiera


Il primo indizio sicuro dell’esistenza d’una miniera in Auronzo chiamata “Argentiera” risale al 6 giugno 1461 e il nome deriva dall’argento che si ricavava dal minerale scavato in superficie.

Nel 1480 i fratelli Marco e Andrea Pasqualigo (due quote), Andrea Muazzo (tre quote) e Giovanni Piloni (due quote) costituirono la società per lo sfruttamento dei giacimenti minerari della montagna di Rusiana, a cui nello stesso anno il doge Giovanni Mocenigo conferma l’affidamento della miniera d’argento e di piombo di Auronzo.

La Repubblica veneziana attribuiva molta importanza alla ricerca e allo sfruttamento dei metalli, tanto che nel 1488 il Consiglio dei X [1] elaborò una legislazione mineraria, più tardi istituì una soprintendenza generale a Venezia e un vicario alle miniere in ogni città.

Nonostante la miniera si rivelasse assai redditizia, come risulta dalle decime pagate dai gestori alla Repubblica, quando il 13 marzo 1675 il Consiglio dei X ne concesse l’investitura al comune di Auronzo, questi si trovò nell’impossibilità di esercitarla mancandogli il personale capace.

Ancora nel 1720 la miniera era abbandonata, secondo quanto riferisce il vicario alle miniere Alessandro Vecellio Pellizzaroli ai Deputati alle Miniere: «l’altra... sul Monte Rusiana sono molti anni ch’è stata abbandonata... un’altra pure di piombo nella pertinenza di Auronzo nella vecchia località dell’Arzentiera, di Bernardino Adami, è da esso abbandonata».

Il 3 febbraio 1741 il milanese Domenico Castellan chiese, “come Italiano nell’Italia”, l’esercizio delle miniere di cui il Comune ha investitura; le sue condizioni furono subito accettate.

L’8 agosto 1742 il Consiglio dei X rinnovò l’investitura al comune di Auronzo, ma nel novembre dello stesso anno il Castellan, ricavando poco dalla miniera, chiese al Comune la sospensione del pagamento della decima, ottenendola per dieci anni.

Verso il 1750 poche erano le miniere redditizie e in lavorazione, le più produttive quelle dell’Argentiera e Pian da Barco.

Il Vicario minerario del Cadore nel 1751 scriveva che «all’Argentiera hanno lavorato 53 persone, molte più che nel 1746» e si ricavava meno piombo e più calamina; quella di Grigna non prometteva, era costata molto ma non rendeva; Rusiana vivacchiava sostenuta dalle altre due (Argentiera e Pian da Barco), che erano vitali per merito dei tedeschi che sapevano farle rendere.

Il 4 novembre 1759 Andrea Kopsquetter e il figlio Giuseppe, da S. Candido, chiesero in affitto la miniera dell’Argentiera offrendo come regalo alla chiesa di S. Giustina mille lire; il contratto venne firmato il 18 giugno 1760 e rinnovato in due occasioni successive (1771 e 1781) fino al 1786.

La miniera passò, quindi, in affitto a Giovanni Giuseppe e Francesco Kaltner di Salisburgo, locazione rinnovata l’8 luglio 1790 per 12 anni.

Il Kaltner tenne la miniera fino al 10 luglio 1804, quando il comune stipulò un nuovo contratto d’affitto per 12 anni con la Fabbrica di Ottoni di Schwaz, di cui era proprietario il Governo bavarese.

Nel dicembre 1813 il sindaco di Auronzo comunicò che la miniera era gestita dagli Associati di Schwaz, ma successivamente l’esercizio passò direttamente al Governo austriaco a mezzo della Direzione delle Miniere e Saline del Tirolo di Hall; l’ultima concessione al Governo austriaco è del 15 giugno 1840 e durò fino all’ottobre 1860.

L’attività proseguì, quindi, con alterne fortune e sotto diversi esercenti fino al 1884 quando la miniera, divenuta passiva, venne chiusa.

Pur con diversi periodi di riapertura, la miniera rimase sostanzialmente inattiva fino al 10 luglio 1921, quando il Comune ne affidò l’esercizio per 25 anni alla Società Romeo di Milano, che poi si chiamò Società Atesina per Esplorazioni Minerarie, ma anche questa abbandonò nel 1928, disdettando nel 1936 il contratto, nonostante con DM del 21 maggio 1930 (GU 214/1930) la concessione fosse stata confermata in perpetuo al Comune di Auronzo.

Il 28 giugno 1941 ne assunse l’esercizio la Società Anonima del Cadore che, con decreto 12 aprile 1943, ebbe anche il permesso di ricerca di minerali di piombo e zinco in Monte Rusiana.

Questa società sfruttò gli scarti di lavorazione delle precedenti attività, ancora ricchi del 3.5% di piombo e del 5-6% di zinco, poi la miniera venne nuovamente chiusa.

Il 27 maggio 1960 l’esercizio fu, infine, rilevato dalla Società Mineraria e Metallurgica della Pertusola, che assunse anche il permesso di ricerca di Monte Rusiana, divenuto, con DM del 16 febbraio 1966, concessione per 15 anni.

La Pertusola riteneva che con i mezzi e la tecnica moderna sarebbe stato possibile esercire con profitto la miniera, ma questa, Rusiana compresa, si dimostrò esaurita o quasi: la produzione che nel 1960 era ancora di 6,400 tonnellate di calamina e 573 di galena, nel 1971 si era ridotta a 2,720 (-57.50%) di calamina e 220 (-61.61%) di galena.

Nello stesso 1971 si arrivò, quindi, all’interruzione definitiva dell’attività di coltivazione, ratificata con DM del 3 febbraio 1975 di accettazione della rinuncia alla concessione da parte del Comune di Auronzo di Cadore (GU 123/1975).


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[1] Organo di governo della Repubblica di Venezia dal 1310 fino alla sua caduta, avvenuta nel 1797; formato da dieci membri, veniva eletto ogni anno dal Maggior Consiglio per sorvegliare sulla sicurezza della Repubblica.

La miniera piombo-zincifera di Salafossa

Geologia e giacimentologia


Il quadro geologico in cui è inserito il giacimento di Salafossa consta di tre settori (fig. 6):

  • il settore orientale (di bacino), dove è presente una potente successione bacinaIe ladino-carnica (235÷225 Ma), formata da sedimenti vulcanoclastici nella parte inferiore (Fm. Buchenstein e Fm. di Wengen auct.) e prevalentemente carbonatico-argillosi (Fm. di S. Cassiano) nella parte superiore.

  • il settore centrale (di piattaforma carbonatica), sede del giacimento, formato dalla Dolomia Cassiana, sempre di età ladino-carnica (230÷225 Ma), che qui cresce direttamente sulla Formazione dell’Acquatona; il complesso immerge verso NO con inclinazione di 25°.

Nella parte sud-orientale di esso, si riconoscono tre unità sovrapposte:

  • la Dolomia Cassiana inferiore, calcareo-dolomitica, con spessore da 150 a 350 m;

  • la Dolomia Cassiana superiore, dolomitica, con potenza media di 350 m;

  • la Dolomia Durrenstein dolomitico stratificata, con spessore massimo affiorante di 200 m.


La Cassiana inferiore è separata dalla Cassiana superiore da un livello della Fm. di S. Cassiano, della potenza massima di 20 m, che si chiude verso NO, dove è ubicato il giacimento.

  • il settore occidentale, comprendente le filladi quarzifere del basamento paleozoico ricoperto in successione dalle unità permiane delle Arenarie di Val Gardena e del Bellerophon.


Questo settore è separato dagli altri due da una faglia inversa che immerge a ESE con inclinazione di circa 30°, delimitando a Ovest tutto il massiccio carbonatico di piattaforma, sovrascorso verso SE su unità bacinali molto deformate.


Il corpo minerario fusiforme di Salafossa è lungo circa 750 m, con la sezione trasversale che oscilla tra 2,500 e i 16,000 m2, con il massimo nella zona centro-meridionale.

La mineralizzazione, rappresentata da blenda con subordinate galena, pirite e marcassite, costituisce in grande prevalenza il cemento di una breccia tettonica a elementi della dolomia incassante, in cui sono evidenti fenomeni successivi e ripetuti di dissoluzione e di collasso che coinvolgono anche i cementi mineralizzati.

Solo localmente sono presenti, nella parte inferiore del corpo minerario, reticoli di piccole cavità interconnesse, rivestite da concrezioni di solfuri colloformi, con abbondante marcasite e, talora, parzialmente riempite da sedimenti dolomitici laminari mineralizzati, contenenti spesso residuo organico scuro e barite.

Per quanto riguarda l’origine della mineralizzazione, tra un’ipotesi idrotermale pura contrapposta a un’origine paleocarsica in corrispondenza ad un’emersione triassica, prevale un’ipotesi intermedia, secondo cui la mineralizzazione sia connessa all’incontro di “brine” metallifere, provenienti dalle unità bacinali eteropiche, con soluzioni contenenti zolfo ridotto provenienti dalle adiacenti evaporiti carbonioso-bituminose permiane (Fm. a Bellerophon), messe in contatto con la dolomia ospite da una discontinuità strutturale, rappresentata dalla superficie di sovrascorrimento (faglia del contatto).

Fig. 6 - a) Paleogeografia del Carnico inferiore; b) sezione in direzione E-O (Assereto et alii, 1977)

Cenni storici


Nelle mappe della Repubblica di Venezia del ‘700 veniva indicata come miniera argentiera perché lo stato quasi puro del materiale (blenda e galena con minime percentuali d'argento), molto brillante alla vista, era tale da sembrare argento.

Nel XVII secolo la miniera era gestita dalla ricca famiglia Poli di San Pietro di Cadore che ne traeva un ingente reddito, tanto da permettere alla stessa di versare alla Repubblica di Venezia, in occasione della guerra di Candia (1663), la cospicua somma di centomila ducati al fine di ottenere titoli nobiliari.

Nei secoli successivi l’attività andò scemando perché era stata privilegiata la coltivazione di altre miniere, come quella di Auronzo, localizzate in siti più agevoli sia per l’estrazione che per il trasporto del minerale alle fonderie.

Più recenti tentativi di attività mineraria, subito interrotti, furono fatti a partire dal 1919 dalla Soc. Atesina, poi dal 1939 dalla Soc. An. Miniere e Cave di Predil.

Solo nel 1959, tuttavia, fu assegnata per la prima volta con DM 18/06/1959 (GU 196/1959) la concessione mineraria alla San Marco S.p.A., per conversione di un omonimo permesso di ricerca.

Con DM 08/10/1964 (GU 296/1964) la concessione passò alla Società mineraria e metallurgica di Pertusola, appartenente al gruppo francese Pennaroya.

La Pertusola, concessionaria ed esercente delle miniere piombo-zincifere di Auronzo di Cadore ormai in via di estinzione (Argentiera, Monte Rusiana e Grigna), decise di concentrare e incrementare l’estrazione del minerale nella miniera di Salafossa, coltivando il giacimento con il sistema a “camere e pilastri” su più fronti con l’avanzamento in gallerie a più livelli di altezza (figg. 7, 8), realizzando un sistema che si sviluppava per circa 32 km in orizzontale e 5 km in verticale, mentre le dimensioni delle camere potevano raggiungere i 30 m in altezza e 200 in lunghezza.

La miniera negli anni ‘60 -‘70 ebbe una attività intensissima e impiegò un numero di addetti che si aggirava intorno alle 200-250 unità, nonostante le oggettive difficoltà logistiche, trattandosi di una miniera di montagna (vedi fig. 9).

Si pensi che in quegli anni si estraevano mediamente 500,000 ton/anno di grezzo (con un massimo di 600,000 t nel 1968), circa il doppio di quanto estratto nella miniera sarda di Ingurtosu, gestita sempre dalla Pertusola. Con questi dati la miniera arrivò a rappresentare la più importante attività economica della zona.

Proprio l’intensità dello sfruttamento, tuttavia, portò a un rapido esaurimento del giacimento e a uno stato di crisi aggravato da una grande frana che nell'agosto 1980 causò gravi danni agli impianti di arricchimento.

Le coltivazioni furono riprese solo nel dicembre 1982 e, nonostante la concessione fosse stata prorogata al giugno 1994 con DM 27 gennaio 1984 (GU 147/1984), proseguirono a ritmo ridotto fino alla chiusura del 1986 con richiesta di rinuncia della Soc. Pertusola alla concessione, accettata con DM 16 settembre 1987 (GU 291/1987).

Fig. 7 - Sezione originale della miniera con il sistema di coltivazione a camere e pilastri

Fig. 8 - Camera di coltivazione come appare oggi a una visita speleologica

Fig. 9 - Salafossa d’inverno con vista sull’ingresso della miniera