Il disastro di Val di Stava

L'impianto di trattamento e i bacini di decantazione della miniera di Prestavel

La miniera di Prestavel era dotata di un importante impianto [1] di trattamento (fig. 1) articolato in tre sezioni:

  • frantumazione, dove il minerale estratto veniva ridotto con un frantoio Pegson, alimentato da un motore elettrico da 35 CV, a una pezzatura massima di 70 mm.

Il frantumato, liberato degli eventuali elementi ferrosi mediante elettromagnete, veniva inviato a un vibrovaglio Wedag per il lavaggio e la classificazione per dimensione in tre gruppi:

  • Ø < 2 mm, inviato al classificatore a spirale dell’impianto di flottazione;

    • 2 < Ø < 16 mm, inviato al silos principale;

    • Ø > 16 mm, inviato al frantoio Simons per ulteriore frantumazione tra 2 e 16 mm e successivo invio al silos principale;

  • macinazione, il grezzo inviato al silos (2-16 mm) era ulteriormente macinato a umido, poi inviato al classificatore a spirale con un mulino a sfere per la macinazione fine.

Il macinato che passava il vaglio del classificatore, equivalente a 65 maglie Tyler (0.211 mm) veniva inviato alla flottazione, il resto era rimacinato;

  • flottazione, con quattro batterie di celle Denver da 1,100 litri: la prima (6 celle) eliminava i solfuri, la seconda (8 celle) sgrossava la fluorite, come la terza, articolata in due gruppi da 2 e 3 celle per due successivi ripassi della fluorite.

La fluorite sufficientemente arricchita dal passaggio in terza batteria, passava alla quarta, mentre il restante tornava alle tre celle finali della seconda batteria.

Nella quarta batteria (7 celle) il prodotto veniva lavato e rilavato e dalle due ultime celle era ricavato il mercantile che prima di essere inviato al relativo silos, veniva privato dell’acqua, addensato e filtrato.

Le torbide [2] con il materiale di scarto (sterile) venivano inviate a un doppio bacino di decantazione con rilevati di sbarramento in terra dove avveniva, mediante un ciclone, la prima separazione del grosso, che veniva usato per innalzare il rilevato, dai fini che costituivano una fanghiglia limosa scaricata a monte del sistema di decantazione, in modo che nel percorso fino a valle il limo si depositava e al pozzetto di sfioro arrivava acqua chiara da reimmettere nel torrente Stava.

Per la realizzazione del bacino di decantazione, il 22 aprile 1961 la Montecatini inoltrò al Genio civile la richiesta di autorizzazione alla costruzione di un rilevato in terra alto 9 metri, in località Pozzole, una zona acquitrinosa con pendenza media del 25 per cento, a una distanza di 800 metri circa e a una quota di 150 metri più elevata rispetto al fondovalle.

Il bacino fu predisposto con la costruzione di un arginello di partenza, costituito da terreno di scavo, da un letto filtrante di fascine e blocchi di basalto, ancorato al terreno naturale mediante un pettine in cemento armato.

Sopra questo arginello di base venne poi via via innalzato l’argine in sabbia, separata mediante idrociclone dalla componente liquida dei fanghi di flottazione (vedi fig. 2).

A fronte dei 9 metri di altezza previsti dalla richiesta di autorizzazione, il primo bacino raggiunse già nel 1969 un’altezza di oltre 25 metri.

Poiché in quell’anno la miniera sembrava quasi esaurita, per non cessare la produzione si pensò di sottoporre a nuova flottazione i limi depositati nel primo bacino e di depositare gli scarti in un nuovo bacino posto a monte del primo.

Nel frattempo vennero tuttavia scoperti nuovi filoni di minerale e il secondo bacino fu utilizzato come discarica della lavorazione della fluorite di nuovo rinvenimento e, in seguito, anche del minerale proveniente da altre miniere.

L’argine di base del secondo bacino fu impostato senza ancoraggio e senza alcun elemento drenante; mano a mano che il rilevato cresceva l’argine si allargava anche verso valle, andando a poggiarsi sui fanghi del bacino inferiore.

Con l'interruzione dell'attività mineraria tra il 1978 e il 1982 i bacini non vennero alimentati, ma nel 1985, anno del crollo, i due bacini di decantazione avevano raggiunto un’altezza complessiva di oltre 50 m con circa 300,000 m3 di materiale e una pendenza degli argini di 39° (fig. 3).

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[1] La capacità dell’impianto era di 200 tonnellate di grezzo al giorno da cui si ricavava un prodotto puro al 97.5%, utilizzando 57 motori elettrici per complessivi 450 CV.

[2] Sotto forma di fango molto liquido (94÷95% di acqua e 5÷6% di minerali di scarto) e nella misura di circa 24,000 m3/mese di acqua e 1,340 ton/mese di sterili.

Fig. 1 – Schema dell’impianto di trattamento della miniera di Prestavel (da Usoni, 1963, e Morra, 1964)

Fig. 2 - Schema di realizzazione degli argini mediante idrociclone

Fig. 3 - I due bacini di decantazione prima del crollo

L’evento del 19 Luglio 1985

Alle ore 12h22’55’’ del 19 luglio 1985 cedette l’arginatura del bacino superiore che crollò sul bacino inferiore che si schiantò a sua volta.

La massa fangosa composta da sabbia, limi e acqua scese a valle a una velocità di quasi 90 chilometri orari, spazzando via persone, alberi, abitazioni e tutto quanto incontrò, fino a raggiungere la confluenza con il torrente Avisio.

Lungo il suo percorso, la colata di fango provocò la morte di 268 persone, la distruzione completa di 3 alberghi, 53 case d’abitazione e 6 capannoni; 8 ponti furono demoliti e 9 edifici gravemente danneggiati.

Uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri ricoprì un’area di 435,000 m2 circa per una lunghezza di 4.2 chilometri.

Dalle discariche fuoriuscirono circa 180,000 m3 di materiale ai quali se ne aggiunsero altri 40-50,000 mila provenienti da processi erosivi, dalla distruzione degli edifici e dallo sradicamento di centinaia di alberi (fig. 4).

Il carosello di immagini che segue testimonia a vari livelli gli effetti catastrofi del crollo dei bacini.

Fig. 4 - I resti delle discariche dopo il crollo

Carosello di immagini, relative al “prima” (sx) e “dopo” (dx) l’evento, che testimoniano gli effetti catastrofici del crollo dei bacini.

Le cause del crollo dei bacini

Secondo il parere dei periti nominati dal Tribunale dopo la catastrofe «le discariche crollarono perché mal progettate, mal costruite e mal gestite senza mai considerare la loro potenziale pericolosità».

Alla base del crollo vi fu un fenomeno ben noto in geotecnica: “la liquefazione per filtrazione”, ossia la perdita di resistenza dei terreni saturi e incoerenti sotto sollecitazioni statiche, in conseguenza delle quali il terreno raggiunge una condizione di fluidità pari a quella di una massa viscosa (“sabbie mobili”).

Tale fenomeno fu provocato, innanzitutto, dall’intensa circolazione idrica sotterranea nei terreni fluvio-glaciali al di sotto dei bacini, particolarmente intensa nei mesi precedenti al crollo che furono caratterizzati da abbondanti precipitazioni e dalla fusione dello spesso manto nevoso accumulatosi nella stagione invernale.

L’elevata pressione idrica nel sottosuolo determinò pertanto l’impossibilità di drenaggio e consolidazione dei limi degli invasi, con aumento progressivo delle pressioni interstiziali e del livello piezometrico all’interno degli stessi argini dei bacini.

Infine, nel gennaio 1985, sei mesi prima del crollo, si verificò l’occlusione di un tubo di scarico dell’acqua nel bacino superiore che fu malamente riparato, senza che ci si rendesse conto della situazione critica che andava delineandosi nonostante vi fosse stato anche un piccolo, ma significativo, smottamento sull’argine destro del bacino superiore.


Le responsabilità penali e il risarcimento del danno

Il procedimento penale, limitato al giudizio circa le azioni e omissioni penalmente rilevanti relative alla costruzione, gestione e controllo del bacino superiore che crollò per primo, si è concluso il 22 giugno 1992, dopo 5 gradi di giudizio, con la condanna di 10 imputati per i reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo.

Furono condannati, con sentenza passata in giudicato, i responsabili della costruzione e gestione del bacino superiore e i dirigenti del Distretto Minerario della Provincia Autonoma di Trento che omisero del tutto i controlli sulle discariche.

Le pene di reclusione furono ridotte e condonate nel corso dei vari gradi di giudizio e nessuno dei condannati ha scontato la pena detentiva.

Vennero condannate al risarcimento dei danni, in veste di responsabili civili per la colpa dei loro dipendenti, le società che ebbero in concessione la miniera di Prestavel nel periodo di costruzione e gestione del bacino superiore o intervennero nelle scelte relative alle discariche: Montedison SpA, Industria Marmi e Graniti Imeg SpA per conto di Fluormine SpA, Snam SpA per conto di Solmine SpA, Prealpi Mineraria SpA e la Provincia Autonoma di Trento.

La ripartizione del danno fra i corresponsabili civili avvenne in modo consensuale sulla base di una sentenza del Tribunale di Trento [3] che aveva previsto di suddividere percentualmente la responsabilità nel disastro di Stava in questi termini: 27% a carico della Provincia autonoma di Trento, 26% a carico di Eni-Snam per conto di Solmine, 16% a carico di Finimeg per conto di Imeg e Fluormine e 31% a carico di Edison per conto di Montedison.

In queste quote era stata prevista proporzionalmente anche la percentuale a carico di Prealpi Mineraria, che nel frattempo era fallita.

I circa 133 milioni di € di danno complessivamente risarcito con l’atto di transazione del 2004 - di cui 74 per il danno propriamente detto e 59 per i soccorsi, il ripristino e la ricostruzione - furono, quindi, così ripartiti:

  • 37 (20 + 17) milioni dalla Provincia Autonoma di Trento

  • 41 (23 + 18) milioni dalla Edison

  • 34 (19 + 15) dall’ENI-SNAM

  • 21 (12 + 9) dalla Finimeg


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[3] Annullata successivamente dalla Cassazioni per soli motivi di competenza, ma accettata dalle parti.